di
STEFANO MAGNI
econdo una certa interpretazio-
ne del calendario dei Maya, il
mondo finirà il 21 dicembre 2012.
Domenica, 9 dicembre 2012, è fi-
nita con un fiasco, a Doha, la Con-
ferenza Onu sui Cambiamenti Cli-
matici, dove sono stati discussi
possibili scenari apocalittici. Ma il
mondo non finirà, né il prossimo
21
dicembre, né i prossimi decenni.
Di questo possiamo esserne certi.
E l’esito fallimentare della Confe-
renza di Doha lo dimostra in mo-
do lampante.
La letteratura scientifica sul
“
cambiamento climatico” è, a dir
poco, controversa. Fino agli anni
’70,
una parte della comunità
scientifica (J. Murray Mitchell, S.
Ichtiaque Rasool, Stephen H.
Schneider e altri) era convinta che
l’umanità potesse andare incontro
ad un raffreddamento globale, una
vera e propria era glaciale prossima
ventura. È solo di recente che l’at-
tenzione si è spostata sul riscalda-
mento globale. Le vecchie teorie
sulla glaciazione sono state confu-
tate e smentite. Quelle sul riscal-
damento, invece, vanno ancora di
moda. Ma non è affatto detto che
siano perfette. Entrambe le teorie
si basano su rilevamenti molto par-
ziali. È, infatti, solo da quando le
temperature possono essere misu-
rate con termometri elettronici e
S
satellitari che i climatologi possono
compilare serie statistiche precise.
E, di sicuro, questi strumenti non
esistevano prima dell’ultimo quarto
del Novecento. Basarsi su pochi
decenni per scoprire un trend lun-
go secoli, è ai confini dell’azzardo
statistico. È poi quantomeno cu-
rioso notare come i sostenitori del-
la teoria del riscaldamento globale
riescano ad inglobare ogni eccezio-
ne nella loro regola. Se abbiamo
un inverno particolarmente rigido,
come quello dell’inverno scorso,
tendono a considerarlo come un
effetto collaterale del generale ri-
scaldamento. Un po’ come quando
i marxisti ortodossi consideravano
la diffusione della ricchezza fra i
proletari come un effetto collate-
rale dell’accentramento della ric-
chezza nelle mani di sempre meno
borghesi. In nessuno dei due casi,
è mai stata notata qualche contrad-
dizione? Anche dando per scontato
che il riscaldamento globale sia un
trend già in atto, la comunità scien-
tifica non riesce comunque a dare
una risposta unanime ad almeno
due domande fondamentali: è ve-
ramente causato dall’attività uma-
na di emissione di gas serra? È cer-
to che un nuovo riscaldamento
non sia un bene più che un male
per l’umanità? Proprio facendosi
forza di questa totale incertezza,
Paesi in via di sviluppo industriale
quali Cina, India e Brasile, assieme
all’80% delle nazioni partecipanti,
hanno preferito non assumersi ob-
blighi vincolanti alla Conferenza
di Doha. L’Ue, invece, sì. Ma per-
ché, grazie alle (molto poco politi-
camente corrette) centrali nucleari,
praticamente tutte le nazioni del
Vecchio Continente possono facil-
mente obbedire ai vincoli sulle
emissioni di gas serra, ritenuti re-
sponsabili del riscaldamento glo-
bale, senza troppi costi aggiuntivi.
E imporre, invece, un costoso eco-
logismo ai potenziali rivali emer-
genti, in America e Asia, inducen-
doli a rinunciare a buona parte
della loro crescita industriale.
II
ESTERI
II
Il Nobel all’Ue?
Erameglio laNato
ADoha fallisce l’ecologismo
catastrofista a buonmercato
Il libro di Sbai che racconta le Ombre di Algeri
e tu parli, muori; se non parli,
muori. Allora parli e muori».
Con questa drammatica frase Tahar
Djaout, nel 1993, concludeva i suoi
ultimi articoli prima di morire sotto
il fuoco dei terroristi. Il coraggio
spesso è una scelta obbligata. Specie
per i giornalisti che sono morti da
eroi in Algeria per narrare la genesi
di Al Qaeda nel Maghreb. Lo rac-
conta, sin dall’introduzione, il libro
di Souad Sbai (“Le ombre di Alge-
ri”, Armando Curcio editore), de-
putata del Pdl nata in Marocco.
