on l’aumento degli aiuti mi-
        
        
          litari iraniani alla Siria, subito
        
        
          dopo il raid aereo israeliano al
        
        
          confine siro-libanese, si teme un
        
        
          nuovo conflitto di grandi dimen-
        
        
          sioni. Se finora le preoccupazioni
        
        
          erano rivolte a problemi separati,
        
        
          la guerra civile siriana, il conflitto
        
        
          fra Israele e Hamas, la tensione
        
        
          nel Libano meridionale e il lungo
        
        
          braccio di ferro sul programma
        
        
          nucleare iraniano, ora pare che
        
        
          tutte queste vicende siano desti-
        
        
          nate a convergere.
        
        
          Lo storico militare Victor Da-
        
        
          vis Hanson commenta questo mo-
        
        
          mento difficile nel suo ultimo edi-
        
        
          toriale pubblicato dalla
        
        
          
            National
          
        
        
          
            Review
          
        
        
          e giunge alla conclusione
        
        
          che vi sia un unico filo conduttore
        
        
          per tutte le crisi odierne: l’imma-
        
        
          gine di debolezza proiettata dagli
        
        
          Usa. Quando il gatto manca, i topi
        
        
          ballano recita un vecchio adagio.
        
        
          Nel mondo pare proprio che stia
        
        
          accadendo la stessa cosa, ma in
        
        
          grande e con conseguenze dram-
        
        
          matiche. «Nel corso della storia,
        
        
          abbiamo visto che la guerra può
        
        
          essere evitata o rimandata, o i suoi
        
        
          effetti mitigati, solitamente grazie
        
        
          all’equilibrio di potenza, alle alle-
        
        
          anze e alla deterrenza, più che at-
        
        
          traverso le organizzazioni sovra-
        
        
          nazionali. Ma mai la guerra viene
        
        
          del tutto eliminata». La causa dei
        
        
          conflitti, per lo storico militare, si
        
        
          trova più nella percezione dell’al-
        
        
          
            C
          
        
        
          tro che non in cause materiali og-
        
        
          gettive. «Spesso, il pretesto per ini-
        
        
          ziare una guerra non è nella man-
        
        
          canza di terra, di cibo o di
        
        
          carburante – scrive Davis Hanson
        
        
          –
        
        
          ma in sentimenti quali il terrore
        
        
          e l’onore e in quel che si percepi-
        
        
          sce come il proprio interesse».
        
        
          Constatando l’addensarsi delle
        
        
          nubi nel Medio Oriente e in tutto
        
        
          il mondo islamico, Davis Hanson
        
        
          giunge alla conclusione che: «I dit-
        
        
          tatori del Medio Oriente e gli isla-
        
        
          mici si aspettano che gli Usa im-
        
        
          partiscano lezioni di pace e
        
        
          facciano ben poca guerra». Questa
        
        
          percezione di debolezza è raffor-
        
        
          zata dalle ultime mosse dell’am-
        
        
          ministrazione Obama: «Gli ame-
        
        
          ricani sono comprensibilmente
        
        
          stanchi delle guerre in Iraq e in Af-
        
        
          ghanistan. Ma non abbiamo la-
        
        
          sciato neppure una forza di sor-
        
        
          veglianza in Iraq e ci stiamo
        
        
          precipitando via dall’Afghanistan.
        
        
          E non abbiamo alcuna garanzia
        
        
          che i governi post-bellici di quei
        
        
          Paesi possano sopravvivere».
        
        
          In Asia potrebbe aprirsi uno
        
        
          scenario ancora peggiore, consi-
        
        
          derando la potenza degli attori
        
        
          coinvolti. Giappone, Sud e Nord
        
        
          Corea, Cina, ma anche Vietnam,
        
        
          Filippine, Indonesia, sono tutte
        
        
          coinvolte in una frenetica corsa
        
        
          agli armamenti, alimentata da
        
        
          scontri (finora solo verbali) per il
        
        
          controllo di isolotti apparentemen-
        
        
          te insignificanti. E anche in questo
        
        
          settore del mondo, l’assenza degli
        
        
          Stati Uniti inizia a pesare in modo
        
        
          significativo.
        
