Dalla Primavera Araba all'autunno jihadista

domenica 6 maggio 2012


"Primavera araba", chi la capisce? Gli interrogativi su quel che sta avvenendo dall'inizio del 2011 ad oggi sono maggiori delle certezze. «Io non sono un esperto di meteorologia, ma parlare di "primavera" mi sembra azzardato. Perché invece di vedere finalmente arrivare un'estate della democrazia, stiamo assistendo ora all'inizio di un lungo e doloroso autunno politico», esordisce Riccardo Redaelli, professore associato di Storia delle Civiltà e delle Culture Politiche all'Università Cattolica di Milano.

Lo dice nel primo intervento di un lungo convegno internazionale, con relatori civili e militari, su "La Nato e il Mediterraneo allargato". Si è svolto questa settimana all'Università Cattolica, organizzato dal Dipartimento di scienze politiche in collaborazione con Ispi (Istituto Studi Politica Internazionale), con il patrocinio della Nato e del Comando Militare Esercito Lombardia, proprio per cercare di sbrogliare la matassa di informazioni (e disinformazione) sugli eventi del Medio Oriente e sul nuovo ruolo della Nato nella regione dopo l'intervento in Libia. «Da un lato si cade nel luogo comune della rivoluzione democratica innescata dai social media. E sappiamo che non è questa la realtà del Medio Oriente - spiega a L'Opinione il professor Massimo De Leonardis, direttore del Dipartimento di scienze politica dell'Università Cattolica - Dall'altro troviamo una forma di estremo "realismo", che diventa anch'essa un luogo comune: il timore che si crei una situazione peggiore di quella preesistente, all'insegna del vecchio motto: "si stava meglio quando si stava peggio". Il rischio c'è indubbiamente: il vincitore, nel medio periodo, è un insieme di gruppi che si fanno portavoce di una visione del mondo molto diversa da quella che noi auspichiamo».

Lo scetticismo del professor De Leonardis sul termine "primavera" è ben comprensibile. Soprattutto se vediamo che i maggiori beneficiari delle rivoluzioni, già riuscite, in Tunisia, Egitto e Libia sono soprattutto le frange più radicali del fondamentalismo islamico. Gli attori internazionali che più si stanno avvantaggiando della nuova situazione sono la Turchia, l'Iran e l'Arabia Saudita, i cui interessi sono fra loro divergenti e, nel caso dell'Iran, in rotta di collisione con l'Occidente. Da Riyad e dal Golfo, come spiega il professor Redaelli, sta partendo una lunga onda di islamizzazione radicale, già ben visibile in Egitto: «Le donne scompaiono dietro a un niqab, il velo integrale, che non fa parte della tradizione del Cairo e di Alessandria. E dai locali pubblici spariscono le birre e gli alcolici, con rapidità impressionante». Ma anche nella vicina Tunisi: «Certi quartieri assomigliano ormai a Kandahar», il cuore del movimento talebano in Afghanistan. Anche la Turchia, come spiega il generale Carlo Jean, sta approfittando del momento per risvegliare la sua politica neo-ottomana.

Dobbiamo attenderci il peggio? Sì, e non è affatto una novità secondo l'eurodeputato Magdi Cristiano Allam (parlamentare del gruppo Europa della Libertà e della Democrazia): «Questo è il frutto di un processo graduale e inarrestabile: dobbiamo ricordare, prima di tutto che, fino al VII Secolo tutto il Mediterraneo era cristiano. Arrivando ai giorni nostri, nel 1945, i cristiani, in questa regione, arrivavano a rappresentare il 30% della popolazione, oggi si sono ridotti a meno del 3%. Fino alla metà del secolo scorso, c'erano Paesi interi a maggioranza cristiana. Oggi i cristiani sono ovunque minoranza. E sono, più di altre, una minoranza perseguitata: subisce violenze e massacri per ragioni che sono palesemente scritte nel Corano e inequivocabilmente espresse dal comportamento di Maometto». Non si possono rimpiangere i dittatori del passato, buttati giù dalla "Primavera". Perché è prevalentemente loro la colpa dell'islamizzazione nei sei decenni scorsi. «Essi hanno sempre usato un doppio linguaggio: laici e modernizzatori quando parlavano all'Occidente, mentre all'interno dei loro Paesi islamizzavano la società. Ritenendo che questa islamizzazione garantisse un maggior controllo del loro fronte interno». Una responsabilità grave ricade anche sull'Occidente e proprio sui suoi due ex leader, George W. Bush e Tony Blair, ritenuti a torto come "crociati". Secondo Allam, sono stati proprio loro a «inaugurare, nel gennaio del 2006, la stagione dell'avvento al potere dei Fratelli Musulmani. Si erano resi conto che le guerre in Afghanistan e in Iraq non avevano provocato gli effetti voluti. Non erano riuscite a piegare il terrorismo di Al Qaeda. E fu allora che, per garantire sicurezza all'Occidente, conclusero un accordo con i Fratelli Musulmani, rivali interni dei salafiti e degli jihadisti. Il patto fu in questi termini: noi vi legittimiamo, in cambio ci date una mano a sconfiggere Bin Laden». Ora Allam mette in guardia l'opinione occidentale di fronte alla rivoluzione incompiuta: quella in Siria. «Noi stiamo aiutando delle bande armate dei Fratelli Musulmani, dei gruppi terroristici emanazione di Al Qaeda. E i nostri giornali, vergognosamente, li definiscono "attivisti". Si deve comunque avere un atteggiamento di condanna nei confronti del regime di Assad. Che è indifendibile. Ma dobbiamo ascoltare quei due milioni di cristiani che ci supplicano: "Per favore, non sostenete chi ci sta assassinando!"».

