Dal ferro e dal fuoco, il mondo nuovo

martedì 17 giugno 2025


Di queste ore l’infiammarsi del conflitto – che da tempo scorre in vena carsica – tra Israele e Iran. Dai rispettivi cieli piovono micidiali ordigni di morte. Pensiamo che questa nuova crisi non piaccia a nessuno. Ma qual è il giusto rimedio alla distruzione? E, soprattutto, quale insegnamento possiamo trarre dagli eventi a cui assistiamo? Domande che hanno la presunzione di aiutare lo sguardo a elevarsi al di sopra della miseria della polemica propagandistica alla quale ci condanna una politica miope fatta da inetti. La stessa che riesce nelle sue fasi di acme a sfidare il ridicolo, in spregio a ogni pudore della ragione. Avete ascoltato le dichiarazioni di Elly Schlein e di Giuseppe Conte sull’attacco di Israele ai centri di produzione nucleare dell’Iran? A sentire loro sembrerebbe che Benjamin Netanyahu abbia deciso di attaccare Teheran per il solo gusto di mettere in difficoltà Giorgia Meloni con i partner europei. Raramente ci siamo imbattuti in una vertigine di idiozia di tale altezza. Ma il dramma della guerra non può essere ridotto alla valutazione in chiave psichiatrica dell’ipotizzata personalità bipolare di Donald Trump. Si tratta di qualcosa di più serio e di più profondo su cui vale interrogarsi.

A partire da una semplice constatazione: nessuno, dalla fine del Secondo conflitto mondiale, ha invocato la guerra come soluzione delle controversie tra Stati eppure, negli ultimi 80 anni di guerre ve ne sono state innumerevoli, da tutte le parti e con costi umani giganteschi. D’altro canto, come spiegare che il saggio monito degli antichi romani “si vis pacem, para bellum” sia stato tradotto universalmente “se vuoi la pace, fai la guerra”? Com’è stato possibile che l’ossimoro più lacerante per la condizione umana sia diventato la più veritiera rappresentazione della natura dell’uomo? Al riguardo, è nostra opinione che ci si sia fatti prendere la mano dalla volontà di banalizzare la lettura, oltremodo complessa, delle relazioni umane e interstatuali; si è, con fallacia, ritenuto che il canone interpretativo del nuovo tempo potesse essere l’ideale di pace; si è ostinatamente provato a negare l’attitudine della guerra a essere motore del cambiamento; si è appoggiato il colpo di mano con cui la “narrazione” ha attentato alla centralità della storia nella dinamica dei precari equilibri geopolitici globali.

Ciò che oggi sta accadendo non è la rottura di un sistema armonico ma la prosecuzione della ricerca di nuovi assetti internazionali; della ridefinizione delle aree esclusive di influenza delle grandi potenze globali rispetto a quelle assegnate nel Novecento al termine dei due conflitti mondiali. Non si tratta di riconoscere i segnali distintivi di una terza guerra mondiale a pezzi, evocando una suggestiva concettualizzazione del defunto papa Jorge Mario Bergoglio, ma di una revisione completa e aggiornata dell’ordine mondiale che venne sancito alla Conferenza di pace di Parigi nel 1919 e, successivamente, alla Conferenza di Yalta nel 1945. Quel mondo lì non esiste più. Nuovi attori sono apparsi e si sono imposti sulla scena internazionale che chiedono spazio strategico e legittimazione del loro status di potenza, globale o regionale che sia. Tuttavia, nulla può essere dato o graziosamente concesso da un metafisicoRe del mondo” della tradizione iniziatica, ma tutto va conquistato sul campo. E sul campo pagato. Il mezzo bellico non è il solo, ma di certo il più efficace, per rispondere allo scopo. È la guerra, non la pace, ad accompagnare l’uomo fin dagli albori della sua civiltà. Negare tale elementare verità è fare torto alla razionalità, talvolta indecifrabile e misteriosa, del divenire della Storia.