        
          Delegare il mantenimento della
        
        
          sicurezza agli alleati regionali, o
        
        
          all’Onu, si sta rivelando una pia
        
        
          illusione: «L’America può forse
        
        
          pensare che i nostri alleati più de-
        
        
          boli, o qualche approccio diplo-
        
        
          matico gentile, o qualche richiesta
        
        
          di scuse, qualche eufemismo o
        
        
          espressione di buone intenzioni
        
        
          possa evitare lo scoppio di tensio-
        
        
          ni che sembrano portare il mondo
        
        
          sull’orlo di un conflitto?»
        
        
          
            GIORGIO BASTIANI
          
        
        
          II
        
        
          ESTERI
        
        
          II
        
        
          Usa, il nuovo negazionismo del debito pubblico
        
        
          di
        
        
          
            STEFANO MAGNI
          
        
        
          l debito? Quale debito? Un nuo-
        
        
          vo negazionismo si sta afferman-
        
        
          do negli Stati Uniti. È la tesi di chi,
        
        
          a partire dal premio Nobel Paul
        
        
          Krugman, non vede alcun proble-
        
        
          ma nell’aumento del debito pub-
        
        
          blico. Questo dibattito teorico, ai
        
        
          confini del surreale, sta condizio-
        
        
          nando le decisioni del Congresso.
        
        
          Ieri, infatti, al Campidoglio, è stato
        
        
          deciso il rinvio al prossimo 18
        
        
          maggio della scadenza del tetto del
        
        
          debito pubblico. In questo modo
        
        
          si darà tempo a Repubblicani e
        
        
          Democratici di trovare un accordo
        
        
          sulla riduzione del deficit ed evi-
        
        
          tare il rischio di un default dei pa-
        
        
          gamenti dello Stato, dagli stipendi
        
        
          pubblici alle pensioni. Il tetto del
        
        
          debito pubblico è attualmente fis-
        
        
          sato a 16.400 miliardi di dollari.
        
        
          Attualmente, il passivo ha superato
        
        
          i 16mila miliardi di dollari (circa
        
        
          6
        
        
          mila in più rispetto al 2008,
        
        
          quando si insediò la prima ammi-
        
        
          nistrazione Obama). Eppure, in-
        
        
          vece di tagliare le spese, la discus-
        
        
          sione verte sul rinnovamento di
        
        
          una soglia politica, fissata dal Con-
        
        
          gresso, oltre la quale il debito non
        
        
          può più crescere. E, passata la qua-
        
        
          le, si va in default. Si tratta di una
        
        
          soglia arbitraria, che può essere
        
        
          spostata in avanti, o tenuta ferma.
        
        
          Apparentemente non sembra nep-
        
        
          pure che si stia parlando di qual-
        
        
          cosa di reale. Nei giorni scorsi, ad
        
        
          esempio, era circolata sui media (a
        
        
          partire dal
        
        
          
            New York Times
          
        
        
          )
        
        
          la no-
        
        
          tizia di un progetto inconsueto del
        
        
          
            I
          
        
        
          dipartimento del Tesoro: coniare
        
        
          una monetona di platino da 1000
        
        
          miliardi di dollari e depositarla
        
        
          nella cassaforte della Banca di Sta-
        
        
          to. Questa mossa, da sola, secondo
        
        
          i suoi proponenti, avrebbe permes-
        
        
          so di ridurre il debito per 1000 mi-
        
        
          liardi di dollari ed evitare la crisi.
        
