II
CULTURA
II
GioacchinoVentura, il siciliano antiborbonico
di
NICCOLÒ DIMIVI
ato in Sicilia, entrò presto nel-
la Compagnia di Gesù che,
però, abbandonò quando i Gesuiti
furono espulsi dall’isola, per pas-
sare (1818) all’ordine dei Teatini,
raggiungendo, poi, l’incarico di
Preposto Generale (1830). Nel
1821 fondò a Napoli e diresse per
alcuni anni «L’Enciclopedia eccle-
siastica e morale», pubblicazione
relativamente progressista per que-
gli anni. Poi passò a Roma dove
tenne un famoso corso di diritto
pubblico e diede alle stampe pa-
recchie opere giuridiche e filosofi-
che. Il «De iure pubblico ecclesia-
stico» fu molto apprezzato dal
Papa, ma la successiva opera «De
novo metodo philosophandi»
(1828) gli procurò censure ed ama-
rezze (le sue opere politiche e filo-
sofiche saranno messe all’Indice).
Come il gesuita padre Luigi Tapa-
relli d’Azeglio, anche il Ventura in-
tervenne direttamente a favore dei
moti di Palermo del 12 gennaio
1848, sostenendo la necessità di
una separazione della Sicilia da
Napoli, di un governo indipenden-
te e di un’unione in una federazio-
ne unica con il resto degli stati
d’Italia. Egli espose questo suo
pensiero in tre opuscoli che pro-
dussero grande scalpore in tutta
Italia: «La questione sicula del
1848 risolta nel vero interesse della
Sicilia, di Napoli e dell’Italia» (feb-
braio 1848); «Memoria per il ri-
conoscimento della Sicilia come
stato sovrano ed indipendente»
(maggio 1848); «Le menzogne di-
plomatiche, ossia l’esame dei pre-
tesi diritti che s’invocano dal Ga-
binetto di Napoli sulla questione
siciliana» (fine 1848). I moti di Pa-
lermo furono i primi a scoppiare
e segnarono l’inizio di quell’ondata
di moti rivoluzionari che sconvol-
se l’Europa nel 1848-49. In che
modo il Ventura passò dalla so-
stanziale condanna (Giornale Ec-
clesiastico del 1825) della Rivolu-
zione Francese, facendola derivare
come uno sviluppo della Riforma
protestante, alla condivisione dei
moti di Palermo ?
Un grande influsso esercitò su
di lui l’ultramontanismo di De
Maistre e del primo de Lamennais.
Tradusse «Il Papa» di De Maistre
e «La legislazione primitiva» di de
Bonald e vi aggiunse alcune sue
importanti note circa il concetto
di “obbedienza attiva” e “resisten-
za passiva” e sulla “stabilità dei
corpi sociali”. Anche qui criticò
la Rivoluzione Francese, ma sol
perché la rivoluzione, in se stessa,
poteva essere potenzialmente an-
tidemocratica qualora avesse agito
senza esprimere razionalità, giusti-
zia e libertà. Se agisce arbitraria-
mente, infatti, perde ogni legitti-
mazione e si trasforma in
dispotismo, come la Rivoluzione
Francese.
È ovvio che queste tesi gli pro-
curassero delle censure da parte
della Curia pontificia; egli, tutta-
via, diversamente da come farà il
de Lamennais, rimase sempre fer-
mo nella fede cattolica, fino alla fi-
ne della sua vita.
Tra il 1830 e il 1833 solidarizzò
con le insurrezioni belga, irlandese,
polacca e con i cosiddetti moti pa-
rigini del luglio, perché riconosceva
alla base di esse la giustezza delle
N
il bene della Sicilia.
Proprio in quell’anno il Ventura
pronunciò il famoso «Discorso fu-
nebre per i moti di Vienna» della
rivoluzione del 1848, che fu molto
criticato negli ambienti ecclesiastici
e che poi sarà posto all’Indice.