Prendersela con Israele perché colpisce preventivamente il nemico è come censurare il contadino perché, spargendo antiparassitari sulle piante, protegge il suo raccolto. Nella tradizione ebraica – come osservato da Joseph de Maistre – il titolo “Dio degli eserciti” brilla in ogni pagina della Sacra Scrittura. E sempre per de Maistre: “la terribile legge della guerra non è che un capitolo della legge generale che pesa sull’universo”. La guerra, per dirla con Georg Wilhelm Hegel, è l’accidente necessario che consente alla Storia di non perdere il suo motore primo. Certo, adesso che siamo calati dentro alla realtà del conflitto, che sebbene non ci tocchi direttamente comunque ci sfiora, tutto appare orribile e il futuro si annuncia – come direbbero quelli bravi – distopico (noi dei piani bassi preferiamo dire “una schifezza”). Nondimeno, è da questo caos che risorge un nuovo ordine: Ordo ab Chao.

Israele, Iran, la guerra della Russia in Ucraina, le mire di Pechino su Taiwan, quelle di Donald Trump sulla Groenlandia e su Panama, il Medio Oriente, il confine Indo-pakistano, il Nagorno Karabakh e la rivalità tra Armenia e Azerbaigian. Il sogno imperiale della Turchia ottomana e del ritorno della Sublime Porta. Il fuoco della guerra sotto la cenere dei Balcani. E l’Africa. Ci sta tutto in questa logica di rimescolamento, dove il comune denominatore è la guerra. Eppure, si predica una pace che non sia il paradiso vissuto nelle atmosfere oniriche, né quella del silenzio assordante dei cimiteri. Essa non può essere altro che il momento di reintegrazione, più o meno duraturo, dello stato di non belligeranza sulla base delle condizioni politiche, economiche e territoriali imposte dai vincitori ai vinti.

Quindi, il problema non è se evitare il caos con le sole parole di pace ma come collocarsi, da individui e da comunità statuali, nello scenario in tumultuoso cambiamento; se essere partecipi, in una posizione più o meno defilata rispetto al centro della scena, dell’avvento del nuovo ordine o esserne il prezzo da pagare. Gli israeliani hanno imparato a loro spese cosa essere. Lo hanno sempre saputo – anche se nel lungo tempo della diaspora lo avevano dimenticato – perché è scritto nella Bibbia. Non occorre tirare in ballo l’inflazionato mito di Davide contro Golia. Ormai Davide è da un pezzo che è cresciuto e sa cavarsela benissimo da solo, in tutte le circostanze. È piuttosto l’esercito di Giosuè che si presenta sotto le mura di Gerico per distruggerla nel nome del Signore degli eserciti. Sono i 300 soldati di Gedeone, inviati da Dio a liberare Israele.

Vedere immagini di morte tra i civili, è cosa che spacca il cuore. Ma ciò non può annichilire la nostra volontà di combattere, o di sostenere chi lo fa anche per noi, in vista dell’affermazione della nostra visione del mondo e del futuro che, naturaliter, non sarà, né potrebbe essere, la stessa di chi ci contrasta per far prevalere la sua visione. È lotta vitale per l’egemonia. Esiste un’idea di virilità spirituale che gli israeliani praticano mentre di essa sembra essersene persa traccia nelle contrade occidentali. Eppure, per primi noi italiani dovremmo avvertire una responsabilità supplementare che risiede nel dovere della memoria profonda. Dovremmo, più degli altri, ricordare da dove veniamo e da chi discendiamo. Per metterla sul mitico-apologetico, malamente scimmiottando un ispirato Gabriele D’Annunzio: non dai volti silvani delle driadi, ma dal ferro e dal fuoco di Marte e di Vulcano è stata forgiata l’italica stirpe. Perciò, cerchiamo di non esagerare con le lacrimucce da educande impaurite dal tuono del cannone quando vediamo un cacciabombardiere alzarsi in volo.


di Cristofaro Sola