        
          Il Tesoro ha smentito la notizia e
        
        
          ha elencato, invece, le misure che
        
        
          adotterebbe in caso di rischio di
        
        
          default. Stiamo parlando, come si
        
        
          può ben immaginare, di provvedi-
        
        
          menti molto drastici, come il rinvio
        
        
          degli assegni della previdenza so-
        
        
          ciale, la riduzione dei salari pub-
        
        
          blici, la sospensione di molti dei
        
        
          contratti con il Pentagono.
        
        
          I deputati e i senatori statuni-
        
        
          tensi dovranno trovare un accordo
        
        
          entro e non oltre il 15 aprile, al-
        
        
          trimenti saranno i loro stipendi ad
        
        
          essere sospesi (non siamo in Italia).
        
        
          Il problema è: su che basi trovare
        
        
          l’accordo? Per evitare il default, i
        
        
          Repubblicani (in maggioranza alla
        
        
          Camera) propongono di tagliare
        
        
          la spesa pubblica. Accettano di al-
        
        
          zare il tetto del debito solo ed
        
        
          esclusivamente se ad ogni dollaro
        
        
          in più corrisponde 1 dollaro in me-
        
        
          no nella spesa complessiva del set-
        
        
          tore pubblico. I Democratici, d’ac-
        
        
          cordo con il presidente Obama, in-
        
        
          tendono, al contrario, evitare il de-
        
        
          fault alzando il tetto del debito.
        
        
          Permettendo allo Stato di indebi-
        
        
          tarsi ancora di più. Ben oltre quei
        
        
          16.400
        
        
          miliardi di dollari fissati
        
        
          dalla legge attuale.
        
        
          In questo dibattito politico, i
        
        
          media (sia europei che americani)
        
        
          fanno il tifo per i Democratici. Ov-
        
        
          viamente, la preoccupazione per il
        
        
          default è universale: se gli Usa en-
        
        
          trano in crisi, il mondo intero ne
        
        
          risentirà. I Repubblicani sono in
        
        
          una posizione difficile: essendo una
        
        
          minoranza dotata di potere di ri-
        
        
          catto (in forza dei suoi numeri al
        
        
          Congresso) può risultare antipatica
        
        
          agli occhi della maggioranza. Oba-
        
        
          ma, poi, continua ad essere il pre-
        
        
          sidente più popolare del mondo,
        
        
          per lo meno agli occhi dei giorna-
        
        
          listi. E dunque chi si oppone ai
        
        
          suoi progetti, come minimo, viene
        
        
          accusato di mancare di buon sen-
        
        
          so. Ma c’è un’altra ragione per cui
        
        
          la proposta repubblicana di taglia-
        
        
          re la spesa non viene neppure pre-
        
        
          sa sul serio. Mentre nessuno trova
        
        
          qualcosa da ridire sul progetto de-
        
        
          mocratico di arrivare impunemen-
        
        
          te fino a oltre i 17mila miliardi di
        
        
          dollari di debito. E questa ragione
        
        
          è politica. In Italia siamo stati abi-
        
        
          tuati ad altissimi livelli di indebi-
        
        
          tamento pubblico proprio negli
        
        
          anni in cui crescevamo di più. Ne-
        
        
          gli ’80, infatti, il passivo cresceva,
        
        
          mentre i nostri portafogli si riem-
        
        
          pivano come non mai. Pochi col-
        
        
          legano la ricchezza, gonfiata dalla
        
        
          spesa pubblica, di quel decennio,
        
        
          con la crisi scoppiata nei primissi-
        
        
          mi anni ’90. E, dalla metà degli an-
        
        
          ni ’90 in avanti, in Italia il debito
        
        
          pubblico non ha fatto altro che
        
        
          crescere, fino ad arrivare all’attuale
        
        
          record di 2mila miliardi. Negli Sta-
        
        
          ti Uniti hanno vissuto un’esperien-
        
        
          za simile, anche se non analoga.
        
