Gaiani: «Come calare le braghe con l'India»

sabato 21 aprile 2012


È stato raggiunto un accordo per un indennizzo alle famiglie dei due pescatori rimasti uccisi il 15 febbraio scorso nell'incidente a largo della costa del Kerala in cui sono coinvolti i due marò italiani detenuti in India. Lo riporta il Times of India, precisando che, secondo le prime indicazioni, sarà pagata a ciascuna delle famiglie la somma di 10 milioni di rupie (circa 146mila euro). Secondo quanto si legge sul sito del quotidiano indiano, «un team composto da funzionari del ministero della Difesa e del ministero degli Esteri italiano hanno condotto nei giorni scorsi i colloqui con i legali che rappresentano le famiglie dei due pescatori, Valentine Jelestine e Ajeesh Pink». Non è ancora giunta alcuna conferma dalla Farnesina. Ma Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa, è quasi del tutto convinto che la stampa indiana abbia ragione. Perché il pagamento dell'indennizzo, che equivarrebbe a un'ammissione della colpevolezza dei marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, sarebbe perfettamente coerente con l'atteggiamento finora tenuto dal ministro dal governo Monti. «Il nostro esecutivo, nella gestione di questa crisi, si è dimostrato incapace, se non in aperta malafede - commenta Gaiani, che ha seguito, giorno per giorno, tutta la vicenda dei nostri marò - Sul fronte mediatico, per 48 ore sono stati solo gli indiani a diffondere la loro versione. E i media del resto del mondo hanno ripreso le loro notizie, dando degli assassini ai nostri militari senza che vi fosse alcuna dichiarazione di smentita da parte del governo. Da quando siamo in ballo, la Farnesina sta difendendo solo una posizione: quella della competenza giurisdizionale, (processarli in Italia invece che in India, ndr), ma non ha mai difeso l'innocenza di Latorre e Girone. Cosa che invece deve essere fatta, perché non c'è alcuna prova che dimostri la loro colpevolezza».

Quali sono le prove che mancano o su cui è lecito dubitare?
«Basta sentire solo quello che hanno detto gli indiani. Il rapporto balistico non è ancora ufficializzato, ma gli indiani hanno fatto trapelare molte cose ai loro media. Da cui sappiamo che: poco dopo l'incidente del 15 febbraio, l'anatomo patologo Sisikala dichiarò che le dimensioni dei proiettili trovati nei corpi delle due vittime fossero quelle di un calibro 13mm, quello di un'arma pesante, un fucile di precisione o una mitragliatrice. Le misure che aveva dato facevano pensare ad armi che gli italiani non usano più e comunque non in dotazione al Battaglione San Marco, quello dei due marò. Quei proiettili potrebbero essere provenienti, piuttosto, ad armi di fabbricazione russa, in dotazione alla guardia costiera dello Sri Lanka. Che spesso spara su pescatori indiani, quando questi vanno a pescare nelle acque cingalesi. Dopo che era emerso questo dato, i media indiani hanno cambiato versione sui risultati della perizia balistica. Fino a una settimana fa, infatti, si parlava di calibri 5,56, che possono essere sparati da un Beretta Rx 160, che il San Marco ha in dotazione. Ma solo come arma sperimentale. I ragazzi imbarcati sulla petroliera Enrica Lexie, non lo avevano. E adesso, allora, è spuntata una terza versione sull'esito della perizia balistica: si parla dei fucili d'assalto Beretta Ar 70-90. Il dramma qual è? Che i periti indiani possono benissimo aver testato i fucili sequestrati a bordo della Enrica Lexie (che è ancora costretta in porto a Kochi e lo sarà anche per i prossimi 10 giorni, ndr), per poi dichiarare che le ferite trovate sui corpi delle vittime fossero provocate proprio da quelle armi. I periti italiani hanno potuto osservare solo una parte dell'esame balistico, solo alle prove di sparo, non agli esami successivi. Il dubbio, poi, viene soprattutto per i tempi. Se avessero trovato realmente una prova concreta (e non ci vuole molto per trovarla, quando hai i corpi delle vittime), gli indiani l'avrebbero già ufficializzata da due mesi. Perché ci basiamo solo su quel che trapela ai media? Perché evidentemente gli indiani non hanno niente per le mani».

Vogliamo parlare dell'attendibilità delle testimonianze, allora?
«Il comandante del peschereccio St. Antony, nelle sue prime dichiarazioni "a caldo", aveva affermato di non aver visto neppure da dove provenissero i colpi. Solo dopo che era stata fermata la Enrica Lexie e dopo l'arresto dei due marò italiani, ha dichiarato di aver riconosciuto quella nave. E di aver ricevuto una "pioggia di colpi". Peccato però che i colpi trovati sul St. Antony provenivano da una postazione di fuoco collocata alla sua stessa altezza. Alcuni provenivano anche dal basso. Mentre i colpi sparati dal ponte di una petroliera quale è la Enrica Lexie, sarebbero dovuti arrivare tutti dall'alto. La testimonianza dei pescatori è poi cambiata una terza volta. Iniziato il processo, improvvisamente, si ricordavano ogni dettaglio. Eppure il loro comandante ha affermato di aver sentito il nome "Enrica Lexie", per la prima volta, solo dalla polizia. Dopo l'incidente».

Se si tratta di disinformazione, che interesse avrebbe il governo indiano a coprire i pescatori?
«Evidentemente vogliono nascondere almeno due verità scomode. Prima di tutto, i loro cittadini che vanno a pescare, illegalmente, nelle acque dello Sri Lanka. Perché è molto probabile che siano stati i cingalesi a sparare al St. Antony. E l'altra cosa che vogliono nascondere è che anche l'India ha i suoi pirati costieri, benché partecipi alla lotta anti-pirateria in Somalia». 

Che cosa affermano le testimonianze italiane?
«Il rapporto stilato dal comandante della nave e dalla task force di marò dice chiaramente che, il 15 febbraio, i nostri uomini abbiano sparato in mare, davanti alla prua di un'imbarcazione che si stava avvicinando in modo sospetto. Secondo: quell'imbarcazione non era il St. Antony. Aveva altre dimensioni, altri colori, un'altra forma. La dichiarazione dei nostri soldati, per il governo italiano, dovrebbe valere come prova di innocenza. Fino a che qualcuno non sia in grado di dimostrare il contrario».

E allora perché il governo non ne tiene conto?
«Il nostro esecutivo, evidentemente, ha preferito calar le braghe con un Paese del Terzo Mondo».


di Stefano Magni