2014: la fuga disordinata da Kabul

mercoledì 23 maggio 2012


Exit strategy per l'Afghanistan, ecco le date: sin da subito finirà la missione francese di combattimento, entro il 2013 la missione Isaf passerà il comando operativo all'esercito nazionale afgano, entro il 2014 tutte le truppe Nato saranno ritirate dal Paese. Questo è un calendario del ritiro stabilito al summit della Nato di Chicago. Ma è una strategia.

No, a detta di Henry Kissinger, che dal 1969 al 1973, formulò e mise in pratica una vera exit strategy: quella dal Vietnam. Le forze armate americane passarono le consegne all'esercito sudvietnamita. Alla fine del 1973, l'alleato locale era "il più potente del Sudest asiatico" e aveva solo bisogno di un appoggio esterno. La strategia ebbe successo? No, perché il Congresso Usa, democratico, si oppose ad ogni aiuto a Saigon. E il Vietnam del Sud, nel 1975, venne travolto dal Nord comunista. Kissinger, però, ha ancora diritto di parola in qualità di esperto di exit strategy: almeno ci provò.

Quando Kissinger afferma (fin dal 2010) che quella dall'Afghanistan è una politica concentrata sull'exit ma non sulla "strategy", intende dire che non è stato fatto nulla, neppure un tentativo, per creare un ambiente favorevole a una pacificazione dell'Afghanistan dopo il ritiro delle truppe straniere. Né è stato fatto qualcosa di concreto per evitare che, dopo il 2014, scoppino conflitti peggiori. Un anno fa, in un editoriale pubblicato dal Washington Post, l'ex segretario di Stato di Nixon avvertiva quale fosse il pericolo di una mancata soluzione strategica: «La percezione della sconfitta di una grande potenza mondiale, può dare nuovo impeto allo jihadismo regionale e globale. (…) La conseguenza può essere una guerra per procura secondo linee etniche in Afghanistan e altrove, specialmente fra un'India e un Pakistan entrambe dotate di armi atomiche. Gli altri vicini dell'Afghanistan correrebbero rischi analoghi, se dovesse insediarsi un nuovo regime talebano. Ogni vicino sarebbe minacciato: la Russia nel suo Sud musulmano, la Cina nel Xinjiang, l'Iran sciita da un regime sunnita».

È stato fatto qualcosa per evitare questo scenario da incubo? No, perché il summit Nato di Chicago non è neppure riuscito a raggiungere un accordo con il solo Pakistan, che dal novembre 2011 ha blindato le sue frontiere, impedendo il passaggio dei rifornimenti della Nato. E non intende riaprirle. Quanto al passaggio di consegne ad un esercito nazionale afgano (che in 11 anni di riorganizzazione non è ancora pronto): «Rimane una teoria non dimostrata invece che una realtà consolidata». Parola di Ronald Neumann, ex ambasciatore statunitense a Kabul. Il calendario del ritiro rimane invariato. A dettare l'agenda è stata l'opinione pubblica di tutti i Paesi occidentali coinvolti, ovunque stanca del lungo conflitto. Obama aveva promesso di ritirare le truppe dall'Iraq proprio per vincere la guerra in Afghanistan. Dava la colpa a Bush e alla sua presunta disattenzione al fronte afgano. Ma dopo quattro anni di "guerra per necessità" e due comandanti in capo sostituiti da Obama, i risultati non si vedono. Ora, se vuole vincere le elezioni, deve promettere un ritiro da completare il prima possibile. Queste sono le ragioni del disimpegno. Non la sicurezza regionale. Né una vittoria (che non c'è) sui Talebani.


di Stefano Magni