Partito democratico: la guerra dentro

mercoledì 19 marzo 2025


Il conflitto russo-ucraino produce non soltanto morti e devastazioni sul campo ma anche danni collaterali, non sempre percepibili a occhio nudo. Tra questi, uno tra i più disperanti (politicamente parlando) è lo scompiglio causato nella fila del Partito democratico dalla decisione della Commissione europea di varare un piano finanziario per il riarmo dei Paesi dell’Unione europea. Lo scorso mercoledì, nella prestigiosa cornice del Parlamento europeo, si è consumato un dramma che ha rari precedenti storici per la sua virulenza. Sulla risoluzione di sostegno al piano presentato da Ursula von der Leyen, la delegazione del Partito democratico si è spaccata in due: in 11 si sono astenuti, seguendo l’indicazione di voto data dal segretario del partito Elly Schlein; in 10 hanno votato a favore. In un mondo che brucia le notizie alla velocità della luce, il fatto non ha avuto il risalto che avrebbe meritato. Il comportamento di una forza politica che si divide su una questione centrale per la vita e il futuro dei popoli europei non può essere derubricato a normale dialettica di partito. D’accordo che la disciplina di partito sia roba d’altri tempi, archeologia della politica, ma a tutto c’è un limite.

Il voto di Strasburgo è la prova scientifica di un sospetto che coltiviamo dal momento stesso nel quale il Partito democratico è nato. Esso, quale soggetto unitario rappresentativo di un’area culturale e valoriale omogenea, non esiste. Il progressismo, di cui dovrebbe essere alfiere nella vita della nazione, è presente nel suo codice identitario nelle svariate declinazioni che nel tempo sono state prodotte dalle sue molte anime ideologiche. C’è un progressismo oltranzista sui temi dei diritti civili e ambientali che è agli antipodi del riformismo gradualista di cui sono eredi i più fedeli epigoni delle famiglie politiche del comunismo e del popolarismo cattolico. C’è una mentalità borghese pseudorivoluzionaria, tributaria dell’infantilismo politico del Sessantotto, che fa a cazzotti con gli stilemi del binomio teoria-prassi appresi alla scuola dei partiti operaisti della sinistra novecentesca e della Democrazia cristiana. C’è una generazione di “wokisti”, pronti a scardinare le fondamenta della storia millenaria del Vecchio continente in nome e per conto di un non meglio precisato revisionismo storico a sfondo penitenziale.

E c’è una frontiera di “resistenti” di sinistra e da sinistra alla guerra senza quartiere dichiarata dai “modernizzatoripacifisti contro i totem e i simboli della tradizione occidentale. Il tutto a dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, l’esistenza non di un progressismo unico nella sua proiezione assiale dell’insieme omogeneo e coeso di una parte significativa dell’opinione pubblica italiana, ma di una striatura pulviscolare di interpretazioni del progressismo che sta occupando il vuoto politico e culturale lasciato dal tramonto definitivo delle ideologie socialiste e comuniste. Reso il contesto, è interessante indagare – con la medesima curiosità scientifica dell’entomologo – chi, tra i due gruppi in aperta contesa, rappresenti la parte maggioritaria del popolo della sinistra. Non è voyeurismo giornalistico, ma occorre capire verso quale visione di società intenda orientarsi il principale partito della sinistra: quello di Elly Schlein o quello di Pina Picierno? Ci rendiamo conto che, messa così, sembrerebbe una barzelletta.

Sebbene non è che si parli dello scontro tra Lev Trockij e Iosif Stalin in seno al Politburo dell’Unione sovietica del 1926, è purtuttavia un dato di realtà che le due signore rappresentino un pezzo della nostra società, con il quale – piaccia o no – dobbiamo fare i conti. L’elezione, il 12 marzo 2023, di Elly Schlein a segretaria nazionale del partito non fornisce la risposta esaustiva alla domanda su chi incarni il sentire della maggioranza del popolo del Pd. Il cervellotico meccanismo con cui il Partito democratico sceglie la sua leadership ha determinato il prodursi di un’aberrazione assoluta: la base del partito ha votato per un candidato (Stefano Bonaccini) ma l’esito del voto interno è stato ribaltato dall’elettorato esterno dei cosiddetti gazebo, dove una massa indistinta di votanti non necessariamente iscritti al Pd ha dato la vittoria all’outsider Elly Schlein. Il fatto politico di rilievo, che ha indotto opinionisti e commentatori politici ad affermare che il partito fosse saldamente nelle mani di Elly, è stato il passaggio elettorale delle Europee. Con giudizio frettoloso, si è ritenuto che il successo riportato alle Europee del 2024 (24,09 per cento), in netta risalita rispetto al tonfo segnato alle politiche del 2022 (Uninominale Camera dei Deputati: 19,04 per cento) fosse da ascrivere per intero alla novità Schlein.

