Attacchi preventivi e diritto internazionale

martedì 2 dicembre 2025


Le parole dell’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del Comitato militare Nato, preconizzanti attacchi preventivi della Nato contro la Russia, seppur circoscritti all’ambito ibrido, richiedono una riflessione sull’evoluzione della “legittima difesa” nel diritto internazionale, con particolar riguardo al principio della cosiddetta “guerra preventiva”, enunciato dal presidente americano George W. Bush all’indomani dell’11 settembre, per far fronte alle nuove minacce del terrorismo internazionale.

L’architettura disposta dalla Carta delle Nazioni Unite prevede sin dall’articolo 2 un divieto generale del ricorso alla forza nelle relazioni internazionali con l’unica eccezione costituita dalla legittima difesa individuale e collettiva prevista dall’articolo 51.

Nozione notevolmente ampliata dalla citata “dottrina Bush” della guerra preventiva. secondo la quale per far fronte alla minaccia terroristica, fallita la dissuasione, gli Stati Uniti e la comunità internazionale potevano intervenire non solo nell’imminenza di un attacco armato, ma anche nel caso in cui uno Stato territoriale ospitasse organizzazioni terroristiche o fosse in possesso di armi di distruzione di massa, pronto ad usarle. L’inedita interpretazione superava la consuetudine secondo cui la legittima difesa non poteva essere esercitata nell’imminenza di un attacco armato, ma solo dopo che questo si fosse verificato.

Banco di prova fu l’operazione “Iraqi freedom” in Iraq seguita qualche anno dopo dall’eliminazione di Gheddafi in Libia.

Con la prima presidenza Trump veniva affievolita sia la dottrina della difesa preventiva che quella della responsabilità di proteggere (R2P, responsibility to protect), secondo la quale era lecito intervenire in Paesi ove si registravano gravi lesioni dei diritti umani.

L’intervento dell’ammiraglio Cavo Dragone richiama quella dottrina, sebbene riferita ai soli attacchi informatici per i quali bisogna valutare il rapporto con il divieto dell’uso della forza e il conseguente principio del non intervento negli affari interni di uno Stato. 

Occorre pertanto chiedersi se un attacco informatico sia equiparabile alla forza armata e di conseguenza integrare una violazione dell’articolo 2 della Carta onusiana.

Data l’attuale potenzialità degli attacchi informatici, basti pensare a quelli che possono compromettere infrastrutture essenziali di uno Stato quali ospedali, centrali elettriche o centri di comando, non può escludersi che possano essere intesi come espressione dell’uso della forza. Appare innegabile quindi che allorquando una operazione informatica produca effetti del tutto simili a quelli che si sarebbero potuti verificare con tradizionali mezzi bellici, questa non possa che essere considerata come una violazione del divieto di uso della forza. D’altro canto, l’articolo 2 non prevede alcuna distinzione in merito al mezzo attraverso cui l’uso della forza debba poi concretarsi.

Sicuramente la qualificazione dipende anche dagli effetti dell’azione. Se un attacco informatico produce degli effetti uguali a quelli prodotti da un attacco tradizionale, vale a dire effetti distruttivi sulle cose o sulle persone, allora si potrà ritenere che una tale operazione sia espressione dell’uso della forza così come previsto dalla Carta.

Secondo la Corte Internazionale di Giustizia in assenza di questi elementi un attacco informatico può essere considerata una interferenza ‒ scaramucce le definisce la Corte ‒ senza raggiungere la soglia di un intervento illecito.

Sicuramente l’ammiraglio Cavo Dragone si riferiva a questa tipologia di intervento perché qualora altre azioni più incisive si rendessero necessarie di fronte alla minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, il nostro Paese e l’Alleanza cui appartiene si deve attenere alle regole internazionali e alla Costituzione. È proprio il rispetto delle regole che ci distingue come ben specificato anche dall’ammiraglio.  


di Ferdinando Fedi