mercoledì 9 maggio 2012
Poteva essere un massacro. Di nuovo. Una cellula di Al Qaeda nella Penisola Arabica, basata nello Yemen, stava organizzando un attentato contro un aereo civile americano. Sarebbe stata utilizzata una tecnica simile al fallito attacco del Natale 2009, quando un singolo terrorista suicida, Faruk Abdulmutallab, con una bomba nascosta nelle sue mutande, cercò di farsi esplodere su un volo per Detroit. In quel caso la strage fu sventata solo per un colpo di fortuna: la bomba di Abdulmutallab non esplose per motivi tecnici.
In quest'ultimo caso, il piano terroristico sarebbe stato sventato alla sua origine, stando alle informazioni diffuse dalle autorità americane. Un infiltrato nella cellula di Al Qaeda avrebbe giocato un ruolo chiave, permettendo l'uccisione del suo capo, Fahd Al Quso, colpito da un drone americano nello Yemen, domenica. Il materiale esplosivo è stato portato negli Usa ed esaminato dall'Fbi.
Funzionari yemeniti hanno affermato di essere completamente
all'oscuro del complotto in corso. Ma c'è da fare la tara sulle
loro dichiarazioni, perché sono esposti in prima persona alle
rappresaglie, in uno Yemen ancora fortemente anti-occidentale,
rischierebbero la vita. I tempi di questa operazione coincidono con
un altro evento molto pubblicizzato, il processo ai cinque uomini
ritenuti responsabili dell'11 settembre: Khalid Sheik Mohammad,
Ramzi Binalshib, Waled Bin Attash, Mustafa Ahmad al Hawsawi, Alì
Abdalaziz Alì. Saranno giudicati da una corte marziale a
Guantanamo. Il processo sta sollevando un vespaio di polemiche. Le
riforme introdotte dal Congresso democratico nel 2009 hanno vietato
l'uso delle testimonianze ottenuti nei "siti neri" della Cia.
Possono essere usate ancora solo alcune forme di testimonianza
rilasciate (o estorte) da sospetti jihadisti rapiti nelle ormai
famose operazioni di "extraordinary rendition".
I difensori dei diritti umani in America contestano, però, la sede
stessa del processo: chiedono di trasferirlo in un tribunale
civile. Gli avvocati difensori dei cinque imputati stanno
applicando tattiche dilatorie, mettono in discussione la legalità
di tutto il procedimento e vorrebbero ottenere un rinvio all'anno
prossimo. Dall'altra parte, le famiglie delle vittime dell'11
settembre presenti al dibattimento sono sconcertate dalle garanzie
riservate a coloro che, con tutta probabilità, sono gli assassini
dei loro cari, fra i 2967 caduti di New York e Washington. Sono
addolorati nel vedere che gli imputati parlino fra loro, leggano i
giornali, preghino e ignorino la corte, come riporta il
corrispondente del "The Guardian". E sono costernati nel vedere
quanta attenzione venga riservata loro: un avvocato difensore ha
chiesto a tutte le donne dalla parte della pubblica accusa di
indossare il velo. Per non indurre il suo cliente a commettere un
peccato quando le guarda.
A giudicare da come viene gestito il processo, l'11 settembre
sembra un evento lontano e privo di seguito. Forse nessuno si rende
conto che la guerra, dichiarata da Al Qaeda, non è affatto finita.
Che il rischio è ancora altissimo. E che, se non ci fosse
un'attività militare costante, con i droni, le spie e le
"eliminazioni mirate" (altro che processi civili!), molti altri
uomini, donne e bambini perderebbero la vita, anche oggi
stesso.
di Stefano Magni