La Siria, tra interventisti e scettici

giovedì 7 giugno 2012


A Istanbul, i ministri degli Esteri dei Paesi occidentali e mediorientali più attivi nella crisi siriana si sono riuniti per studiare una transizione di Damasco dalla dittatura alla democrazia. In questi due mesi, il piano di Kofi Annan ha dimostrato di non poter funzionare.

Una transizione necessita, a questo punto, una qualche forma di intervento esterno. Il dibattito già ferve negli Stati Uniti. Rispetto ai tempi della Guerra in Iraq, le posizioni politiche si sono, grosso modo, invertite: sono gli opinion maker progressisti che puntano ad intervenire, mentre i conservatori frenano. Certo: ci sono delle eccezioni che confermano la regola. Ad esempio, il neoconservatore John McCain (ex candidato repubblicano alle elezioni del 2008), assieme al senatore indipendente Joseph Liebarman, ad aprile hanno visitato la frontiera insanguinata turco-siriana per chiedere, con più vigore, un'azione americana che rovesci il regime di Assad, da sempre nemico di Usa e Israele. Ma dalle colonne della National Review vengono ripresi dallo storico militare Victor Davis Hanson, interventista convinto ai tempi del conflitto iracheno, ma quantomeno scettico sulla possibilità di combattere al fianco delle "Primavere Arabe". «Nel caso della Siria - scrive Davis Hanson - gli ovvi vantaggi della fine del regime di Assad (dare libertà al popolo, fermare l'eccidio, fermare la corruzione siriana del Libano, disgregare l'asse Iran-Hezbollah-Siria) sono, per ora, soverchiate da un buon numero di ragioni contrarie». Fra queste, lo storico militare conservatore, cita il pericolo che correrebbero le minoranze religiose ed etniche «nel caos che verrà», l'incertezza sulla composizione del fronte di oppositori «con il rischio che si voti per una sola volta, sul modello della vittoria degli islamisti a Gaza» e infine un rischio politico: «Non siamo responsabili delle violenze di Assad, ma potremmo esserlo di quelle scatenate dai suoi successori, visto quel che sta avvenendo in Libia, con la sua coda di assassinii razziali e politici».

Un altro conservatore, Max Boot, non è d'accordo e scrive le sue ragioni su un quotidiano liberal, il Los Angeles Times: «Dopo l'Olocausto e il genocidio in Ruanda, il mondo ha detto: mai più. E vi furono interventi per fermare i massacri in Bosnia, Kosovo e Libia. Ma questi sono stati l'eccezione, non la regola. Anche oggi, benché si assista all'orrenda violenza in Siria, gli Usa e i suoi alleati trovano sempre ragioni per limitare la loro risposta». Fra le ragioni per l'intervento, Boot cita anche la sponsorizzazione di Hamas e Hezbollah da parte di Assad, oltre ai legami del dittatore con il regime iraniano, cioè «il nemico numero uno». Con questi argomenti, James Rubin (diplomatico e uomo dell'amministrazione Clinton, negli anni '90) scrive sul Foreign Policy che un intervento in Siria porti più vantaggi che rischi: «La Libia era un caso più facile. Ma, al di là del lodevole risultato di aver salvato migliaia di civili da Muhammar Gheddafi, l'intervento non ha provocato conseguenze degne di nota nella regione. La Siria è un caso molto più difficile, ma un successo cambierebbe il volto del Medio Oriente. Non solo un altro dittatore sanguinario soccomberebbe alle masse popolari, ma l'Iran perderebbe il suo avamposto mediterraneo, quello da cui minaccia Israele e destabilizza la regione».


di Giorgio Bastiani