Gioacchino Ventura si pronun-
ciò contro il sostegno acritico del
cattolicesimo alle monarchie ed
espresse un forte auspicio per una
netta separazione tra trono ed al-
tare, nonché per il rifiuto dell’uso
della religione come instrumentum
regni. Quando scoppiò la rivolu-
zione a Roma e Pio IX abbandonò
la città per riparare a Gaeta, Ven-
tura restò a Roma: ebbe contatti
con Garibaldi e Mazzini e, unico
diplomatico, presenziò alle funzio-
ni in Vaticano per la Pasqua del
1849, come rappresentante del go-
verno siciliano. Ventura si dichiarò
nettamente a favore della separa-
zione del potere spirituale da quel-
lo temporale. Fu favorevole al ri-
torno del Papa a Roma, ma “come
Pontefice e Vescovo, come sovrano
temporale, non mai”. Dopo la re-
staurazione avvenuta a Palermo e
a Roma, Ventura comprese che la
sua posizione in Italia era irrepa-
rabilmente compromessa. Accettò
umilmente il decreto della messa
all’Indice di parecchie sue pubbli-
cazioni e lasciò l’Italia per recarsi
in Francia, dove suscitò l’imbaraz-
zo dell’arcivescovo di Parigi che,
perplesso, chiese al Vaticano se do-
vesse considerarlo scomunicato o
interdetto. A Parigi ritornò a scri-
vere. Ricordiamo «Il potere poli-
tico cristiano» (1858) e il «Saggio
sul potere pubblico» (1859) ove
riprese i temi già sostenuti del le-
game tra democrazia e cattolicesi-
mo. Ebbe una momentanea invo-
luzione quando espresse un
giudizio possibilista in merito alla
presa di possesso di Napoleone III
(il Ventura fu predicatore della
cappella imperiale, alla corte di
Napoleone III), ma, dopo, conti-
nuò ad esporre con fermezza le sue
idee liberali. Il potere, pur se di na-
tura divina, deve essere esercitato
attraverso il popolo. La sovranità,
cioè, era conferita da Dio alla co-
munità politica (e non al sovrano)
e da questa passava al governante
che l’attingeva dalla comunità po-
litica stessa. Il potere del governan-
te, quindi, può essere revocato in
caso di tirranide. E così che il po-
polo siciliano, depositario della so-
vranità, aveva avuto il diritto di
revocare il potere del re che aveva
prevaricato nei confronti dei sici-
liani. Il Ventura condannava anche
il centralismo perché con esso si
dava allo Stato eccessivo potere
sulla società, ai vari livelli sociali
e civili. Fu una personalità com-
plessa quella del Ventura, ma non
venne mai meno alla sua convin-
zione di poter conciliare fede cat-
tolica e idee liberali. Luigi Sturzo,
all’avvento del fascismo, lo anno-
verò, per la sua dottrina e l’azione
politica svolta, assieme a Gioberti
e a Rosmini, come precursore del
partito popolare. Successivamente
egli espresse un giudizio ancora più
lusinghiero, autodefinendosi “sici-
liano autonomista e antiborbonico
alla Gioacchino Ventura”.
Puntate precedenti dedicate
ai cattolici liberali:
10 e 24 giugno; 8, 15, 22, 29
luglio; 5 agosto 2012
loro istanze di libertà, che non solo
non erano contrarie alla fede cat-
tolica, ma, anzi, si conciliavano be-
ne con essa.
Alla base di questa ulteriore
evoluzione troviamo la pesante cri-
tica contro ogni potere dispotico
e centralizzatore. Da qui la legit-
timità della prassi rivoluzionaria e
la sua compatibilità con i principii
del cattolicesimo.
L’elezione di Pio IX (1846) e le
sue riforme suscitarono le speranze
dei cattolici liberali. Gioacchino
Ventura divenne autorevole consi-
gliere del papa e ispiratore delle
sue riforme (istituzione di un Con-
siglio dei Ministri, libertà di stam-
pa, anche se limitata…).
Fu quella l’atmosfera in cui
pronunciò, nel 1847, una vibrante
commemorazione del capo del mo-
vimento per l’emancipazione dei
cattolici irlandesi (Elogio funebre
di Daniello ‘O Connel), mettendo-
ne in evidenza la connessione tra
la profonda fede religiosa e il culto
per la libertà. La rivoluzione pa-
lermitana del gennaio 1848 con-
tribuì a conferire al Ventura un
ruolo più politico. Per comprende-
re la tipicità dei moti di Palermo,
bisogna ricordare che Napoli e la
Sicilia avevano avuto, per secoli,
fino al 1816, istituzioni autonome,
benché in certi periodi avessero lo
stesso sovrano. Solo dopo il Con-
gresso di Vienna, infatti, Ferdinan-
do di Borbone li riunì, per cui da
Ferdinando IV re di Napoli e Fer-
dinando III re di Sicilia, egli diven-
ne Ferdinando I, re delle Due Sici-
lie, frustrando così le aspirazioni
dei siciliani.
I moti di Palermo portarono al-
la proclamazione della Sicilia come
stato indipendente, il quale soprav-
visse fino al maggio 1849.
Durante questo periodo fu pro-
clamata la Costituzione che ricalcò
quella siciliana del 1812 (abolita
dai Borboni) che si basava sui prin-
cipii della democrazia rappresen-
tativa e della centralità del parla-
mento. Costituzione cui si ispirerà
lo Statuto albertino. All’interno del
parlamento siciliano vi erano tre
tendenze: quella filo-repubblicana,
quella monarchica (che sosteneva
il figlio di Carlo Alberto, Alberto
Amedeo, come re di Sicilia) e i so-
stenitori di un’Italia unita, ma con-
federata, legata all’idea di Gioberti.
Gioacchino Ventura auspicava for-
temente la realizzazione di questa
terza ipotesi.
Il Ventura venne nominato (30
marzo 1848) Commissario straor-
dinario del governo siciliano, pre-
sieduto da Ruggero Settimo, presso
la Santa Sede e vi si adoperò con
grande libertà di spirito, anche dis-
sentendo dal governo che rappre-
sentava, ma battendosi sempre per
Per la sua dottrina
e l’azione politica svolta,
Luigi Sturzo
lo annoverò
insieme a Gioberti
e Rosmini come
precursore
del partito popolare
L’OPINIONE delle Libertà
DOMENICA 12 AGOSTO 2012
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