Liberali o liberals? Il caso Canada e l’inganno delle parole

mercoledì 30 aprile 2025


Dietro la vittoria elettorale in Canada non c’è il trionfo della libertà,

ma l’ennesima espansione del potere statale.

In occasione delle recenti elezioni canadesi, molti giornali italiani hanno celebrato la vittoria dei (presunti) “liberali” come se si trattasse di un trionfo della libertà individuale e del libero mercato. Titoli come “i liberali di Carney conquistano la maggioranza” o “Carney confermato primo ministro dai liberali” hanno dato l’illusione che il Canada avesse scelto un governo improntato ai principi classici della tradizione liberale. Ma questa rappresentazione è falsa. Il Liberal Party of Canada che ha vinto le elezioni non difende il libero mercato, la proprietà privata come diritto inviolabile né è fautore della limitazione del potere e dei compiti e funzioni del governo: è un partito statalista che sostiene l’espansione dell’intervento pubblico e la redistribuzione coercitiva della ricchezza.

Nato nel 1867, lo stesso aveva inizialmente un legame con le idee della libertà individuale, della responsabilità personale e del governo limitato. Tuttavia, come era accaduto negli Stati Uniti d’America, col tempo si è progressivamente trasformato in uno strumento politico per espandere il potere dello Stato sull’economia e sulla società. Questa trasformazione ha ricevuto il suo impulso decisivo durante l’epoca del New Deal, quando Franklin Delano Roosevelt ha avviato un interventismo esteso e massiccio nell’economia americana. Ma quell’interventismo non ha rappresentato un vero sistema capace di conseguire i fini proclamati: si è tradotto piuttosto in un insieme di misure che hanno distorto e indebolito il funzionamento dell’economia di mercato. In particolare, lungi dal migliorare le condizioni generali, le politiche adottate in quegli anni hanno ostacolato la produzione, impedito il pieno soddisfacimento dei bisogni e impoverito la nazione nel suo insieme. Alcune minoranze hanno certamente beneficiato di privilegi e protezioni, ma il costo è stato scaricato sulla collettività. Invece di creare prosperità diffusa, l’interventismo ha sacrificato l’interesse generale agli interessi particolari, generando una perdita di benessere e una compressione della libertà economica.

Il liberalismo autentico, in realtà, non ha mai confuso il compito della politica con la salvezza dell’anima o con un progetto di redenzione collettiva. Non ha mai preteso di indicare agli individui come vivere, ma ha posto limiti precisi al potere per proteggere la libertà di ciascuno. La sua ambizione non è mai stata e non è quella di costruire una società perfetta, ma di garantire uno spazio in cui ogni persona possa perseguire i propri fini senza imposizioni arbitrarie. “Il liberalismo − ha scritto Ludwig von Mises − guarda solo ed esclusivamente alla vita e alla prassi terrena”, la sua preoccupazione non è creare paradisi in terra, ma costruire una società nella quale ciascun individuo sia libero di perseguire i propri scopi, senza che altri − tanto meno lo Stato − si arrogassero il diritto di dirgli come vivere”.

Questo modello di libertà, fondato sulla proprietà privata, sulla cooperazione sociale volontaria e sulla limitazione del potere politico, è stato progressivamente abbandonato. Anche in Canada, a partire dagli anni Sessanta con Pierre Trudeau, il medesimo Liberal Party ha imboccato la strada di uno statalismo temperato dal linguaggio dei diritti sociali. Espansione della spesa pubblica, regolamentazione onnipresente, aumento del ruolo federale e moltiplicazione dei programmi di welfare hanno via via sostituito l’antica missione di proteggere la libertà individuale.

La recente affermazione del citato Mark Carney si inserisce perfettamente in tale traiettoria. Il suo programma, incentrato su spesa pubblica crescente, nuove tasse, imponenti vincoli ambientali e ulteriori meccanismi di redistribuzione, è tutto fuorché liberale nel senso classico. Non si tratta di difendere la società spontanea, ma di gestire dall’alto l’economia e la società secondo piani politici.

Definire “liberale” detto progetto significa pertanto tradire il significato stesso della parola liberalismo. Non si tratta di una mera disputa lessicale, ma della difesa della libertà autentica contro l’usurpazione linguistica operata da chi usa il termine “liberale” per giustificare l’espansione del potere. Chi difende il sistema di principi del liberalismo sa che la vera libertà non nasce dalla benevolenza dello Stato, ma dalla sua limitazione strutturale.

Come ha pure rilevato Ludwig von Mises con estrema chiarezza, “ciò che il liberalismo sostiene non è che l’ordinamento capitalistico sia ottimale da qualsiasi punto di vista. Esso afferma semplicemente questo: che, per ottenere gli scopi che gli uomini perseguono, la società capitalistica è l’unica adatta, e che i modelli sociali che si chiamano socialismo, interventismo, socialismo agrario e sindacalismo sono irrealizzabili”, evidenziando altresì che: L’essenza del liberalismo sta nella proprietà privata, non nel concetto − peraltro frainteso − di libera concorrenza. Il punto decisivo non sta nell’esistenza di tante fabbriche di grammofoni, ma nel fatto che i mezzi di produzione con cui si fabbricano i grammofoni non siano proprietà collettiva bensì privata”. È questo il cuore del liberalismo autentico: la proprietà privata come fondamento insostituibile della libertà individuale. Quando lo Stato si arroga il diritto di pianificare, redistribuire, correggere il mercato e la società, non amplia la libertà: la soffoca. Difendere la libertà oggi significa riaffermare, senza compromessi, che il vero potere civile risiede negli individui e nelle loro scelte volontarie, non nelle decisioni di chi governa.


di Sandro Scoppa