II
CULTURA
II
L’ultimo giro di giostra ha l’odore dellaTempesta
di
GRAZIELLA BALESTRIERI
noculare al mondo la disillu-
sione» dello scrittore Henry
Miller è sempre stato il suo credo.
Crederci o meno, ma Bob Dylan,
quello che canta, quello che stridula
ancora oggi a 71 anni, ancora con
il suo 35esimo album
Tempest
non
è altro che il prolungamento del suo
respiro, eterno, etereo, quello che
da sempre trascina come la sua vo-
ce, divenuta rauca per effetto del
tempo. Ritorna ma non per cam-
biare il mondo, per sua stessa am-
missione e non come vanno profe-
rendo dall’inizio della sua carriera
i cosiddetti “critici musicali”. Quelli
che alla fine pensano o cercano di
pensare con la sua mente. Ma ba-
sterebbe ascoltarlo Dylan, anche
nelle sue dichiarazioni, per capire
che non è mai stato quello che i
giornalisti e intere generazioni han-
no voluto fare di lui, un guru, un
profeta, dandogli un peso che un
uomo non ha voluto. Come raccon-
tava in un’intervista al magazine
Rolling Stones
e quando il giorna-
lista chiedeva se: «È ancora possibile
al giorno d’oggi influenzare il mon-
do con le canzoni? essere politico
nel senso di lanciare dei messaggi?».
Lui tirava dritto: «No, per quello ci
sono i giornali. Quando la gente
vuole occuparsi del mondo dovreb-
be guardare la televisione. Se avessi
voluto farlo sarei andato ad Har-
vard o a Yale, avrei studiato e sarei
diventato un politico». E ancora
«
Hai solo dato la possibilità di al-
largare il loro modo di pensare?».
«
Si ma io non ho mai allargato il
mio modo di pensare. A dirle la ve-
rità io non so davvero cosa sia la
politica. Quando sono seriamente
interessato a qualcosa mi ritrovo
una volta dalla parte della destra e
il momento successivo sono com-
pletamente dalla parte della sini-
stra». Dylan è rimasto quello che
era, un personaggio da copertina in-
naturale, un poeta che non ha mai
apprezzato quello che gli girava in-
torno, e che alla fine si è ritrovato
con le proprie mani a dover far gi-
rare la giostra. Lui non c’è mai sa-
lito. Non ha mai voluto pagare il
biglietto e cosa più importante non
è voluto nemmeno salirci gratis, per-
ché poi quel giro senza soldi qual-
cuno glielo avrebbe fatto pagare.
Lui è sempre stato lì, con i suoi oc-
chiali da sole, il suo volto più allegro
di quanto le sue canzoni potessero
far trapelare. E’ sempre stato lonta-
no da quel sogno americano portato
avanti da Bruce Springsteen. Anche
fisicamente, non lo si è mai visto sal-
tare su un palco. Non un pessimista
come lui stesso ammette, ma uno
che constata la realtà. Facile sorri-
dere agli altri, magari è più compli-
cato sorridersi davanti ad uno spec-
chio. «Per me la felicità è essere
capaci di respirare». C’è chi respira
a fatica, chi respira senza avere fiato
e si sente soffocare l’attimo dopo
solo per compiacere la gente. In fon-
do le sue canzoni sono un respiro
lunghissimo, pieno di dolore, di sof-
ferenze, gioie poche, speranze nean-
che a parlarne. Come a dire se vedi
la pioggia e la senti addosso perché
devi pensare al caldo o al sole che
potresti avere da un’altra parte ma
non hai in quel momento?
L’amore? C’è chi lo vive inse-
guendolo, chi se lo trascina addosso,
chi lo ha vissuto in maniera veloce,
«
I
chi di fretta, chi ha sprecato quel-
l’attimo buono. Chi non si sente in
grado di amare perché spaventato.
Non si torna indietro, o prendi quel-
lo che ti viene dato o non né avrai
uno uguale in cambio. «Presto o tar-
di uno di noi dovrà capire che hai
fatto solo quel ch’era prevedibile…
presto o tardi dovrà capire che io ti
son venuto il più vicino possibile».