Le lotte della Sbai per l’emanci-
pazione femminile delle donne isla-
miche in Italia rappresentano uno
dei pochi aspetti da salvare della po-
litica italiana degli ultimi anni. La
Sbai non ha tradito mai la verità
con scuse demagogiche, magari na-
scondendosi dietro il dovere di ser-
vire il paese come parlamentare, con
le consuete cautele ipocrite del po-
liticamente corretto. Accusata dagli
islamisti radicali, dagli ultra-nazio-
nalisti e da certi estremisti di sinistra
e benché sia stata parecchie volte
minacciata, Souad Sbai non ha mai
rinunciato a proseguire la sua mis-
sione in difesa della laicità, delle mi-
noranze religiose e delle donne per-
seguitate
nel
mondo,
e
specificamente nel mondo islamico,
ormai ostaggio dei salafiti e dei Fra-
telli Musulmani che hanno trasfor-
mato rapidamente la Primavera ara-
ba in un infinito incubo: l’inverno
islamista.
Quello che sta succedendo in
Egitto con Morsi in questi giorni, in
Siria con Assad da mesi e in Libia
«
S
nell’ultimo periodo di regime di
Gheddafi, e poi ancora peggio dopo
la sua morte cruenta (e dopo il caso
dell’ambasciatore americano ucciso
dopo essere stato persino sodomiz-
zato dai ribelli), dimostra che la lu-
cida visione di quei pochi che come
la Sbai chiamano le cose con il loro
proprio nome è l’unica possibile. La
Sbai riassume la propria visione del
mondo con questa frase: «La deco-
lonizzazione ha ceduto il passo a un
fondamentalismo che neanche il più
temerario degli uomini è stato in
grado di sconfiggere». In Italia però
si sta creando un autunno della po-
litica estera, soprattutto per quel che
riguarda il rapporto con i paesi ara-
bi e con Israele.
Il recente voto europeo, Italia in-
clusa, a favore del riconoscimento
dell’inesistente stato di Palestina
all’Onu nel ruolo di “osservatore”,
letteralmente comprato dall’Emiro
del Qatar, con i suoi viaggi di stato
che lo hanno preceduto in un con-
tinente ormai povero capace di sa-
crificare i propri principi costituzio-
nali in cambio di investimenti e
anche della semplice promessa di
questi ultimi, testimonia la dram-
maticità della situazione. Ma la Sbai
non invoca improbabili “radici cri-
stiane” dell’Europa come diga al-
l’Islam, come da tempo fa, ad esem-
pio, un intellettuale di grande peso
e onestà intellettuale come Masgdi
Allam. Anche perchè poi schiacciarsi
sul Vaticano ha creato un effetto
“
double face”, visto che alla fine
proprio dalla Santa sede arrivano
continuamente sponde alla visione
arabocentrica del Medio Oriente e
ostilità verso lo stato di Israele. E in
effetti la futura politica del settore
italiana sarà di fatto subappaltata
ad Andrea Riccardi, cioè alla Co-
munità di Sant’Egidio, vero artefice
della mutata posizione dell’Italia
all’Onu sul riconoscimento dell’Anp.
No, la Sbai parte dalla laicità
delle istituzioni dello stato, conno-
tando ciò come vero occidentalismo.
Non a caso l’ultimo capitolo del li-
bro (presentato ieri alla Camera dei
deputati) è intitolato
Il dolore ine-
spresso e gli intellettuali
.
In esso la
Sbai racconta come per anni gli
scrittori e i poeti di Algeri abbiano
dovuto tenere dentro di sé quello
che avevano visto. Ostacolati dalla
lingua francese nel raccontare le co-
se, visto che ancora viene conside-
rata quella dei colonialisti, ma con-
sapevoli dell’impossibilità di farsi
capire da tutti esprimendosi nell’ara-
bo, assuefatti alla morte e ossessio-
nati dal senso di colpa di essere so-
pravvissuti (come quelli che
sopravvissero ai campi di sterminio
dopo la seconda guerra mondiale),
hanno cercato sponde in Occidente
al di là del Mediterraneo. Spesso
scontrandosi con visioni politically
correct persino del terrorismo isla-
mico.
Scrive Souad che «il francese è
una lingua straniera che viene uti-
lizzata da non-francesi, e questo è
naturalmente limitante, non potrà
mai essere data una risposta ade-
guata alle parole che un arabo pen-
sa, un sentire esistenziale diverso da
quello dei francesi. Il francese va be-
ne per i francesi, ma non per gli al-
gerini. Devono scrivere in arabo in
quanto questa lingua esalta la loro
quotidianità e mette in risalto i
drammatici momenti di quella san-
guinosa guerra civile». Invece nes-
suno li incoraggia, alcuni di loro
«
passano il tempo a fumare», aspet-
tano un segno che non arriva. E
qualcuno come la poetessa Safia
(
che in arabo significa “pura”, è an-
che la marca di un’acqua minerale,
ndr) si getta dal “ponte della morte”
perchè non regge la pressione.
