In Israele l'esercito è gay friendly

venerdì 15 giugno 2012


Altro che l'ipocrita "don't ask, don't tell" inventato da Bill Clinton per i gay nelle forze armate americane. In vista della stagione dei "gay pride" mondiali, le "Israeli Defence Forces" si dimostrano più che gay friendly, lanciando persino una pagina Facebook dove si vedono in foto due soldati che si tengono per mano teneramente. Due dello stesso sesso ovviamente. La didascalia poi non lascia spazio ad ambiguità: «È il mese dell'Orgoglio. Lo sapete che l'Idf tratta tutti i suoi soldati allo stesso modo?».

La foto è stata postata lunedì tre giorni dopo il Gay Pride a Tel Aviv. Ad avere l'idea è stato l'Interactive News Desk dell'ufficio del portavoce delle Forze Armate. «Questo è sicuramente un successo», ha commentato un ufficiale sul Jerusalem Post, «perché racconta una storia diversa sull'esercito che è importante condividere con il mondo». Naturalmente i commenti dei post su Facebook non sono tutti poltically correct: c'è chi si vergogna del fatto che i due fotografati, di spalle, siano soldati, c'è chi dice che ci sono problemi più importanti di cui occuparsi, tipo l'Iran, Hamas, Gaza e il terrorismo islamico e via di seguito. Inoltre non è tutto oro ciò che luce: lo scorso gennaio uno studio pubblicato dall'«Israel Gay Youth Movement» ha rivelato che la metà dei soldati omosessuali in servizio subiscono violenza fisica e psicologica tra l'indifferenza dei comandanti. «Il nostro studio dimostra che esistono ancora dei problemi all'interno dell'esercito nell'accettare gli omosessuali anche se sono felice di dire che l'intenzione del comando è di cambiare questa situazione» ha dichiarato al Jerusalem Post Avner Dafni, capo dell' organizzazione su citata.

Comunque questa cosa la si voglia interpretare, propaganda, ostentazione, richiesta di riconoscimento di una giusta posizione politica, di fatto Israele è l'unico Paese dove la distanza tra le istituzioni e i cittadini viene in parte colmata con iniziative coraggiose e concrete. Fatto che a livello internazionale viene sempre negato o ignorato in maniera dolosa. Si veda da ultimo il caso delle Olimpiadi di Londra. Nessuno vuole pelare questa patata bollente di rendere omaggio ai 13 atleti massacrati a Monaco il 5 settembre 1972 dagli uomini di Arafat e Abu Mazen, non da Hamas. Eppure, sempre sui social network, pullulano i gruppi che chiedono al comitato olimpico internazionale di dire una parola coraggiosa e liberatoria su questo problema. Uno degli appelli più commoventi è quello lanciato dagli ex amici di Mark Slavin, lottatore greco romano della Bielorussia, un ebreo che fece "alyah" tre mesi prima di Monaco per partecipare a quelle Olimpiadi sotto la bandiera israeliana. Eccone uno stralcio: «Nel maggio del 1972 sono riuscito ad emigrare in Israele e a iscrivermi al "Wintgate sports institute", Centro Nazionale per l'Educazione Fisica e Sport di Israele. Sono stato preparato da Moshe Weinberg e sono fra i favoriti per la medaglia d'oro alle olimpiadi di Monaco 1972. Il mio incontro era previsto il 5 settembre 1972. Sono stato sequestrato nell'alloggio della squadra israeliana al villaggio olimpico e ucciso da un gruppo di terroristi palestinesi».


di Dimitri Buffa