n un’Italia che ignora deliberatamente i
problemi dell’impresa, ci pensano le banche
a manifestare tutto il loro interesse: con i tassi
più alti dell’eurozona. Lo dice l’ultima ela-
borazione della Cgia di Mestre, sulla base
dei dati forniti dalla Banca centrale europea:
a luglio il costo del denaro in Italia ha rag-
giunto un tasso medio del 3,71%.
Peggio dell’Italia, nessun’altro. «In Spagna,
ad esempio, il tasso medio ha raggiunto il
3,67%,
in Germania il 3,51% e in Francia
il 3,20%. La media dei Paesi dell’area del-
l’euro si è attestata al 3,53%» fanno sapere
dall’associazione che riunisce artigiani e pic-
coli imprenditori. A fronte di interessi del ge-
nere, forse, gli imprenditori italiani preferi-
rebbero di gran lunga continuare ad essere
ignorati come da tradizione consolidata.
Con questi tassi stellari, però, se ne vanno
in fumo le speranze dell’economia nazionale.
Con buona pace di chi vede la ripresa dietro
l’angolo. Qualche esempio pratico? Se alle
imprese italiane fosse applicato lo stesso tasso
medio adottato in Germania, il risparmio per
il sistema imprenditoriale sarebbe pari a 1,75
miliardi di euro. Se, invece, fosse pari a quello
francese (3,20%), si risparmierebbero addi-
rittura 4,48 miliardi.
Ma le brutte notizie, purtroppo, non fi-
niscono qui. Nell’ultimo anno, infatti, nono-
stante le enormi iniezioni di liquidi operate
dalla Bce nei confronti degli istituti di credito
nazionale proprio per incentivare il volano
dei prestiti alle imprese (140 miliardi di euro
all’1% di interesse soltanto nell’ultima tor-
nata di aiuti), il tasso applicato alle pmi sui
prestiti con durata compresa tra 1 e 5 anni
è stato quello ha registrato l’aumento più si-
I
gnificativo tra le principali economie dell’area
euro: +1,10%, arrivando a toccare il 6,24%.
Tra i grandi dell’area dell’euro solo le pmi
spagnole presentano un costo del denaro più
elevato del nostro (+6,50%), anche se nel-
l’ultimo anno la crescita avvenuta in Spagna
è stata, rispetto alla nostra, più contenuta
(
+0,62%). Anche per le grandi imprese ita-
liane le cose non sono andate meglio: il tasso
di interesse sui prestiti ha raggiunto il 3,40%,
registrando, tra il luglio 2011 e lo stesso mese
di quest’anno, l’aumento record di +0,74%.
«
Siamo molto preoccupati soprattutto
per le piccole e piccolissime imprese che in
questi ultimi 12 mesi hanno subito una forte
contrazione dell’erogazione del credito, pari
all’ 1,7%, mentre quello concesso presenta
tassi nettamente superiori a quelli applicati
ai nostri principali concorrenti» commenta
il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe
Bortolussi. «Con queste condizioni tener testa
alla concorrenza nei mercati internazionali
è sempre più difficile».
Ma le preoccupazioni dell’elevato costo
del denaro rischiano di avere anche una im-
portante valenza occupazionale. «Se non aiu-
tiamo le piccole imprese – spiega Bortolussi
–
non aiutiamo nemmeno chi è alla ricerca
di un posto di lavoro. Ricordo che secondo
la Commissione europea sono proprio le pmi
a creare più occupazione. Tra il 2002 ed il
2010,
l’85% dei nuovi posti di lavoro è stato
creato dalle piccole e medie imprese europee.
Nello specifico, solo le microimprese hanno
creato mediamente ogni anno 631mila nuovi
posti di lavoro: il 58,1% della nuova occu-
pazione complessiva».
LUCA PAUTASSO
II
POLITICA
II
Caso-Fiat, la scelta èdell’Italia (nondiMarchionne)
di
FEDERICO PUNZI
i può capire molto della malattia
che affligge l’Italia dai rapporti
decennali tra la Fiat e le nostre clas-
si dirigenti: sono lo specchio del de-
clino italiano. Oggi il governo, le
forze politiche e sociali, i media del-
le elite economiche e finanziarie del
paese, pendono tutti dalle labbra
di Marchionne: ci dica che piani ha
per l’Italia, ce lo deve. Non una ri-
chiesta, ma una pretesa, un’intima-
zione: il governo convochi i vertici
e li obblighi a “cantare”. Il tutto al-
ludendo ad una sorta di complotto
anti-italiano di Marchionne, che fin
dall’inizio avrebbe avuto in mente
la grande fuga delle attività produt-
tive del gruppo torinese dal nostro
paese. Ora che il progetto “Fabbri-
ca Italia” cade sotto i colpi della
crisi, si riapre lo psicodramma del
“
tradimento”: la Fiat che così tanto
deve all’Italia, ci tradisce per l’odia-
ta Amerika.
