La casa nel bosco e il diritto naturale

lunedì 24 novembre 2025


Il caso dei minori sottratti ai genitori che vivevano nel bosco ha suscitato scalpore, polemiche e le solite due tifoserie di favorevoli e contrari. Ciò che qui ci si ripropone è una critica che non si ponga secondo l’ottica orizzontale dei sentimentalismi ideologici alla base delle due fazioni, per cercare di affrontare il tema dal punto di vista verticale e razionale del diritto naturale.

Posto che nessun nocumento effettivo all’integrità psicofisica dei minori è stato realmente accertato, e che nessun pericolo attuale pare sia stato certificato, orientandosi tutta la vicenda piuttosto verso una dimensione di pericolo potenziale a causa dell’assenza dell’acqua corrente, dei rapporti scolastici ordinari e delle generali condizioni abitative della struttura in cui la famiglia viveva nei boschi abruzzesi, alcuni interrogativi si pongono come preliminari.

Dato questo caso, che in un modo o nell’altro potrebbe rappresentare un non trascurabile né episodico precedente, cosa dovrebbe accadere nei numerosi altri casi di decine di migliaia di minori inseriti in contesti esistenziali e abitativi con identiche o peggiori condizioni come quelli che vivono, per esempio, in regioni quali la Sicilia in cui l’acqua manca circa per sei mesi all’anno, in cui quasi tutti gli edifici privati sono fatiscenti e certamente non anti-sismici, in cui si registra il primato nazionale per l’abbandono scolastico?

Certamente la patologia di alcuni contesti non può essere considerata la fisiologia di altri, ma la cura forzata per taluni dovrebbe allora essere estesa a tutti. Il problema che già a livello sociologico potrebbe trovare, dunque, una facile risposta per una soluzione differente da quella adottata dal Tribunale per i Minorenni de L’Aquila, spinge a porsi il problema da una ulteriore e ben più alta prospettiva, cioè quella del diritto naturale.

Si è consapevoli di vivere in un’epoca in cui al diritto naturale non crede quasi più nessuno, neanche coloro che per formazione e per circostanze personali dovrebbero manifestare una aderenza retta e consapevole a principi universali e non negoziabili – spesso difesi a corrente alternata per incapacità logica o per convenienza personale – ma questo non è un motivo sufficiente per non appellarsi all’unica vera ragione giuridica che non soltanto consiglia sempre massima prudenza allorquando si tratta di famiglia e minori, ma che soprattutto consente di considerare il suddetto allontanamento come del tutto abnorme, cioè la ragione del diritto naturale per cui vi sono diritti che sono anteriori e superiori all’ordinamento statale e che lo Stato non può violare soprattutto alla luce di un pericolo meramente potenziale.

Il pericolo meramente potenziale, infatti, è categoria troppo labile per essere conciliabile con la tutela dei diritti fondamentali del singolo e della famiglia, con il rispetto del principio di legalità e con quello di certezza del diritto, con i principi generali dell’ordinamento – a cui anche le autorità statali devono soggiacere – tra cui spicca specialmente il neminem laedere.

Ciò che in questa sede è in ballo è ben più della stessa sorte dei tre minori e dei due genitori, poiché il caso in questione diventa un eccellente banco di prova per analizzare il rapporto tra diritto e dovere, tra diritto naturale e diritto statale, tra libertà individuale e potere coercitivo dell’autorità, tra Stato di diritto e Stato totalitario, cioè quello Stato che tende a intrufolarsi in ogni aspetto dell’esistenza umana e che se tale ancora non è, sicuramente nella direzione della totalitarizzazione pare dirigersi a gran passi proprio in questo primo quarto del XXI secolo.

Ciò considerato, a cura e salvaguardia di ogni pia anima normativistica, che tiene in massimo spregio o in minima considerazione il diritto naturale, occorre in primo luogo ricordare come il dovere e diritto di educazione della prole spetti – proprio ai sensi dell’articolo 30 della Costituzione italianaai genitori.

Alla luce di ciò i genitori non sono obbligati a far frequentare i corsi scolastici ai figli, ma – piaccia o dispiaccia – sono obbligati a provvedere alla loro istruzione ed educazione potendo, infatti, i figli sostenere gli esami di Stato di accertamento delle acquisite competenze in ragione della classe di riferimento da “esterni” del sistema scolastico pubblico.

La riprova è data dal recente rifiorire delle numerose scuole parentali che sono apparse negli ultimi anni su tutto il territorio nazionale, peraltro sembrerebbe con risultati in termini di preparazione degli allievi ben superiori a quelli ottenuti dal sistema scolastico pubblico.

Ciò che il caso in questione consente di rilevare è, tuttavia, la tendenza al ridimensionamento sempre crescente del ruolo genitoriale e dell’espansionismo quasi illimitato dello Stato nella crescita dei minori, come se questi fossero pertinenze statali.

In questa direzione, del resto, si muove l’idea che non sia necessario il consenso dei genitori per i corsi di sessuo-affettività che si vorrebbero introdurre, da parte di taluni massimi esperti delatori del diritto-dovere naturale di educazione ricadente in capo ai genitori, all’interno dei percorsi curriculari.

Lo stile di vita dei due genitori anglo-australiani protagonisti della vicenda in esame, forse proteso verso una direzione di rigido primitivismo esistenziale, probabilmente pendente sul versante di un ecologismo radicale, magari oscillante tra un tardivo hippiesmo e un precoce eremitaggio anti-tecnologico, può non essere condivisibile, ma, in assenza di solide prove contrarie, non può essere considerato presuntivamente foriero di danni psico-fisici nei confronti dei figli.

