II
POLITICA
II
Contrada: «Contro di me,
pentiti e uomini dello stato»
di
ROSAMARIA GUNNELLA
fferma di non aver mai nutri-
to sentimenti di odio e di ven-
detta nei confronti di alcuno; so-
stiene di sentirsi, più che un capro
espiatorio, un obiettivo facile da
colpire per coprire le inefficienze
di un sistema. Si augura che la ve-
rità sulla sua vicenda sia ristabilita,
perché «io non ho commesso i fat-
ti che mi sono stati attribuiti». Si
è sempre sentito un uomo dello
stato, anche quando era in carcere,
«
perché se dovessi rinnegare que-
sto attaccamento dovrei dichiarare
il fallimento della mia vita». Bruno
Contrada, condannato a dieci anni
di reclusione con l’accusa infa-
mante di concorso esterno in as-
sociazione mafiosa, dopo averne
scontati otto dei quali quattro ai
domiciliari per le sue condizioni
di salute, parla finalmente da uo-
mo libero. Un «uomo legato alle
istituzioni», come continua a de-
finirsi, che non ha nessun sassolino
da togliersi dalle scarpe ma indos-
serebbe volentieri gli scarponi dei
fanti della Prima guerra mondiale
con 48 chiodi per dare, metafori-
camente, un calcio a qualcuno.
Chi ha voluto colpire Bruno Con-
trada?
Innanzitutto quel nugolo di
avanzi da galera (17 i “pentiti” che
lo hanno accusato, ndr), i peggiori
criminali della mafia siciliana, kil-
ler, autori di delitti efferati. Gio-
vanni Brusca, per esempio, cioè
colui che azionò il telecomando
che uccise il giudice Falcone, o
Giuseppe, Pino Marchese, condan-
nato all’ergastolo, poi a trent’anni
e autore di stragi e di decine di
omicidi, tra cui uno particolar-
mente cruento: uccise un suo com-
pagno di cella all’Ucciardone a
colpi di bistecchiera. Tommaso Bu-
scetta, conosciuto per le sue im-
prese criminali e per la notorietà
che gli ha dato “il pentitismo”.
E poi?
Diciamo, che al nugolo di que-
sti pendagli da forca se n’è acco-
dato un altro. Individui apparte-
nenti anche alle istituzioni, alla
polizia che per rancori, giustificati
o non, o anche per antipatia per-
sonale, mi hanno accusato. D’al-
tronde chi svolge una determinata
attività come la mia oltre a crearsi
amici fraterni si fa anche tanti ne-
mici. Persone che hanno colto il
momento per scagliarsi addosso
ad un corpo ormai per terra san-
A
guinante. Mai nessuno di loro pri-
ma del mio arresto aveva detto
una sola parola su di me. E nono-
stante tutto questo non serbo odio
o rancore verso nessuno. Voglio
solo che si ristabilisca la verità.
Non ho bisogno di nient’altro che
di questo.
La sua vicenda giudiziaria potreb-
be essere lo spunto per riportare
all’attenzione il dibattito sui col-
laboratori di giustizia?
Il pentitismo in Italia, da più di
vent’anni a questa parte, è un fe-
nomeno di una complessità enor-
me, sul piano umano, sociale, giu-
diziario (sia nell’applicazione
pratica che nella utilizzazione dei
processi) e su quello della dottrina
giuridica. È un fenomeno che è
stato esaminato, criticato, esaltato,
dibattuto da persone qualificate,
insigni giuristi, sociologi e da cul-
tori di varie scienze umane. Io ri-
tengo che l’utilizzazione da parte
dello stato di criminali, di colla-
boratori di giustizia, di pentiti, non
nel senso etico della parola ma se-
condo motivi di opportunità e
convenienza, cioè per sottrarsi a
lunghe detenzioni o all’ergastolo
e avere benefici pecuniari, è sem-
pre un segno di debolezza dello
stato. Voglio dire che quando lo
stato per un complesso di motivi
non riesce, con i mezzi tradiziona-
li, a debellare un fenomeno crimi-
nale così grave allora ricorre a
compromessi del genere, cioè al-
l’utilizzazione di uomini che, per
raggiungere i risultati di cui ho
parlato, sono disposti a dare la lo-
ro collaborazione in cambio di be-
nefici. Se i mezzi fossero stati suf-
ficienti, e a mio avviso non lo
erano, lo stato non avrebbe avuto
bisogno di ricorrere al “pentiti-
smo”.
Quindi il problema non sta nella
legge che istituisce i collaboratori
di giustizia?
Riconosco che i pentiti hanno
dato un notevole contributo alla
lotta contro la mafia. Hanno dato
la possibilità di scoprire delitti, di
inchiodarne i mandanti e gli ese-
cutori, di arrestare latitanti e te-
nere in galera i maggiori esponenti
della mafia. Il vero problema è la
gestione dei collaboratori di giu-
stizia. I pentiti sono come un’arma
che di per sé non è né positiva né
negativa. Può essere usata per la
difesa della patria, della società,
della propria vita e di quella di al-
tri, ma può servire anche per com-
piere omicidi, rapine a mano ar-
mata. È a secondo di chi la usa e
come viene utilizzata che l’arma
diventa positiva o negativa. È ne-
cessario, quindi, che i pentiti ven-
gano gestiti con la massima atten-
zione, scrupolosità e coscienza. E
l’opera di investigazione nella ri-
cerca dei riscontri deve essere an-
cora più approfondita soprattutto
quando le accuse sono rivolte a
uomini che hanno combattuto
questi criminali, denunciandoli,
arrestandoli e diventando così i lo-
ro nemici atavici: i poliziotti, tra i
quali io. Difatti, tra i pentiti che
mi hanno accusato, dando l’im-
pulso per imbastire il mastodon-
tico processo a mio carico, ce
n’erano molti che io avevo perse-
guito in ogni modo.