La malattia italiana che fa fug-
gire la Fiat, e tanti altri, sta nella ri-
sposta al quesito posto da Penati
su
la Repubblica
: «
Perché Sergio
Marchionne, che a Detroit è con-
siderato un eroe, è così detestato in
Italia?». Nell’odio per Marchionne
l’establishment italiano rivela tutta
la propria viscerale avversione al
capitalismo di mercato. Che Romi-
ti, emblema della Fiat sussidiata de-
gli anni ‘70-’80, si scagli contro di
lui solidarizzando con la Fiom, che
si è opposta fino alla via giudiziaria
ai tentativi di rilancio della produt-
tività nelle fabbriche, ne è la dimo-
S
strazione lampante. Si parla tanto
di crescita, ma il paese sembra ri-
gettare le uniche politiche capaci di
rilanciarla. Dunque, quando dal-
l’estero vedono l’establishment che
marcia diviso per colpire unito su
Marchionne, vedono un paese che
in realtà non vuole crescere. E in
un paese simile non si investe.
L’ad di Fiat ha fatto ciò che un
manager deve fare in una economia
di mercato: creare valore per i pro-
pri azionisti. In una certa misura
c’è riuscito e s’è arricchito anche
personalmente.
Ma per la nostra cultura, intrisa
di catto-comunismo fino al midollo,
il successo nell’impresa e nella fi-
nanza è una colpa imperdonabile,
perché deriva per forza di cose da
un intollerabile e meschino sfrut-
tamento dei più deboli. Tollerabile,
invece, se deriva dal sussidio pub-
blico e dalle buone relazioni con i
mondi consociativi della politica e
della finanza. Persino un imprendi-
tore ben inserito come Della Valle
accusa i vertici Fiat di aver assunto
«
le scelte più convenienti per loro
e i loro obiettivi, senza minimamen-
te curarsi degli interessi e delle ne-
cessità del paese». Eppure proprio
di questo dovrebbero occuparsi im-
prenditori e manager, mentre «degli
interessi e delle necessità del paese»
dovrebbero curarsi i governi e i po-
litici. Auguriamo a Mister Tod’s,
che lancia l’epiteto di «furbetti co-
smopoliti», di non dover un giorno
dare conto di sue eventuali “furbate
cosmopolite”, magari in Romania
o in Cina.
La Fiat, ampiamente sussidiata
da tutti i governi della I e II Repub-
blica, ha cominciato ad essere in-
visa da quando è arrivato Mar-
chionne, che ha iniziato a snobbare
la politica e i suoi riti, a rivolgersi
al paese parlando di produttività e
non di incentivi a fondo perduto.
Il piano industriale battezzato col
nome di “Fabbrica Italia” non è
stato negoziato né con i governi né
con le parti sociali. Poneva degli
obiettivi e le condizioni per rag-
giungerli: non assegni in bianco,
ma un contesto di relazioni indu-
striali e forme contrattuali che ri-
lanciassero la produttività. Tra il
prendere atto dell’eccesso di capa-
cità produttiva (in Europa, non so-
lo in Italia), e dunque chiudere su-
bito le fabbriche, e scommettere su
un paese ancora capace di essere
competitivo, Marchionne ha scelto
questa seconda strada, convinto che
la ripresa fosse vicina. Fin dall’ini-
zio era ben consapevole, certo, che
il disimpegno dall’Italia restava
un’opzione più che probabile, di
fronte a condizioni avverse, ma di-
verso è presumere che fosse il suo
obiettivo.
I fatti dicono che da quando
Fiat ha annunciato il progetto
“
Fabbrica Italia”, nell’aprile 2010,
le condizioni sono «profondamente
cambiate». Sia perché il mercato
dell’auto nel frattempo è crollato
(-40%
rispetto al 2007; -20% solo
nei primi 8 mesi del 2012), sia per-
ché a 5 anni dall’inizio della crisi
l’Italia non ha ancora adottato le
riforme strutturali necessarie per
far recuperare competitività al no-
stro sistema produttivo. Se c’è una
colpa di Marchionne, è non aver
previsto la crisi dell’eurodebito, che
avrebbe innescato una recessione
ben più strutturale di quella del
2009.
Il colpo di grazia, poi, è stato
assestato dalle politiche di risana-
mento a base di tasse e demagogia.
Tra tassa sul lusso per far pagare i
“
ricchi”, aumenti dell’Iva e patri-
moniale immobiliare, la prima vit-
tima della compressione dei redditi
medio-alti è stato il mercato del-
l’auto. Sicuri che il gettito della tas-
sa sul lusso sia superiore al manca-
to gettito Iva delle auto di grossa
cilindrata non acquistate? E delle
tasse sulla benzina che quelle auto
non acquistate non hanno mai con-
sumato per camminare?
Se è «impossibile» fare riferi-
mento al progetto “Fabbrica Italia”
non è solo per la crisi, ma come di-
mostrano altri drammatici casi, an-
che a causa delle nostre resistenze
ai cambiamenti necessari per ren-
dere produttivo investire in Italia.