        
          Sia Reagan che Bush si sono for-
        
        
          temente indebitati, aumentando la
        
        
          spesa pubblica (soprattutto per la
        
        
          difesa) e tenendo basse le tasse. Le
        
        
          due amministrazioni Clinton han-
        
        
          no sempre mantenuto una certa
        
        
          costanza nella tassazione (soprat-
        
        
          tutto a causa dell’opposizione re-
        
        
          pubblicana) e aumentato la spesa
        
        
          sociale. L’amministrazione Obama
        
        
          ha battuto tutti i record: mai si era
        
        
          visto uno Stato così indebitato.
        
        
          Alla fine, però, queste politiche
        
        
          sono frutto di idee errate sull’eco-
        
        
          nomia. Idee, secondo cui, “il debito
        
        
          non è un problema”, come ha di-
        
        
          chiarato proprio l’altro ieri il mi-
        
        
          liardario liberal Warren Buffett.
        
        
          Egli ritiene che, se rapportato al
        
        
          Pil, il debito attuale sia più basso
        
        
          rispetto a quello del secondo do-
        
        
          poguerra, un periodo di grande
        
        
          crescita. Paul Krugman, in questi
        
        
          stessi giorni, sostiene che: «Il no-
        
        
          stro problema del debito, nel lungo
        
        
          termine, non è così grave come
        
        
          molti esperti pensano». Sia Buffett
        
        
          che Krugman ritengono che una
        
        
          combinazione di tasse, crescita
        
        
          economica (per ora solo prevista)
        
        
          ed eventuali tagli alla spesa pub-
        
        
          blica, possano “stabilizzare” i con-
        
        
          ti. Ma, come commenta l’analista
        
        
          Michael Tanner (Cato Institute),
        
        
          si tratterebbe di stabilizzare il de-
        
        
          bito «…su un ammontare che è
        
        
          pari a tre quarti del valore di tutti
        
        
          i beni e i servizi prodotti in questo
        
        
          Paese ogni anno». I “negazionisti”
        
        
          del debito, secondo Tanner, non
        
        
          terrebbero neppure conto di tutto
        
        
          il suo ammontare. Perché non in-
        
        
          cludono nei loro calcoli il debito
        
        
          intra-governativo, cioè quello che
        
        
          il governo federale ha contratto
        
        
          con la previdenza sociale, Medi-
        
        
          care e i fondi governativi. Basterà
        
        
          la crescita economica per compen-
        
        
          sare il debito nel prossimo futuro?
        
        
          Secondo l’analisi degli economisti
        
        
          Carmen Reinhart e Kenneth Ro-
        
        
          goff, i Paesi il cui debito è superio-
        
        
          re al 90% del Pil, mediamente,
        
        
          hanno una crescita di 4 punti per-
        
        
          centuali inferiore rispetto ai Paesi
        
        
          meno indebitati. Stando a questa
        
        
          prospettiva, gli Stati Uniti non
        
        
          compenseranno nulla: sarà la loro
        
        
          crescita a risentirne. Il problema,
        
        
          dunque, non è affatto immagina-
        
        
          rio. Ne va del futuro della prima
        
        
          potenza mondiale. E non si risolve
        
        
          certo alzando, sempre un po’ di
        
        
          più, l’asticella del limbo del debito
        
        
          pubblico.
        
        
          La persecuzione
        
        
          dei sufi tunisini
        
        
          DavisHanson: «La debolezza
        
        
          degli Usa generamostri»
        
        
          Alzare il tetto del debito
        
        
          pubblico e non tagliare
        
        
          le spese è la strategia
        
        
          di Barack Obama
        
        
          Il passivo“non è un
        
        
          problema”solo se non
        
        
          si tiene conto di alcuni
        
        
          dati di realtà...
        
