In Trump they trust

mercoledì 9 aprile 2025


Gli americani credono a Donald Trump. E noi? Anche. Ma è complicato spiegarlo. Prendiamola alla larga. Quante volte gli appassionati di storia si saranno chiesti come sarebbe stato vivere ai tempi dei grandi personaggi che studiano? E quante volte si saranno domandati se i contemporanei avessero percepito la grandezza dei protagonisti del loro tempo? Impossibile saperlo. Ma a noi oggi è offerta la straordinaria opportunità di conoscerne uno, di vederlo in azione, di avere contezza del suo destino che rimarrà scolpito nei libri di storia. Quel personaggio titanico è Donald Trump. D’accordo, ora la gente è spaventata pensando che il cielo le stia per crollare sulla testa, a causa dell’avventatezza del presidente degli Stati Uniti d’America nello scatenare la guerra (commerciale) al resto del mondo. La paura è tale che si sta sul filo sospeso nel vuoto dell’esistenza quotidiana come d'autunno sugli alberi le foglie, per dirla con le parole del sublime Giuseppe Ungaretti. E che la paura sia contagiosa non è un’opinione ma un dato di realtà.

In special modo in un Paese relativamente piccolo come l’Italia, dove si finisce per conoscersi un po’ tutti. E chi non ha un amico o un parente vinificatore di uve, strozzatore di mozzarelle o spremitore di olive che non sia in fibrillazione da giorni a causa dei dazi imposti dal “baron fou” Donald Trump sui tesori in viaggio per l’America? C’è chi si dispera. Probabilmente sono quei pochi titolari dei 6 trilioni di dollari di ricchezza evaporati in due giorni sulla piazza finanziaria americana. E potranno esserlo i pochi o i tanti investitori che hanno visto andare in fumo i loro investimenti sulle borse europee. Potranno prendersela con il destino cinico e baro che ha messo un pazzo scatenato sulla strada delle loro rendite inviolabili. Ovviamente, trascureranno di ricordare i lunghi anni nei quali hanno fatto affari d’oro con i mercati finanziari e con le borse che andavano su che era una gioia per gli occhi (e per le tasche) osservarne, estasiati, l’effervescenza. Eppure, se avessimo anche solo per qualche istante il coraggio e l’onestà di alzare lo sguardo oltre l’orizzonte ridotto del nostro piccolo hortus conclusus, ci accorgeremmo che siamo stati catapultati, nostro malgrado, in un tempo in cui la storia volta pagina. E la mano che sta tracciando il profilo del mondo che verrà è quella di Donald Trump.

Noi europei facciamo più fatica degli altri a capirlo perché, dopo la fiammata dei totalitarismi dello scorso secolo che recavano la blasfema eresia della creazione dell’uomo nuovo: l’Herrenmensch – il dominatore sulle razze inferiori – ci siamo assuefatti alla rassicurante filosofia gattopardesca per la quale tutta la concitazione della quotidianità deve essere funzionale al raggiungimento dell’unico vero scopo che persegue il potere: la tenuta dello status quo. Lo Zio Sam, gendarme planetario? Giusto così. Gli Stati Uniti, compratori di ultima istanza delle produzioni di tutto il mondo amico? Atto dovuto. Washington che, per tenersi stretti gli alleati, contrae il debito pubblico più grande del mondo? Sono cose che accadono a chi ha un destino segnato di leadership. E nessuno, indaffarato com’è a godersi gli agi della sua lucrata fortuna, si è mai seriamente preoccupato che il paese dei balocchi potesse un giorno crollare? Che lo zio Paperone potesse rischiare la bancarotta? Che l’amico americano, con un debito pubblico monstre accumulato al gennaio 2025 di 36.220.207,00 milioni di Usd, mandasse un preavviso di sfratto agli amici scrocconi con un cubitale “la pacchia è finita, arrangiatevi”?

