Chen e Afridi, il "lato oscuro" del lieto fine

sabato 26 maggio 2012


Anche nelle storie a lieto fine, c'è un rovescio della medaglia. Un finale tragico, meno conosciuto, che segue la buona notizia e ottiene meno visibilità mediatica. Chen Guangcheng è in salvo negli Stati Uniti, assieme alla moglie e ai figli. La sua fuga «…rappresenta una pietra miliare nella causa per i diritti umani in Cina. Il coraggio di Chen Guangcheng nel rischiare la propria vita e il proprio benessere per gli svantaggiati è un'ispirazione per tutti coloro che, nel mondo intero, cercano la libertà», ha commentato Nancy Pelosi, ex speaker della Camera negli Usa. Ma gli altri parenti di Chen, suo fratello maggiore e suo nipote, sono rimasti in Cina, ostaggi delle autorità di Pechino. Chen Guangfu, fratello di Guangcheng, ieri è riuscito a fuggire dalla stretta sorveglianza a cui è sottoposto e sta cercando disperatamente un modo di salvare suo figlio, Kagui, arrestato per un omicidio che non ha mai commesso.

Osama Bin Laden è stato ucciso dai Navy Seals americani e a New York, non lontano dal cantiere del World Trade Center in ricostruzione, gli americani hanno festeggiato la grande vittoria. Ma uno degli uomini-chiave dell'operazione che ha portato all'uccisione dello sceicco del terrore, il medico pakistano Shakil Afridi, è stato incarcerato dagli "alleati" di Islamabad, proprio a causa della sua collaborazione con la Cia. In entrambi i casi, viene da chiedersi quanto gli Usa riescano ancora ad estendere la loro protezione sugli uomini che si battono per i loro stessi ideali di libertà e, nel caso del medico pakistano, coloro che collaborano con la loro stessa sicurezza.

Nella Repubblica Popolare Cinese la possibilità di azione per gli Stati Uniti è minima. Ma per almeno sei giorni, Chen Guangcheng è stato ospitato, in segreto, nell'ambasciata americana. Quando Hillary Clinton, segretario di Stato, è andata in visita in Cina, lo ha restituito alle autorità di Pechino. Non è ancora nota la dinamica completa degli eventi. Ma è presumibile che, durante la sua visita, la Clinton abbia ottenuto una promessa sul suo espatrio. La dinamica di quanto è accaduto è rivelatrice dello spirito di compromesso con cui si sono mossi gli americani: cercare di equilibrare la salvezza di un uomo (e della sua famiglia) con la volontà politica di non far perdere la faccia a Pechino e mantenere buoni rapporti con il regime cinese. Tuttavia è ormai chiaro che l'accordo riguardasse il solo Chen Guangcheng, sua moglie e i suoi figli. E non riguardasse l'incolumità degli altri suoi familiari. Chen Guangfu, fratello maggiore del dissidente, è stato posto, assieme a tutta la sua famiglia, agli arresti domiciliari, sotto stretta sorveglianza, a Dongshigu, nella provincia dello Shandong. Guangfu è stato interrogato e torturato dalla polizia. Oltre agli arresti ha dovuto subire una serie di aggressioni da parte di "teppisti" evidentemente lasciati passare dalla polizia. Suo figlio, Kegui, in uno di questi raid, ha tentato di difendersi con un coltello da cucina e ha ferito, in modo non grave, tre dei suoi assalitori. Immediatamente dopo la defezione di Chen Guangcheng, Kegui è stato arrestato per "omicidio intenzionale". Guangfu, ancora agli arresti domiciliari, è riuscito a fuggire, dribblando la sorveglianza della polizia. È di ieri la notizia della sua "ricomparsa" a Pechino, dove ha contattato l'avvocato Ding Xikui, noto per altre cause in difesa dei diritti umani. Guangfu, infatti, non si fida degli avvocati assegnati dallo Stato, che potrebbero avallare una condanna di suo figlio dopo un processo farsa. Gli Usa potranno fare ancora qualcosa? Difficile dirsi. È già tanto che siano riusciti a far fuggire un dissidente cinese con la sua famiglia. Adesso è molto poco probabile che si possano spendere ancora per chi ha avuto la disgrazia di rimanere nelle mani delle autorità cinesi. Ma in questo modo, la libertà di Chen Guangcheng, anche negli Usa, sarà molto limitata. Praticamente: vigilata a distanza. Sarà costretto a rimanere in silenzio e "rigare diritto", altrimenti, se dovesse riprendere la sua campagna di denunce pubbliche, i suoi parenti in Cina potrebbero subire le peggiori conseguenze.

È molto più imbarazzante, per gli Usa, il caso di Shakil Afridi, in Pakistan. La Cia lo ha usato, facendogli condurre una campagna di vaccinazioni ad hoc, nella cittadina di Abbottabad. Il risultato dell'operazione è stato ottimo: i servizi segreti americani sono riusciti a procurarsi il Dna di uno dei bambini presenti nel compound di Bin Laden. Appurato che si trattava di un suo parente, gli Usa hanno avuto la certezza che lo sceicco del terrore si nascondesse proprio lì. A questo punto sarebbe stato possibile far espatriare il dottor Afridi negli Usa, fornirgli una falsa identità e regalargli una seconda vita. Non è stato fatto niente di tutto questo. Il medico che ha collaborato con la Cia è rimasto in Pakistan ed è stato arrestato per tradimento 20 giorni dopo l'uccisione di Bin Laden. Perché, nonostante sia formalmente alleato degli Usa, il governo di Islamabad considera l'uccisione di Bin Laden una violazione americana della sua sovranità. Mercoledì, Afridi è stato condannato a 30 anni di carcere, più una multa di 3500 dollari. Se non dovesse riuscire a pagarli, si beccherebbe altri 3 anni di carcere, per un totale di 33 anni. Mentre, durante l'operazione di Abbottabad e nei 20 giorni successivi, gli Usa avrebbero avuto molte possibilità di salvare il dottor Afridi, oggi possono fare ben poco. Se non protestare con Islamabad, come hanno fatto ieri. Il Congresso ha votato una risoluzione che taglia 33 milioni di dollari (1 milione per ogni anno di carcere inflitto al dottore) spesi in aiuti americani al Pakistan. Perché gli Usa, nonostante tutto, continuano ad aiutare il Pakistan con finanziamenti che, in media, ammontano a 3 miliardi di dollari all'anno, dal 2002 ad oggi. Contemporaneamente al piccolo (33 milioni su 3 miliardi non è molto) taglio deciso dal Congresso, Hillary Clinton ha rilasciato una dichiarazione in cui "disapprova" la sentenza. Lapidaria la risposta del ministero degli Esteri di Islamabad: «Dal momento che il caso Afridi riguarda le leggi e una sentenza pakistane, ciascuno di noi deve rispettare le leggi e le sentenze dell'altro». Della serie: "sono affari nostri". Ma allora è ancora un affare sicuro collaborare con gli Usa? O cercare di fuggire nella terra della libertà?


di Stefano Magni