La maggior parte degli intellet-
tuali però viene ammazzata senza
pietà. E il 1993 fu l’anno nero. Scri-
ve la Sbai: «Il 1993 è stato un anno
drammatico per la cultura algerina,
un periodo in cui nessun militante
islamico aveva la minima pietà. Gli
intellettuali dovevano morire perché
una “tregua” non poteva essere con-
cessa a chi seguiva il libero pensiero.
Venivano controllati anche dall’este-
ro e molti avevano paura di parlare
anche per le possibili ripercussioni
sui familiari rimasti in patria». E il
1993 «
è stato un anno triste anche
perché Tahar Djaout, noto poeta,
scrittore e giornalista algerino, è sta-
to ucciso in una di quelle azioni le-
tali». Djaout, ucciso con una raffica
di mitra alla testa, era quello della
citazione con cui comincia il libro:
«
Se tu parli muori, se non parli
muori, allora tu parli e muori».
E lui così ha fatto.
DIMITRI BUFFA
l Nobel per la Pace all’Unione
Europea? Scontato, si dirà: è un
dato di fatto che sul Vecchio Con-
tinente, da più di mezzo secolo, la
pace regna sovrana. Ma siamo si-
curi che sia stata l’Ue a porre fine
alle guerre? O non piuttosto… la
Nato? L’Alleanza Atlantica è nata
il 4 aprile 1949, dunque 8 anni
prima della Cee, l’embrione di
quella che sarebbe diventata
l’Unione Europea con il Trattato
di Maastricht del 1992. Dal 1949
al 1992, la Nato è riuscita a di-
fendere l’Europa occidentale da
una possibile aggressione del-
l’Unione Sovietica e del Patto di
Varsavia, permettendo alla Cee di
nascere e crescere in libertà. E lo
ha fatto senza sparare un solo col-
po: esclusivamente con la forza
del suo deterrente nucleare. Dopo
il 1992, a dissoluzione dell’Urss
appena compiuta, la Nato è stata
il primo motore dell’esportazione
della democrazia in tutto l’ex Pat-
to di Varsavia e persino in tre na-
zioni (Estonia, Lettonia e Litua-
nia) che erano parte integrante
dell’Unione Sovietica. E, anche
qui, lo ha fatto senza sparare un
colpo. Solo con la forza del suo
“
soft power”, il potere della per-
suasione politica e diplomatica.
Spesso si tende a sottovalutare un
fenomeno storico unico nel suo
genere: entro i confini della Nato
non è mai scoppiato alcun con-
I
flitto. Non solo: fra i Paesi della
Nato (con l’unica eccezione del
confine greco-turco) le frontiere
non sono militarizzate. Da italiani,
abbiamo sempre potuto circolare
liberamente, dal Canada alla Tur-
chia, senza timore di essere fer-
mati, controllati, spiati. E questo
grazie alla Nato, prima ancora
che all’Ue. E la Bosnia? E il Ko-
sovo? E la Libia? Anche qui, non
si deve dimenticare che le guerre
civili in Bosnia, Kosovo e Libia
sono scoppiate anni (nel caso bo-
sniaco) o mesi (nel caso kosovaro
e libico) prima che la Nato inter-
venisse militarmente. L’ingerenza
della Nato, semmai, ha posto fine
a conflitti che sarebbero andati
avanti ancora per molto. L’Ue, in
questo, è sempre andata a rimor-
chio: attecchisce lì (e solo lì) dove
la Nato ha già pacificato l’area. E
porta, al contrario, nuove conflit-
tualità. Nuovi membri dell’Ue
contro vecchi membri, Paesi me-
diterranei contro Paesi nordici:
mai vista tanta ostilità contro la
Germania, sia in Italia che in Gre-
cia, prima che l’Ue ci mettesse lo
zampino. Il Comitato del Nobel,
dunque, ha colto un aspetto fon-
damentale: l’assenza di guerre nel
Vecchio Continente. Ma ha asse-
gnato il premio all’istituzione sba-
gliata. Ieri avrebbe dovuto pre-
miare la Nato.
(
ste. ma.)
L’OPINIONE delle Libertà
MARTEDÌ 11 DICEMBRE 2012
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