La paura che l'estremismo islamico esondi in Europa è giustificata. «Di fatto è già esondato - spiega a L'Opinione il professor De Leonardis - e non è una novità. Solo la settimana scorsa è stato arrestato un italiano, non un immigrato, convertito all'Islam fondamentalista, che stava preparando attività terroristiche. Il problema europeo è sotto gli occhi di tutti. Fra gli immigrati, le seconde e terze generazioni sono molto meno integrate della prima. Come è già ben noto in Gran Bretagna le prime generazioni arrivavano per lavorare, aprire negozi e integrarsi nella società occidentale. I loro nipoti, cercando di riscoprire la loro identità, spesso finiscono nel fondamentalismo. Purtroppo questo è uno schema sempre più diffuso».

Che fare? La risposta di Magdi Cristiano Allam è chiara: «Dobbiamo capire, prima di tutto, chi siamo noi. Ricordarci delle nostre radici giudaico-cristiane». Il professor Gianluca Pastori, realista, ammiratore di Henry Kissinger, ritiene invece che, più che una risposta culturale occorra una risposta politica tradizionale, un nuovo "Congresso di Vienna" per ristabilire un assetto stabile in un Medio Oriente sempre più volatile. «Arabia Saudita e Iran sono sempre stati visti come i due pilastri del mondo islamico. L'una è l'emblema della conservazione sunnita, l'altro della rivoluzione sciita. Oggi la loro stabilità sta cambiando - spiega a L'Opinione il professor Pastori - Poggiano su un terreno molto più mobile e incerto. Un mondo, solo apparentemente rigido quale è quello del Golfo, sta cambiando. C'è una maggior richiesta di partecipazione politica, sia da parte della popolazione che delle élite. È venuto meno il ruolo delle potenze mondiali che, dall'esterno, avevano sempre garantito l'equilibrio della regione: penso al vecchio ordine della Guerra Fredda a cui è subentrato un ruolo sovra-ordinario degli Stati Uniti». Ma l'Iran è o non è più una potenza rivoluzionaria destabilizzante? « Il ruolo rivoluzionario di Teheran è destinato a diventar sempre più forte se l'Iran rimarrà una potenza esclusa. Deve decidere se "rimanere una causa" o "diventare una nazione", ma la possibilità che compia questa scelta dipenderà da come le altre potenze lo tratteranno. In questo momento sono in corso negoziati sul nucleare: credo che questo possa essere un buon punto di partenza». Ma Israele teme l'annientamento, se l'Iran si dovesse dotare dell'atomica… «Mi chiedo quanto la posizione israeliana sia di facciata. Il governo israeliano, presumo, è consapevole che l'interlocutore iraniano sia razionale e non rischierebbe mai un'escalation».

Di soluzioni politiche, già fallite, ci parla anche il professor De Leonardis. Definisce «un cimitero di intenzioni» tutti i tentativi di cooperazione euro-mediterranea. «E sono molto perplesso sugli interventi umanitari, come quello in Libia - spiega a L'Opinione - In politica estera si deve seguire quella che Max Weber definiva "etica della responsabilità". Tenere ben conto di quel che saranno le conseguenze delle proprie azioni. Non si deve seguire l'etica del principio: fare quel che si ritiene giusto senza valutare le conseguenze. Al di là della missione in Libia, quel che mi preoccupa è quel cimitero di intenzioni costituito da tutti i progetti abortiti di cooperazione e partnership rivolte all'altra sponda del Mediterraneo. Sarebbe ora di rilanciare una nuova politica per la regione, ma mi rendo conto che il momento è il peggiore. Siamo ripiegati su noi stessi, siamo in crisi. Quante volte si è sentito parlare del "piano Marshall per la sponda Sud"? Tantissime. Ma se i soldi mancano per noi…».


di Stefano Magni