Se così non fosse, chi potrebbe stabilire il confine di quale sia lo stile di vita idoneo? In un Paese di atei si potrebbe educare religiosamente la propria prole? In un quadro culturale oramai rassegnato alla menzogna della fluidità di genere si potrebbe spiegare ai propri figli la verità biologica della dicotomia cromosomica della sessualità? In uno Stato totalmente digitalizzato in cui l’umano è ridotto ad essere un semplice QR-Code si potrebbe insegnare una realtà umana, intellettuale, morale non virtuale ai propri figli?

Di più: coloro che – senza acclarate violazione di norme penali – decidono di adottare uno stile di vita insolito e al di fuori del contesto dei canoni comuni potrebbero un domani essere sanzionati, per esempio negando loro il diritto alla riproduzione, seguitando così i più foschi scenari da distopia fantascientifica e fantapolitica?

Si consideri, peraltro, che una simile evenienza non è puro esercizio di fantasia, sol che si pensi ai test di idoneità genitoriale a cui vengono sottoposti – loro e loro soltanto – gli Inuit groenlandesi da parte delle autorità danesi con la conseguente sottrazione dei figli nel caso in cui i suddetti test non siano superati.

Qui ci si trova, insomma, dinnanzi a due visioni contrapposte e alternative. Da un lato, la prospettiva per cui la famiglia è una unità esistenziale di diritto naturale in cui gli interventi dello Stato devono essere comprovati da urgenze, devono essere di carattere eccezionale e sempre mirati a sostenerla più che a dissolverla.

Dall’altro lato, invece, la prospettiva diametralmente opposta, cioè quella per cui lo Stato può e deve intervenire a sua discrezione nell’ambito famigliare, poiché soltanto lo Stato sa cosa è bene per ogni singolo individuo e per la famiglia soprattutto.

Nel primo indirizzo, in genere, si inscrive la tradizione cattolica, come comprovano le parole di Leone XIII nella sua Rerum Novarum in cui il Romano Pontefice così precisa: “Ecco pertanto la famiglia, ossia la società domestica, società piccola ma vera, e anteriore a ogni civile società; perciò, con diritti e obbligazioni indipendenti dallo Stato (…). È dunque un errore grande e dannoso volere che lo Stato possa intervenire a suo talento nel santuario della famiglia. Certo, se qualche famiglia si trova per avventura in si gravi strettezze che da sé stessa non le è affatto possibile uscirne, è giusto in tali frangenti l’intervento dei pubblici poteri, giacché ciascuna famiglia è parte del corpo sociale. Similmente in caso di gravi discordie nelle relazioni scambievoli tra i membri di una famiglia intervenga lo Stato e renda a ciascuno il suo, poiché questo non è usurpare i diritti dei cittadini, ma assicurarli e tutelarli secondo la retta giustizia. Qui però deve arrestarsi lo Stato; la natura non gli consente di andare oltre. La patria potestà non può lo Stato né annientarla né assorbirla, poiché nasce dalla sorgente stessa della vita umana. I figli sono qualche cosa del padre, una espansione, per così dire, della sua personalità e, a parlare propriamente, essi entrano a far parte del civile consorzio non da sé medesimi, bensì mediante la famiglia in cui sono nati. È appunto per questa ragione che, essendo i figli naturalmente qualcosa del padre... prima dell’uso della ragione stanno sotto la cura dei genitori. (S. Th. II-II, q. 10, a. 12) Ora, i socialisti, sostituendo alla provvidenza dei genitori quella dello Stato, vanno contro la giustizia naturale e disciolgono la compagine delle famiglie”.

Nel secondo indirizzo, invece, si inscrivono storicamente le esperienze dei regimi totalitari novecenteschi, sia rossi che neri, che hanno sempre compreso come ogni operazione di ingegneria sociale di massa necessita prima dell’impossessamento e dello smantellamento della famiglia, tanto che i figli sono stati sempre considerati appartenenti allo Stato e non alla famiglia, come comprovano, tra i molteplici esempi possibili, le parole di Zlata Lilina, nota funzionaria del Commissariato per l’Istruzione dell’Urss, secondo la quale: “L’amore dei genitori non è forse in larga misura pericoloso per il bambino? La famiglia è individualista ed egoista, e il bambino cresciuto al suo interno in linea di massima è antisociale, pieno di aspirazioni egoistiche. Allevare i bambini non è un compito privato dei genitori, ma un compito della società”.

Che lo si riconosca da parte di tutti o soltanto da parte di alcuni, dunque, oggi il problema, soprattutto alla luce di un iper-attivismo giudiziario che agisce di concerto con gli “automatismi” sicuramente non infallibili del sistema di assistenza sociale, corre lungo il crinale che separa le due predette prospettive e che misura la cifra di aderenza o distacco dai diritti naturali, che per alcuni miopi sono da ritenere mere anticaglie metafisiche prive di valore reale, su cui in ultima analisi si consumano le trattative e lo scontro antropologico in atto a detrimento del diritto alla dignità umana dei soggetti coinvolti e della dignità del diritto in quanto tale considerato.

In conclusione, potendosi molto altro aggiungere, ma dovendosi altro tacere per motivi di spazio, sembrano tornare alla mente le caustiche parole di chi è nato e cresciuto in un sistema in cui proprio i diritti anteriori e superiori di ordine naturale venivano sistematicamente negati e stropicciati dalle autorità, cioè Aleksandr Solženicyn che per tutti e per sempre, come novello Socrate, ha insegnato come: “I diritti naturali non dovrebbero costituire oggetto di negoziati”.


di Aldo Rocco Vitale