I progressisti e la Cina: l’amore tossico

venerdì 18 aprile 2025


Stiamo vivendo tempi difficili. Ma è proprio nelle ore buie che bisogna porsi grandi domande. Siamo ancora l’Occidente? Oppure, ci stiamo disgregando per fare spazio a nuovi soggetti egemonici ai quali delegare il potere di riscrivere i codici della cultura, dei valori, degli interessi che dovranno segnare il nostro futuro prossimo? Un tempo, tali domande sarebbero state giudicate bizzarre. Oggi, alla luce di quanto è accaduto dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, quelle stesse domande assumono una drammatica, palpitante attualità. A dimostrarlo vi è un’immagine plastica che non è stata focalizzata a sufficienza dal dibattito pubblico nel nostro Paese. Non si è fatto che parlare del viaggio di Giorgia Meloni negli Stati Uniti con il carico d’incognite che il suo incontro con Trump reca. Ma non è stato, quello del nostro premier, l’unico viaggio che merita di essere scandagliato in tutti i suoi passaggi.

Un altro leader europeo, qualche giorno fa, si è imbarcato in una missione che risuona da controcanto all’iniziativa della Meloni. Si tratta del primo ministro spagnolo, Pedro Sánchez, che è volato a Pechino per parlare con il padrone assoluto della Cina, Xi Jinping. Una visita ad alto contenuto politico, che non ha riguardato soltanto lo stato dei rapporti bilaterali tra i due Paesi ma, nelle intenzioni di Sánchez condivise dall’interlocutore cinese, ha avuto come obiettivo il rilancio delle relazioni tra l’Unione europea e il gigante asiatico, in chiave prospettica anti-americana. La visione che propone il leader socialista spagnolo, che è la stessa dei progressisti italiani, ha radici profonde. Trae origine dal sogno mai tramontato della sinistra post-lotta di classe di abbracciare un avvenire mitico, di benessere universale e di eguaglianza tra esseri umani indifferenziati, guidata alla meta dal moralismo piccolo borghese innervato dall’ideale del progressismo.

Per questa sinistra, che dopo la caduta del muro di Berlino ha abbandonato le sabbie mobili del socialismo reale, il sole sarebbe comunque sorto a oriente, ma molto oltre la torre Spasskaja, oltre le maestose cupole d’oro del Cremlino. Il sol dell’avvenire si sarebbe levato dalla terra dell’altro comunismo, dai luoghi della lunga marcia di Mao Zedong, il Grande timoniere; dal quel mondo della globalizzazione in cui il Partito comunista cinese scopre i vantaggi e le opportunità che offre il capitalismo. E lo fa proprio, a modo suo. C’è una comune stella polare che guida i dirigenti del “miracolo economico” sinico, nati e intellettualmente nutriti dall’humus della Rivoluzione culturale del decennio 1966-1976, e i progressisti europei, orfani della costruzione ideologica del comunismo utopico, declinato nella versione della Contestazione sessantottina filo-maoista: il mito della modernità fonte inesauribile di rinnovamento, che fa strame dei “quattro vecchi” (vecchie correnti di pensiero, vecchia cultura, vecchie abitudini e vecchie tradizioni).

Per chi non è progressista, la weltanschaung che si cela tra le righe dei ragionamenti fatti da Sánchez in occasione del suo viaggio a Pechino, è da incubo. Voltare le spalle all’America, col pretesto che Donald Trump non sia politically correct, per aprire le porte di casa nostra al dragone cinese, più di quanto irresponsabilmente sia stato fatto negli ultimi venti anni, corrisponde al suicidio di una civiltà. Si è fin troppo facili profeti nel pronosticare che, se due decenni sono bastati a Pechino per invadere i mercati occidentali con le proprie produzioni, saranno sufficienti altri due decenni, ma anche meno, per imporre la propria egemonia culturale-valoriale su un Occidente morente, negatore di sé stesso. A quel punto, il comunismo avrà vinto. E saremo stati noi occidentali, novelli troiani supponenti e superficiali di fronte al coriaceo dispiegamento planetario dei nuovi achei, ad aver spalancato le porte di casa al dragone cinese perché distruggesse ciò che siamo stati e ci rendesse schiavi di un nuovo ordine. Il suo ordine.

La prima vittima sarà quella democrazia liberale che i progressisti denunciano non esserci più negli Stati Uniti per il solo fatto che a raccogliere il consenso del popolo sovrano sia stato un personaggio fuori dagli schemi, non decodificabile secondo gli statuti imposti dalla “Rivoluzione culturale” nella sua variante occidentale. E nessuno, a sinistra, ne piangerà la perdita perché, in luogo di una falla nella logica della conquista egemonica dello Stato e della sottostante società civile, si affermerà il sistema invocato al tempo della Contestazione dal canto dell’aedo più ascoltato dai rivoluzionari figli di papà, Herbert Marcuse: l’élite dei benpensanti che, passata per il tramite dell’opposizione non burocratica alle strutture della società d’impianto liberale-democratico, torna a comandare il mondo, finalmente affrancata da quel fastidioso ingombro che si chiama volontà popolare.

Messa così tutto torna, ogni cosa riacquista senso sotto la nuova luce. Lo sbandieramento in piazza del Manifesto di Ventotene; il viaggio della resa di Sánchez alla Cina, in nome di un’Europa che fatica a capire chi la rappresenti,  a fare da contraltare a quello della Meloni negli States; i progressisti nostrani – da Elly Schlein a Giuseppe Conte, ai corifei della premiata ditta Nicola Fratoianni & Angelo Bonelli – che implorano i vertici europei perché guardino a Est voltando le spalle all’Ovest; l’imperatore del Regno Celeste della Grande Pace, costruito sul sangue e sulla paura dei suoi sudditi, che si concede all’interlocutore europeo con un mefistofelico: “Di fronte all’evoluzione dei cambiamenti globali, solo con la collaborazione tra Paesi possiamo lavorare per la pace e la stabilità”, simile solo nel gesto alla cortesia con la quale il Gran Khan Kubilai, incuriosito, accoglieva Marco Polo alla sua corte.

E mentre le stupide mosche progressiste ronzano allegre come se l’aria fosse tutta loro, il ragno cinese tesse la tela con cui le catturerà e le divorerà. Ciò che sta accadendo lo ha spiegato l’altro ieri su Il Corriere della Sera, Federico Rampini: “L’America e l’intero Occidente si erano illusi di beneficiare di una nuova «divisione internazionale del lavoro» – ai cinesi i mestieri operai, le produzioni di massa a basso costo come il tessile e calzaturiero, le industrie «sporche» come miniere, acciaio, chimica, cantieristica – e a noi le attività a maggior valore aggiunto come i servizi avanzati, il software. Ma già dieci anni fa Xi ci segnalava il suo progetto: rimanere sì la fabbrica del pianeta, e al tempo stesso diventare il laboratorio del pianeta, accerchiandoci dal basso e dall’alto, surclassandoci sia nella competizione sui costi sia nella qualità.

L’America ha capito il guaio in cui si stava cacciando e per questo, prima che fosse troppo tardi, ha scelto Donald Trump per la sua natura di vindice dell’antico ordine dei costruttori di prosperità nella libertà. E l’Europa? Ha capito in quale inferno ci porterebbero i progressisti se li lasciassimo fare con le loro utopie egualitarie e le loro smanie da élite malate di massimalismo sessantottino antidemocratico?


di Cristofaro Sola