        
          K
        
        
          
            Victor Davis HANSON
          
        
        
          n Tunisia negli ultimi due anni
        
        
          sono stati dati alle fiamme ben
        
        
          quaranta templi sufi. Alcuni dei
        
        
          quali veri e propri monumenti sto-
        
        
          rici e culturali, risalenti al Medioevo
        
        
          islamico. Anche se nell’Islam, come
        
        
          è purtroppo stranoto, la storia è an-
        
        
          data all’incontrario: se all’epoca in
        
        
          questione i costumi dei musulmani
        
        
          erano più liberi di quelli dei cattolici
        
        
          e degli ortodossi, oggi, dopo due-
        
        
          cento anni di wahabismo, si può
        
        
          dire esattamente il contrario.
        
        
          Sia come sia, il governo retto da
        
        
          Ennahada, partito islamico sedi-
        
        
          cente moderato, in realtà filiazione
        
        
          dei Fratelli Musulmani, si è deciso
        
        
          finalmente a intervenire sia per pre-
        
        
          servare i tesori della cultura tunisi-
        
        
          na sia per proteggere “gli eretici su-
        
        
          fi”. La  notizia della trasformazione
        
        
          del deserto tunisino in una specie
        
        
          di terra di nessuno della guerra san-
        
        
          ta, né più né meno di quel che suc-
        
        
          cede in quel del Mali, era stata data
        
        
          da vari media internazionali e da
        
        
          un meritevole servizio del settima-
        
        
          nale
        
        
          
            Tempi
          
        
        
          diretto da Luigi Ami-
        
        
          cone. Nell’articolo si riportavano
        
        
          le opinioni di alcuni esponenti del
        
        
          sufismo tunisino che si dichiarava-
        
        
          no preoccupati della piega perse-
        
        
          cutoria presa dai salafiti contro
        
        
          chiunque non abbracci quell’Islam
        
        
          del fanatismo e della violenza che
        
        
          in realtà ha appigli molto arbitrari
        
        
          nelle scritture del Corano. Vengono
        
        
          riportate le parole di Mohamed El
        
        
          
            I
          
        
        
          Heni, segretario generale dell’Unio-
        
        
          ne sufi della Tunisia: «Ripeto che
        
        
          il governo arriva troppo tardi  e noi
        
        
          speriamo che le misure siano messe
        
        
          in atto rapidamente e che non si
        
        
          tratti solo di un annuncio». Certo
        
        
          negli ultimi otto mesi sono stati
        
        
          bruciati ben 40 monasteri e luoghi
        
        
          di culto sufi, come si diceva prima.
        
        
          Inoltre il misticismo individualista
        
        
          che caratterizza quello che si può
        
        
          definire il “monachesimo islamico”
        
        
          viene visto con molto risentimento
        
        
          da chi invece sta usando l’Islam co-
        
        
          me elemento della politica espan-
        
        
          sionista di alcuni Paesi arabi, come
        
        
          l’Arabia Saudita. Di fatto l’Islam,
        
        
          come l’Ebraismo, non media attra-
        
        
          verso un sacerdote il rapporto tra
        
        
          l’individuo e Dio. Ma nel tempo si
        
        
          è creata una casta religiosa e para-
        
        
          statale che raccoglie l’eredità di-
        
        
          spersa dei Califfi che venne com-
        
        
          pletamente distrutta dai tartari a
        
        
          Baghdad nel 1258. Questa casta è
        
        
          anche quella che esprime la classe
        
        
          dirigente nei Paesi arabi, general-
        
        
          mente più che dispotica, e l’Islam
        
        
          viene usato per controllo sociale in-
        
        
          terno e per aggressione esterna. Per
        
        
          questo motivo il sufismo è stato
        
        
          sempre perseguitato sin dai tempi
        
        
          di Averroè e anche oggi, quando un
        
        
          partito di ispirazione islamica va al
        
        
          potere, i suoi esponenti vengono vi-
        
        
          sti come i classici “cani in chiesa”.
        
        
          Anzi in moschea.
        
        
          
            DIMITRI BUFFA
          
        
        
          
            L’OPINIONE delle Libertà
          
        
        
          SABATO 2 FEBBRAIO 2013
        
        
          
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