Ammettiamolo: è stato bello fare i liberal, i progressisti, gli ambientalisti dalla puzza al naso, con il portafoglio degli altri. È stato comodo convincersi che la bilancia commerciale sarebbe stata sempre squilibrata a favore degli europei. Come gli zoticoni yankee avrebbero mai potuto imporre a noi, raffinati gentiluomini e gentildonne del Vecchio continente, di comprare le schifezze che producono dall’altra parte dell’Atlantico? Oggi, per Trump in versione “baron fou” è “game over”, gioco finito. La sua logica è spietatamente lineare: se volete vendere qui da noi, dovete comprare quello che produciamo. Si chiama reciprocità. Non lo fate? Allora pagate dazio. Non ci state e volete fare a braccio di ferro? Ok, si fa a braccio di ferro e vediamo chi casca per primo. Le anime belle del progressismo occidentale si affannano ad annunciare, ad appena poche ore dall’entrata in vigore dei dazi, l’imminente recessione per l’economia statunitense e, a cascata, per il resto del mondo.

Poveracci, ci resteranno davvero male quando pur continuando a urlare a-lupo! a lupo! dovranno constatare che il lupo non compare. Al contrario, succede come per il Vietnam che lo scorso venerdì si è offerto di eliminare le sue tariffe doganali in cambio di un accordo per la radicale riduzione dei dazi ordinati da Trump. I mercati hanno interpretato tale disponibilità come una volontà a negoziare, facendo salire le azioni della Nike, che si rifornisce dal Vietnam. Siamo convinti patrioti, siamo per l’Italia e per gli italiani, ma non siamo miopi e non siamo disonesti. Per quanto Trump possa fare male ai nostri interessi nazionali, coscienza vuole che si racconti la verità. E la verità è che l’inquilino della Casa Bianca non ha torto a voler riportare in pari la bilancia degli scambi commerciali con il resto del mondo. E non ha torto quando avverte che se vogliamo la protezione militare degli Usa dobbiamo pagarne il costo, perché niente può essere più concesso gratuitamente per poi essere caricato in conto al contribuente americano.

Dovremmo andarci a nascondere dalla vergogna noi italiani che, nell’ultimo decennio, abbiamo avuto una sfilza di premier di sinistra che hanno prestato giuramenti impegnandosi in sede Nato ad innalzare al 2 per cento del Pil le spese per il comparto della Difesa, e non l’hanno fatto venendo meno alla parola data. Perché da noi una cosa del genere è normale: promettere e non mantenere. Per massima trasparenza, avrebbero dovuto scriverlo in Costituzione che requisito per diventare presidente del Consiglio dei ministri è di essere un rinomato quaquaraquà. Con un Trump che ha dimostrato di fare ciò che ha promesso agli elettori, era chiaro che la furbizia da vicolo della politica nostrana non avrebbe avuto vita lunga. A Giorgia Meloni e al centrodestra dimostrare all’alleato americano di essere fatti di un’altra pasta.

E poi, che fare? Una volta passata la paura che sta scuotendo i pavidi palazzi della politica e della finanza europee, provare a negoziare un accordo con gli Usa che rimetta il rapporto tra protagonisti della civiltà occidentale sui binari della piena e leale collaborazione nella costruzione del futuro del pianeta. Costerà rinunciare a qualcosa stipulare un nuovo patto con l’altra sponda dell’Atlantico? Certo che sì, perché il tempo dei regali, e degli imbucati alle feste altrui, è finito. Torna la politica del bilateralismo nelle relazioni internazionali e dovremo dire addio alla globalizzazione nei suoi aspetti più significatici? Sì, con immensa gioia. Dovremo darci un taglio con la pantomima, a tratti farsesca a tratti macabra, dell’Unione europea una cosa sola? Sarebbe ora. Dovremmo far da soli come Italia nel trattare con Trump se gli “amici” europei volessero portarci alla guerra con Washington? Non dovremmo sprecare un solo munito del nostro prezioso tempo per stare dietro ai patetici quanto infondati sogni di gloria dei piccoli Napoleone che ancora si vedono in giro per l’Europa.

E le scene da Day after tomorrow trasmesse dalla tivù di orde di americani che, disperati, si abbandonano a gesti di autolesionismo perché, interrotte le catene di approvvigionamento globali, non possono più comprare il nostro parmigiano o bere il prosecco dei colli veneti? Una favoletta per spaventare i bambini la notte di Halloween. Per nostra fortuna la verità è cosa seria. E sta da un’altra parte.


di Cristofaro Sola