I costi dell’energia sono i più alti
d’Europa, ma diciamo no a nuclea-
re e rigassificatori. Per ciascun oc-
cupato si versa in tasse e contributi
il 64% del pil pro capite, ma non
vogliamo ridurre la spesa in pen-
sioni e sanità. Il nostro mercato del
lavoro è il più rigido d’Europa, ma
guai a toccare l’articolo 18 e a par-
lare di contrattazione aziendale.
“
Marchionne risponda, non pos-
siamo aspettare”, sono le parole at-
tribuite al ministro Fornero? Mar-
chionne e gli investitori stranieri
hanno in mente l’esatto opposto:
“
L’Italia risponda, non possiamo
aspettare”. In Italia ci sforziamo di
tenere in vita con sussidi e incentivi
settori e aziende non più produttivi,
non di creare le condizioni econo-
miche e legali più favorevoli agli
investimenti. Non dovremmo chia-
mare a rapporto Marchionne, ma
i nostri politici e tecnici, le nostre
classi dirigenti: che piani avete voi
per l’Italia? È da quelli che dipen-
dono gli investimenti, non il con-
trario. Certo che un paese come il
nostro deve avere un’industria au-
tomobilistica, ma non l’avrà per
grazia ricevuta: se la vuole davvero
deve creare le condizioni per ren-
derla produttiva. Che si tratti di
convincere Fiat a restare, o di atti-
rare case automobilistiche straniere,
le cose da fare sono le stesse.
L’ad di Fiat ha fatto ciò
che deve fare qualsiasi
manager: creare valore
per i propri azionisti
Per la nostra cultura
catto-comunista,
il successo è una colpa
imperdonabile
Lo stato ignora l’impresa
La banca alza l’interesse
Crisi del lavoro in Italia?
La politica risponda
’
università al suo interno ha i geni
per poter essere l’elemento di traino
del paese». Così il ministro dell’Istruzione
Francesco Profumo ieri ha provato a trovare
elementi di positività in quella che lo stesso
premier Mario Monti ha definito una crisi
strutturale.
Ma c’è poco da stare allegri. Oggi verrà
presentato al Cnel il rapporto sul mercato
del lavoro, curato da Marco Dell’Aringa. E
i freddi numeri azzoppano gli slanci anche
del più indefesso tra gli ottimisti. Negli scorsi
dieci anni l’output per
ora lavorata (valore ag-
giunto al costo dei fatto-
ri) del settore manifattu-
riero, è crollato dopo il
boom degli anni Settanta.
Il valore dell’indice, che
per il nostro paese è crol-
lato a un misero 0,4% in
media d’anno, è tra i più
bassi dei paesi sviluppati,
sorpassato anche dalla
maggior parte delle eco-
nomie in via di sviluppo.
Numeri assai diversi ri-
spetto all’1,8% della Ger-
mania, al 2,5% della Francia, al 2,8% del-
l’Olanda, al 3% del Regno Unito. Meglio
di noi, nonostante la tempesta che l’ha in-
vestita, ha fatto anche la Spagna (1,5%).
«
Occorre che la politica sappia reagire»
si legge nel rapporto. In caso contrario si
«
potrebbero subire pressioni sulle dinamiche
salariali e assisteremmo «lunghi periodi di
stagnazione dell’attività economica». «Tale
scenario – fa notare Dell’Aringa - come
«
L
l’esperienza greca ha mostrato ha implica-
zioni di carattere sociale allarmanti». Ser-
vono quindi «riforme strutturali sulla cre-
scita».
Proprio di riforme del sistema-paese di-
scuteranno sabato, tra gli altri, Antonio
Martino, Guido Crosetto, Enrico Morando
e Franco Debenedetti, convocati ad Assergi
–
in provincia dell’Aquila – dal direttore de
L’Opinione
Arturo Diaconale a discutere di
dell’“Agenda Italia”, cinque grandi riforme
su cui impegnare i liberali presenti in tutti
gli schieramenti politici.
Tra i punti in agenda, ol-
tre all’impianto istituzio-
nale, al sistema fiscale e
al comparto giustizia, an-
che, per l’appunto, una
modifica radicale del
mercato del lavoro.
«
Non capisco le criti-
che al ministro Elsa For-
nero perché non vedo la
riforma» ha spiegato sa-
bato Marco Taradash, tra
coloro che hanno aderito
alla tavola rotonda.
«
Bisogna cambiare la
mentalità, passare dalla logica volta a difen-
dere il posto di lavoro a quella che punta a
crearne di nuovi – prosegue Taradash - I sin-
dacati non possono continuare a difendere
per sempre il proprio ruolo. Ma anche gli
imprenditori devono rinunciare ad alcuni
sussidi da parte dello stato». Insomma, la
strada è lunga. Sabato qualche coraggioso
proverà a intraprenderla.
PIETRO SALVATORI
Dal Cnel arrivano dati
preoccupanti
sulla produttività.
Il lavoro sarà al centro
del dibattito di sabato
prossimo adAssergi,
con Diaconale,
Martino e Morando
L’OPINIONE delle Libertà
MARTEDÌ 18 SETTEMBRE 2012
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