11
settembre 2012, ovvio che la da-
ta non è casuale. Mai per uno che
si chiama Bob Dylan e che ha più
potere, almeno nei sogni, di un qual-
siasi Obama. Perché l’America cu-
stodisce un’unica cosa in più rispet-
to al resto del mondo: il sogno dei
suoi figli, che delle loro terra ne han-
no fatto quello che hanno voluto,
puttana o sposa a seconda della cir-
costanza ma tenendola sempre per
mano. La
Tempesta
di cui parla Dy-
lan uscita l’11 settembre non è rife-
ribile a quella shaskesperiana. Ha
smorzato subito i critici con una fra-
se lapidaria «non è
The Tempest
ma
Tempest sono cose differenti». De-
cadente, quello che ha portato al-
l’estremo qualsiasi forma di linguag-
gio. Ha utilizzato metriche e forme
di stile nuovi, anche per questo ha
ricevuto nomination per il premio
Nobel mai consegnatogli. Si vede
che chi legge non sa ascoltare. An-
che in
Tempest
dieci tracce più una
title track
dedicato al Titanic, rimane
il Dylan di sempre. Dalle ballate ro-
mantiche al folk puro. Mai allegro.
Ma nemmeno mai triste. C’è una
canzone più di altre che rimane im-
pressa, quella dedicata a John Len-
non
Roll on John
l’unico in grado
a livello di scrittura di superare
qualsiasi altro ancora vivente. E Dy-
lan ce lo ricorda. Serve a questo un
album di Dylan, a far incuriosire, a
rileggere Henry Miller, a capire chi
è il volto sulla copertina. Serve a ri-
scoprire la cultura. Un cantante non
ha il compito di “addomesticare” la
gente, quello è ruolo dei potenti. Il
ruolo di un artista è quello di incu-
riosire, di far riscoprire quello che
alcuni hanno dimenticato. La curio-
sità per e nelle cose è il modo mi-
gliore di sopravvivere al degrado
che ci circonda. Se ci si accontenta
di vedere il sole anche quando non
c’è, perché non si fa nessuna fatica
ad affrontare una tempesta, bene al-
lora basta leggere i giornali e guar-
dare la tv. Se invece si vuole guar-
dare alla pioggia, sentirla addosso,
scoprire la sensazione che può dare
e poi dopo aver vissuto tutto questo,
pensare al sole e prepararsi al caldo,
bene comprate
Tempest
.
Che para-
dossi però, Dylan canta ancora di
sofferenze, di dolori, di cultura. Chi
faceva finta di indossare i suoi oc-
chiali per seguirne la moda, non né
hai mai concepito i modi di quel
portamento. «Si era estinto il mio
mondo di esseri umani; ero comple-
tamente solo al mondo, e per ami-
che avevo le strade, e le strade mi
parlavano in quella lingua triste,
amara, composta di miseria umana,
di desideri, di rimorsi, di fallimenti,
di inutile fatica» (Henry Miller).
Dopo tutta questa disillusione
c’è ancora un pensiero che ci con-
forta. Abbiamo uno come Dylan,
poeta indiscusso, trascinatore per
forza, trascinato in mezzo alla folla
mai. La sua arte è stata venduta, ma
nessuno per quante etichette gli sia-
no state ammesse addosso è mai
riuscito a comprarlo quel respiro.
La tempesta è ovvia conseguenza.
Bob Dylan ritorna
ma non per cambiare
il mondo, come vanno
sostenendo dall’inizio
della sua carriera
i cosiddetti “critici
musicali”. Basterebbe
ascoltarlo per capire
che non è mai stato
quello hanno voluto
fare di lui: un guru
o un profeta. È rimasto
quello che era,
un poeta che non ha
mai apprezzato
quello che gli girava
intorno, e che si è
ritrovato con le proprie
mani a dover far girare
la giostra, senza salirci
sopra. Lui è sempre
stato lì, con i suoi
occhiali da sole,
il suo volto più allegro
di quanto le sue canzoni
potessero far trapelare.
Se ci si accontenta
di vedere il sole
anche quando
non c’è, perché
non si fa nessuna
fatica ad affrontare
una tempesta, allora
basta leggere i giornali
e guardare la tv.
Se invece si vuole
guardare alla pioggia,
sentirla addosso,
scoprire la sensazione
che può dare
e poi dopo aver vissuto
tutto questo, pensare
al sole e prepararsi
al caldo, bene
comprate Tempest
L’OPINIONE delle Libertà
GIOVEDÌ 20 SETTEMBRE 2012
7