4 Novembre, festa dell’identità nazionale

martedì 4 novembre 2025


4 novembre 1918: entra in vigore il trattato d’armistizio siglato dall’Italia e dall’Austria la sera del giorno precedente a Villa Giusti, nelle vicinanze di Padova. In quel momento si rende formale e ufficiale la vittoria italiana nella Grande Guerra e da quel momento il 4 novembre è istituito come giornata della celebrazione della vittoria, della rimembranza della guerra, della commemorazione dei caduti e, secondo la definizione ufficiale del decreto del 23 ottobre 1922, giorno dell’unità nazionale. Intorno a questa data si infiammarono discussioni e polemiche, fin dal 1919. Negli anni precedenti al 1922, infatti, gli internazionalisti socialcomunisti rifiutavano, anche con atti violenti, di enfatizzare e perfino di ricordare l’evento bellico e la vittoria; poi dopo il 1945 i medesimi internazionalisti di sinistra, per opporsi alle celebrazioni istituzionali, organizzavano contromanifestazioni, ma con intensità decrescente tanto che oggi solo microscopici gruppi di fanatici contestano l’anniversario. La visione che la destra ha sempre e spesso da sola sostenuto, è oggi largamente condivisa.

Il senso del 4 novembre, il senso della celebrazione e della rimemorazione, con tutta la simbolica connessa, è dunque oggi rispettato da quasi tutti i partiti politici e, soprattutto, dal popolo italiano. Tuttavia, ciò non ci esime dalla necessità di ribadire, rievocare e approfondire questo senso storico, ogni anno, sia perché senza una continua riscoperta della sua funzione di custodia e di educazione, la celebrazione rischia di diventare un mero automatismo e di venir confinata esclusivamente nell’ambito militare (che certo resta un ambito rilevantissimo nella vita di una nazione), sia soprattutto perché si tratta di una ricorrenza che riguarda lo spirito stesso dell’Italia.

Questa data è infatti un’occasione eminente per coltivare la coscienza patriottica e nazionale in un’epoca in cui, da un lato, le idee di nazione e di patria sono denigrate e aggredite da un vasto ed eterogeneo movimento globalista, e dall’altro lato le medesime idee vengono stravolte da difensori strumentali o semplicemente sciocchi che ritengono di valorizzarle ma in realtà le rendono grottesche e le indeboliscono.

Nella prima tipologia, la nazione viene svuotata di senso, la patria viene confusa con lo Stato, e il popolo è concepito secondo la teoria di classe adattata al presente. Nella seconda, la nazione viene assolutizzata e, per converso, sterilizzata (infatti, se una nazione si erge ad assoluto, le altre svaniscono come interlocutori e l’isolamento genera improduttività), la patria non è più oggetto d’amore ma di propaganda, e il popolo diventa strumento di un nazionalismo dogmatico. Nel primo caso la nazione si contrae fino a scomparire, nel secondo essa si gonfia fino a esplodere. In nessuno dei due la nazione è un’entità virtuosa in cui la patria e il popolo possano davvero prosperare.

All’opposto di queste due polarità che, pur con motivazioni diverse, finiscono per essere parimenti dannose, il patriottismo italiano, che ha nel 1918 uno dei suoi punti più alti e nobili, contiene tutte le premesse per evitare sia la disgregazione prodotta dall’ideologia internazionalistica sia la sclerotizzazione prodotta dall’ideologia nazionalistica che oggi si è larvatamente insinuata in Occidente nel campo del conservatorismo e del liberalismo tradizionali, i quali per loro natura difendono invece patria e nazione senza cadere nel buco nero del nazionalismo.

Queste premesse, che si traducono e si esprimono nel concetto di italianità, si sono conservate pur attraverso periodi storici contraddittori e perfino accesamente nazionalisti, come è stato il caso del ventennio fascista, che va respinto non perché lo dice la sinistra, che nel Novecento ha instaurato regimi totalitari ben più nefasti, ma perché lo ha mostrato la storia stessa del mondo occidentale, i valori e princìpi sui quali sono improntati il sentimento pubblico, la struttura politica delle sue nazioni e lo stile di vita dei suoi popoli.

La politica fondata esclusivamente sui rapporti di forza, i quali oggi come sempre consistono nella dimensione economica e militare, è destinata a perdere il valore spirituale, a inaridirsi (nel caso che in passato sia stata fertile) e a smarrire le dimensioni fondamentali costituite da patria, nazione e popolo. La politica di sola potenza è come un enorme edificio senza basamento, perché il fondamento primo delle nazioni sta nello spirito, non nella materia.

E l’Italia sa che è da esso che, prima di tutto, viene la salvezza. L’Italia ha saputo trarre un bene per la coscienza nazionale anche dalla frammentazione delle Signorie e dei Comuni, perfino dalla dominazione straniera su molti territori e per molti secoli, perfino da Caporetto.