Una vicenda processuale alquanto
complessa e complicata la sua. Ma
perché questa ostinazione nei suoi
confronti?
La mia vicenda giudiziaria deve
essere contestualizzata negli anni
in cui è avvenuta. Un momento in
cui bisognava dimostrare molte
verità ma anche teoremi, cioè di
un’inefficienza dell’azione repres-
siva e preventiva dello stato nei
confronti della mafia da parte del-
la politica, della magistratura, delle
forze dell’ordine ma anche della
gente comune che si disinteressava
a questo fenomeno. Solo negli an-
ni successivi è sorto il consenso ge-
nerale. Si è voluto sostenere questo
teorema. È vero che nel corso di
decenni, lo stato, e parlo della po-
litica, ha sottovalutato il fenomeno
della mafia. In alcuni periodi, an-
che con una certa giustificazione:
c’era un’altra grande emergenza
che metteva in pericolo la struttu-
ra dello stato, il terrorismo. Tutte
le attenzioni erano rivolte a fron-
teggiare l’eversione, quando la ma-
fia veniva ancora considerata un
fenomeno localizzato in Sicilia e
che non interessava l’intero appa-
rato statale.
Quindi, si può dire che lei è stato
un capro espiatorio di un sistema?
Io mi sono trovato in mezzo a
tutto questo, al teorema dell’inef-
ficienza dello stato nel suo com-
plesso. Per tutti gli incarichi che
avevo ricoperto nella lotta contro
la criminalità organizzata e la ma-
fia avevo, come dire, il “physique
du role”, ero la persona adatta su
cui appuntare queste accuse come
responsabile di indubbie deficien-
ze, mancanze dovute al sistema so-
ciale e legislativo dell’epoca. Biso-
gna considerare che in quegli anni
non avevamo i mezzi giuridici e
materiali che sono subentrati nei
periodi successivi. E, lo riconosco,
forse eravamo anche impreparati
ad affrontare un fenomeno di così
terribile impatto sulla vita del no-
stro paese. Come del resto non
eravamo pronti nei primi anni del
terrorismo eversivo contro il quale
man man ci si è attrezzati.
Cosa ne pensa del ricorso straor-
dinario pendente in Cassazione
contro la decisione con la quale la
seconda sezione della Corte ha re-
spinto l’istanza di revisione del suo
processo?
La mia opinione è che la Cas-
sazione non ritorna mai sui suoi
passi. Ringrazio il mio avvocato,
il dottor Lipera, che apprezzo per
la sua tenacia, per il suo volere fa-
re il possibile e anche l’impossibile,
ma considero le sentenze della
Cassazione come pietre sepolcrali.
E come ho scritto nella copertina
di un faldone che racchiude tutti
i miei ricorsi: io non voglio essere
Lazzaro e il mio avvocato non è
Gesù.
Domani uscirà un libro-intervista
“
La mia prigione”, scritto insieme
alla giornalista Letizia Leviti in cui
lei ripercorre la sua ventennale vi-
cenda giudiziaria. Un bisogno di
raccontarsi, di fare conoscere le
sue opinioni o cos’altro?
Non ho la presunzione di rite-
nere che questo libro possa fare
rivedere o revisionare il processo.
Ma credo che possa dare un con-
tributo alla conoscenza della veri-
tà, a dirimere dei dubbi. Certo non
a convincere coloro che, per par-
tito preso o per teoremi, sono i
miei detrattori, ma per lo meno a
tentare di far sorgere in loro qual-
che dubbio. Ho voluto dare delle
spiegazioni, raccontare la mia vi-
cenda e la mia enorme sofferenza
di questi ultimi venti anni tra pro-
cessi, tribunali, ricorsi. Una soffe-
renza che continua ancora adesso,
nonostante io sia libero. Una sof-
ferenza morale, quella della per-
dita di tutto quello che è stato lo
scopo di una vita.
«
Al nugolo dei pentiti,
pendagli da forca
che hanno straparlato
sul mio conto,
se n’è accodato un altro.
Individui appartenenti
anche alle istituzioni,
alla polizia
che per rancori,
giustificati o non,
o anche per antipatia
personale, mi hanno
accusato. D’altronde
chi svolge
una determinata attività
come la mia oltre
a crearsi amici fraterni
si fa anche tanti nemici.
Persone che hanno colto
il momento
per scagliarsi addosso
ad un corpo ormai
per terra sanguinante.
Mai nessuno di loro
prima del mio arresto
aveva detto una sola
parola su di me.
E nonostante tutto
questo non serbo odio
o rancore verso nessuno.
Voglio solo
che si ristabilisca
la verità. Non ho
bisogno di nient’altro
che di questo»
L’OPINIONE delle Libertà
MARTEDÌ 16 OTTOBRE 2012
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