Le prefiche di Bergoglio

mercoledì 23 aprile 2025


Papa Francesco è morto. Il mistero della morte reca un portato drammatico che noi rispettiamo. Lo dobbiamo a un miliardo 375 milioni e 852mila cristiani cattolici sparsi per il mondo (fonte: Rapporto Fides 2023) che riconoscono alla figura del pontefice, in quanto rappresentante di Dio in terra, centralità nelle loro vite. Tuttavia, rispetto per il simbolo non significa condivisione acritica dell’azione che l’uomo Jorge Mario Bergoglio ha svolto nel compimento della sua funzione apostolica. Oggi, per i credenti, è tempo delle lacrime ad accompagnare la dipartita del vicario di Cristo che torna alla casa del Padre. Ma non tutte le lacrime sono sincere. Alcune sono false, molte sono ipocrite. Il pontificato di Bergoglio ha stravolto l’immagine e la missione della Chiesa. Chi, tra i potenti, lo ha percepito come una voce dissonante a lui si è opposto dandogli formalmente ragione ma ignorandolo nella sostanza; altri, i nemici giurati della nostra civiltà e della fede cristiana, hanno trovato in Bergoglio un alleato insperato, nella critica radicale all’impianto di valori costitutivi del nostro mondo e al cui consolidamento la tradizione della Chiesa cattolica ha contribuito nei secoli. Tutti costoro – chi lo ha segretamente osteggiato ma ha taciuto pubblicamente e chi invece lo ha spalleggiato ritenendolo l’avversario desiderabile per la sua arrendevolezza alle prepotenze praticate contro i cattolici – sono le prefiche che oggi si aggregano in dolente corteo dietro la salma dell’illustre defunto. L’elenco delle prefiche, guest star in questa ipocrita spettacolarizzazione di un dolore bugiardo, è quello stilato con certosina dovizia di particolari dal nostro Giancarlo Lehner nel suo editoriale di ieri. Lui non la tocca piano. Ci va giù pesante, ma ha ragione da vendere in ciò che scrive. Perciò, diamoci un taglio con l’insopportabile retorica del Bergoglio papa della gente. Nossignori, il prelato argentino divenuto pontefice ha virato in direzione anti-occidentale. Il suo dichiararsi papa degli ultimi è stata una scelta di campo ideologica che ha azzerato il tradizionale interclassismo della Chiesa cattolica in luogo del quale è stato assunto a principio-guida l’esclusivo interesse dei diseredati. Comprensibile occuparsi dei poveri e degli sconfitti, se si abbraccia una visione pauperistica dell’esistenza, spacciandola per reintegrazione dell’autenticità del messaggio evangelico. Ma non ci sono soltanto gli ultimi di cui occuparsi a questo mondo. Ci sono i penultimi, i terzultimi, con le loro istanze di protezione e di sostegno nella battaglia per la sopravvivenza. E ci sono quelli che stanno in mezzo, che non stanno nei bassifondi della società ma neanche ai piani alti; che sono tartassati dal fisco e vessati dalle élite che comandano il gioco. Quelli che lavorano e portano avanti le famiglie e le nazioni in cui vivono con onore e disciplina. E sono la maggioranza silenziosa. A questa umanità laboriosa e credente cosa hanno dato gli anni del pontificato bergogliano? Nulla che non fosse rimprovero per aver perseguito il benessere proprio e della propria comunità di appartenenza e senso di colpa morale per essere ciò che è, per desiderare una vita tranquilla e sicura. Bergoglio, all’atto del suo primo saluto da papa alla città eterna che lo acclamava, disse: i miei fratelli cardinali per trovare un papa sono andati a prenderlo alla fine del mondo. Diceva il vero. Ed è stato proprio questo il problema.

