La crisi della politica odierna: una sintesi

giovedì 27 novembre 2025


Finito il girone di ritorno delle Regionali, tutti hanno vinto, quindi tutti hanno perso, specialmente alla luce dell’elevatissimo e crescente tasso di astensionismo per cui quasi il 60 per cento dell’elettorato ha ignorato – legittimamente dal punto di vista giuridico – l’ultima tornata di elezioni amministrative. Del resto, una simile tendenza è in crescita e non solo in Italia, ma un po’ ovunque nel mondo occidentale e non può essere ritenuta politicamente neutra sebbene partiticamente trasversale. Tuttavia, a fronte del sovrabbondare di analisi dei numeri, coefficienti e flussi elettorali, dallo scenario manca del tutto una ricerca della sintesi, cioè delle motivazioni prime e degli effetti ultimi di una così radicata e sempre più acuta crisi attuale della politica.

La politica registra, probabilmente, il livello massimo della crisi da alcuni anni la affligge, ma occorre comprendere i motivi principali di tale disaffezione che, a una ricognizione generale, paiono essere almeno tre. In primo luogo, emerge l’autoreferenzialità. La politica non è più né vissuta da chi vi partecipa attivamente come eletto, né intesa da chi ne subisce esternamente le sorti come elettore, come qualcosa che sia in grado di incidere significativamente sulla tutela del bene comune. Si è avverata, purtroppo, la temuta profezia sulla sclerotizzazione degenerativa preconizzata da Luigi Sturzo per cui la partitocrazia è divenuta la malattia dei partiti, poiché le direzioni di questi ultimi si impongono sulla coscienza dei singoli parlamentari creando e rinsaldando un sistema che è oramai divenuto autoreferenziale e sempre più scollato dal sentire dell’elettore medio.

In secondo luogo, si rivela l’inidoneità della selezione del personale politico. Una volta i grandi partiti di massa come il Pci o la Dc avevano una struttura non soltanto territorialmente radicata, per cui attraverso le sezioni di partito nelle piazze italiane la popolazione era costantemente in contatto coi suoi partiti, ma anche e soprattutto formativamente orientata. Non si diventava esponenti di spicco come segretari o capigruppo sulla base di finzioni para-elettorali come le primarie o sulla base dei rapporti di forza dettati da danari personali, visibilità mediatica o numero di elettori fidelizzati, ma sulla base della capacità politica del soggetto che per anni veniva formato nelle scuole di partito più che nella mera militanza attiva.

Per rappresentare la classe lavoratrice occorreva una salda preparazione sui problemi sociali esaminati alla luce della dottrina marxista; per rappresentare gli elettori cattolici, invece, era necessaria una profonda conoscenza della dottrina morale e sociale della Chiesa. Nessun avventuriero o fautore di interessi soggettivi poteva trovare accoglimento o promozione all’interno dei sistemi partitici tradizionali del secolo scorso. Oggi, invece, l’impreparazione del politico medio è la norma, non soltanto sul piano della cultura generale – la cui assenza sostanziale è soltanto il portato diretto di decenni di decadimento del sistema scolastico – quanto soprattutto sul piano della capacità di avere o sviluppare una visione politica, cioè una visione concretamente rivolta al perseguimento del miglioramento delle condizioni di vita del Paese, cioè nella direzione della tutela del bene comune.

In terzo luogo, viene in rilievo la mutazione genetica della politica odierna. La fine delle ideologie ha segnato, infatti, l’avvento dell’ideologia che si oppone a tutte le ideologie. Le ideologie, soprattutto quelle novecentesche, sono state indubbiamente foriere di morte e devastazione, ma nella loro rude negazione dell’uomo hanno mostrato di avere almeno un grande difetto e un grande pregio. Il grande difetto è quello tipico dell’ideologia in quanto tale, cioè mentire al mondo sul mondo; il grande pregio, invece, è quello di non mentire su se stesse, perché sebbene le ideologie siano strutturalmente false hanno sempre l’onere, per reclutare adepti solerti e dalla cieca obbedienza, di sembrare vere il più possibile, più vere della stessa realtà che negano, più vere di tutte le altre verità. La politica animata dalle ideologie era sicuramente falsata dalla falsificazione di cui le ideologie sono portatrici, ma nella tragicità dei loro errori costitutivi era comunque una politica tipicamente umana, poiché la natura umana è strutturalmente fallibile e quindi responsabile, responsabilizzante e responsabilizzata.

Oggi, invece, la politica, svincolata da ogni ideologia che non sia l’autoglorificazione di se stessa, si reputa e s’impone come qualcosa di infallibile poiché dismesse le grandi opposizioni ideologiche si è resa traduttrice della tecnica del governare le masse. La politica non agisce politicamente per regolare l’economia, ma si affida alle previsioni dei tecnici; la politica non sviluppa più piani strategici di ordine infrastrutturale, perché i tecnici – per lo più economici – lo sconsigliano o lo impediscono; la politica non si assume l’onere di disciplinare, consentendo o vietando, una determinata materia in virtù di una superiore e anteriore specifica dimensione antropologica, ma si limita a recepire e obbedire passivamente alle risultanze dei tribunali e delle corti di legittimità nel loro ruolo di tecnici del diritto.

Nel XX secolo la politica era l’ambasciatrice delle ideologie, nel XXI secolo, invece, essa si è ridotta ad essere la cameriera della tecnica. Il furore ideologico del secolo passato che ha animato i grandi movimenti politici di massa ha ceduto il posto, nel secolo presente, alla asettica e sterile gestione tecnica della cosa pubblica e del mondo. Se l’elettore – con i suoi bisogni, le sue ambizioni, le sue pulsioni ideologiche – era al centro dell’esperienza politica dei grandi partiti di massa del passato, oggi è stato ridotto ai margini dell’esperienza politica come mero ratificatore periodico delle decisioni astratte della politica che subisce le risultanze dei tecnici.

La freddezza degli elettori, dunque, non può essere loro rimproverata dato che essa è il frutto del raffreddamento che la politica ha subito per essersi contaminata prima e sottomessa poi alla tecnica. Alla luce di tutto ciò la politica deve essere ripensata nella sua fondazione antropologica e nella sua autonomia dalla tecnica, poiché l’elettore ha perfettamente compreso ciò che sfugge ai politici, cioè che se la politica viene ridotta alla tecnica quest’ultima appare necessariamente sufficiente, mentre la prima diventa del tutto inutile.


di Aldo Rocco Vitale