Per l’Italia infatti, la storia è stata realmente magistra vitae, perché il ritardo nella formazione dello Stato nazionale (siamo effettivamente diventati nazione in ritardo rispetto agli altri Stati europei e in ciò siamo accomunati alla Germania, «die verspätete Nation», secondo la formula di Helmuth Plessner) non è un fattore di debolezza, al contrario, è il simbolo di una conquista sofferta. Il ritardo nella realizzazione non corrispondeva infatti alla precocità dell’origine, come sappiamo – fra l’altro – dagli scultorei versi di Petrarca: «Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno a le piaghe mortali che nel bel corpo tuo sì spesse veggio, piacemi almen che’ miei sospir' sian quali spera 'l Tevero et l'Arno, e 'l Po». Ed è appunto dall’origine, tutta spirituale, che la nazione italiana ha ricavato e continua a trarre la propria forza.

Il «miracolo italiano», lo straordinario sviluppo economico dagli anni Cinquanta e Sessanta, non era fondato né nella retorica politica né nella strategia finanziaria, ma nella italianità ovvero nelle risorse spirituali e culturali che hanno alimentato l’ingegno e l’impegno nel lavoro. Da queste radici profonde e nascoste è nato il sistema Italia, la poderosa struttura dei milioni (4,5 secondo le ultime statistiche) di piccole e medie imprese. E sono proprio queste radici ad essere espresse nell’articolo 1 della nostra Costituzione: il lavoro come fondamento della Repubblica è un enunciato morale, culturale, di visione del mondo, di ingegno e talento, perfino artistico. Questa è la versione italiana dell’etica del lavoro, che esprime l’identità del nostro popolo e si connette intimamente con l’affermazione della proprietà privata, con l’anelito alla libertà e con l’amore per la patria.

Il modello italiano del patriottismo nazionale, che non è una tautologia ma esprime un piano nuovo su cui pensare e rielaborare il sentimento di patria e la difesa della nazione, è di carattere primariamente spirituale perché unisce patria e amore, nazione e morale. Come scrive infatti Benedetto Croce, «l’amore di patria è un concetto morale. Nel segno della patria i nostri più nobili ideali e i nostri più austeri doveri prendono una forma particolare e più a noi vicina, una forma che rappresenta l’umanità tutta e attraverso alla quale si lavora effettualmente per l’umanità tutta. Perciò, se i nazionalismi aprono le fauci a divorarsi l’un l’altro, le patrie collaborano tra loro, e perfino le guerre tra esse, quando non si riesce ad evitarle, sono non di distruzione reciproca, ma di comune trasformazione e di comune elevamento. E poiché la patria è un’idea morale, essa ha in ciò il suo intimo legame con l’idea della libertà».

Questo è il patriottismo italiano; e questo è anche il senso della partecipazione italiana alla Grande Guerra, un senso costruttivo anche nella devastazione che essa ha causato, non solo perché ha riportato all’Italia i territori conquistati dall’invasore, ma anche perché ha recuperato i valori della libertà e dell’amor di patria.

Il 2 giugno è la festa nazionale in quanto celebrazione della Repubblica, e siamo tutti concordi nell’affermarlo. Ma il 2 giugno rappresenta una scelta fra due sistemi di governo e la vittoria dell’opzione repubblicana, mentre il 4 novembre esprime un fondamento originario che ha preceduto tutte le svolte e le scelte storiche e che ci accompagnerà anche in futuro. In questo senso strettamente ideale, il 4 novembre è dunque la festa dell’Italia storica, perché in questo giorno celebriamo la nostra essenza spirituale, l’unità della patria, l’orgoglio della nazione e l’identità del popolo.

La vittoria del 1918 ha ridato libertà e unità alla patria, e il motivo di orgoglio non sta soltanto nell’aver vinto la guerra, quanto nell’averla combattuta, perché era una guerra giusta e perché con essa si è difesa la nazione in tutte le sue parti, anche in quelli che erano i proporzionalmente piccoli territori di Trento e Trieste.

La nazione va concepita, sentita e vissuta nella sua interezza, perché in ogni sua minima parte c’è la nazione intera. Se si accetta questa tesi, si potrà, per esempio, comprendere il senso profondo della resistenza ucraina e del rifiuto di concedere territori all’invasore russo. Anche se sopraffatti dalla forza militare neosovietica e costretti da un trattato, gli ucraini non potranno mai abbandonarli nello spirito, perché sono parti del corpo della nazione ucraina, parti del suo popolo.

E così fu per le terre irredente, parti inalienabili della nazione e dell’identità italiana. Solo con l’amore per la patria si edifica una nazione virtuosa, e solo così si assegna il giusto ruolo allo Stato, come ci ricorda ancora Croce: «è per la mediazione dell’amore della patria che sorge il dovere verso lo Stato, cioè verso la necessità che hanno i popoli della buona amministrazione e governo delle loro forze, e della pace e della sicurezza, per svolgere l’opera del lavoro civile». Se, come affermava Ernest Renan, «la nazione è il plebiscito di ogni giorno», l’amore per la patria è il fondamento che rende possibile quel plebiscito e l’identità del popolo ne è il risultato.


di Renato Cristin