Bergoglio ha creduto di governare la Chiesa di Roma, cuore della civiltà occidentale, guardando al Sud globale, alle periferie del mondo. Ha pensato che la sua matrice ideologica – un misto di pragmatismo gesuitico coniugato a un populismo di stampo latinoamericano – potesse bastare per riconfigurare gli stilemi della religiosità dell’homo occidentalis. Bergoglio ha usato la sua critica radicale al capitalismo – e la sua ostilità ideologica al principio smithiano della mano invisibile del mercato che se lasciata libera di agire genera profitto – come un corpo contundente con il quale colpire i produttori di ricchezza. Come se l’imperativo categorico della restituzione della ricchezza ai poveri, unici destinatari dell’azione missionaria della Chiesa, potesse essere efficace in assenza del dinamismo competitivo di chi quella ricchezza è in grado di crearla. La “teologia del popolo” – dottrina fiancheggiatrice della più radicale e marxiana “teologia della Liberazione” – propiziata dall’opera di Bergoglio, presule in terra argentina, è affetta da un pernicioso sociologismo nell’analisi dei rapporti di produzione. Essa, sotto l’aspetto della religiosità, individua nella categoria sociologica del popolo il soggetto auto-evangelizzante. Il popolo – nella visione dei teologi del popolo – viene investito di un ruolo proattivo nella formulazione della dottrina della nuova Chiesa degli ultimi. Cosicché la fede non procede più dall’alto verso il basso, ma scaturisce direttamente dal popolo. Quando Bergoglio parla del pastore che deve “sentire l’odore delle pecore” per riconoscere il suo gregge, in realtà pensa che egli debba imparare dal popolo, e non insegnare. Joseph Aloisius Ratzinger (Benedetto XVI) provò da pontefice a combattere la “teologia dal basso”, sostenendo che la fede apostolica dovesse essere trasmessa dalla tradizione della Chiesa, e non altrimenti. Ma la sua abdicazione dalla cattedra di Pietro e il successivo avvento di Bergoglio sono stati lo stigma di una sconfitta. Il papa dei poveri – fautore assoluto della cancellazione delle frontiere – si è battuto contro ogni forma di protezione che le nostre comunità potessero darsi per difendersi dalle ondate di immigrazione illegale. Bergoglio è stato il teorico della demonizzazione dei muri, come se le mura non fossero state l’estremo baluardo che nei secoli ha protetto la civiltà occidentale dalla distruzione e dall’asservimento ad orde di conquistatori.

Come se le antiche cinte murarie aureliane, e poi quelle leonine, non avessero tenuto al sicuro per secoli il destino della cristianità custodito nella sua sede magistrale: Roma. E dare dei criminali di guerra ai politici, quali Marco Minniti, che avevano sottoscritto accordi con le autorità libiche per il respingimento dei clandestini (dichiarazione di Bergoglio del 23 maggio 2022 in merito alla mancata partecipazione il 27 febbraio 2022 all’incontro dei sindaci e dei vescovi del Mediterraneo organizzato a Firenze e al quale avrebbe partecipato anche l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti), papa o non papa, è stata una porcata indegna. E il fatto che oggi lo si commemori, non ne attenua, agli occhi della storia, le responsabilità per le scelte sbagliate fatte in vita. É sconveniente dirlo? Se non si è ipocriti non si deve temere di dire la verità, anche al cospetto di un defunto illustre. Bergoglio è stato graniticamente contro la guerra. Ogni guerra, anche se questo ha significato cancellare con un tratto di penna secoli di riflessione teologica cristiana, a cominciare da Sant’Agostino, su una compiuta dottrina del bellum justum, che dal Medioevo ha legittimato nel corpus dottrinale della Chiesa il concetto di guerra giusta. Bergoglio ha pronunciato l’elogio della bandiera bianca, quale segno di volontà negoziale, mentre per noi e per le centinaia di generazioni che ci hanno preceduto essa ha rappresentato il simbolo della resa.

Comprendiamo che Francesco abbia voluto impersonare lo spirito del tempo, con tutte le sue stridenti contraddizioni. Lo ha fatto da pastore della sua Chiesa, della quale ha riconosciuto l’attitudine alla resa. Tuttavia, ammettere il ricorso alle armi come atto necessario in circostanze straordinarie avrebbe aiutato a evitare pericolose ambiguità. Come quando ha descritto in un suo libro – La speranza non delude mai – la rappresaglia israeliana su Gaza alla stregua di un genocidio. Si può essere papi e dire delle stupidaggini colossali? Evidentemente, si può. Comunque sia, di Bergoglio si continuerà a parlare a lungo. Intanto, morto un papa se ne deve fare un altro. Cosa si prevede? Cosa ci si può attendere? Francamente, non sappiamo. E pensiamo che nessuno, fuori dalla cerchia cardinalizia, lo sappia. Non che la cosa ci riguardi, ma per il bene della Chiesa e dei suo i fedeli e per la salvezza della tradizione che le ha consentito di vivere e di governare per duemila anni, sarebbe auspicabile che il prossimo conclave chiudesse una fase controversa della storia del pontificato allo stesso modo con cui il Congresso di Vienna, nel 1815, archiviò l’età napoleonica, con le sue poche luci e le sue molte ombre. 


di Cristofaro Sola