Analisi totalmente fallace, che ha trovato un’inappellabile smentita in ciò che è accaduto la scorsa settimana con il voto all’Europarlamento. La verità è che le Europee non furono vinte dalla lungimirante politica della segretaria ma dallo scatto d’orgoglio di quel substrato calcificato di notabili locali che, con le loro prassi di gestione della cosa pubblica ai limiti del clientelismo, ha tenuto vivo il consenso al Pd, indipendentemente dalla circostanza – irrilevante ai fini della scelta elettorale – che la sua testa pensante fosse stata incollata al corpaccione della struttura partitica con una chirurgia creativa degna del dottor Frankenstein. È sufficiente scorrere la lista dei 10 europarlamentari che hanno disobbedito alla loro leader per comprendere la fondatezza della nostra osservazione. I “disobbedienti” sono Stefano Bonaccini, Antonio Decaro, Giorgio Gori, Elisabetta Gualmini, Giuseppe Lupo, Pierfrancesco Maran, Alessandra Moretti, Irene Tinagli, Pina Picierno e Raffaele Topo.

La maggiorparte di essi è espressione dei territori in cui il Pd conserva un fortissimo radicamento, a prescindere da chi guidi il partito a livello centrale. Costoro provengono dalle roccaforti del voto emiliano-romagnolo, pugliese, campano, lombardo, siciliano. Essi hanno un retroterra culturale e politico che li ha portati in passato a militare nel Pds-Ds o nella Margherita. Al contrario degli 11 che hanno seguito Elly Schlein, che sono in maggioranza intellettuali non organici al partito – nell’accezione concettuale che Antonio Gramsci attribuiva a tale categoria di sostenitori delle istanze del comunismo – provenienti dalla società civile ed espressioni “mediatiche” di movimenti d’opinione che non hanno addentellati con la macchina organizzativa del consenso elettorale. Parliamo di Alessandro Zan, esponente del mondo Lgbtq+, dei giornalisti di tendenza Sandro Ruotolo e Lucia Annunziata, di Marco Tarquini, pupillo degli ambienti vescovili italiani, dell’ambientalista Annalisa Corrado, di Cecilia Strada con un passato in “Emergency”, creatura del pacifismo e dell’associazionismo umanitario fondata da suo padre, Gino, e da sua madre, Teresa Sarti, l’eternamente giovane Brando Benifei, espressione ligure della Giovanile del Pd.

Gli unici della pattuglia ad avere un minimo di dimestichezza con la macchina organizzativa da partito di massa sono Nicola Zingaretti, Matteo Ricci e Dario Nardella. Lungo la linea di faglia delle differenti posture che i due sottogruppi di europarlamentari hanno assunto nell’interpretare il loro ruolo all’interno delle istituzioni europee – e dell’eurogruppo parlamentare dei Socialisti e Democratici (S&D) – corre la diversità ideologica, al limite della compatibilità, che li separa. Ora, accertato che la frattura c’è, non è possibile stabilire al momento quanto essa sia sanabile. Vi è invece la concreta possibilità, in un non lontano futuro e certamente prima della scadenza naturale della legislatura nazionale corrente nel 2027, che il processo mitotico in atto sottotraccia all’interno del mondo Pd si evolva in un fenomeno di citodieresi in forza del quale due organismi derivati dalla stessa cellula si separino per dare vita a forme cellulari autonome in grado di fondersi con altri organismi presenti nell’habitat progressista. In soldoni, la scissione del Pd potrebbe dare vita a due aree distinte a sinistra: una, radicale-massimalista con i qualunquisti di Giuseppe Conte e con i socialisti-ambientalisti di Alleanza Verdi Sinistra di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli; l’altra, moderata-riformista, con le monadi centriste di Carlo Calenda, di Matteo Renzi, dell’astro calante sindaco di Milano Beppe Sala, e dei “liberal fricchettoni” di +Europa.

In teoria, una dinamica virtuosa di scissioni e riaggregazioni a sinistra potrebbe risultare salutare, ai fini della chiarezza del quadro politico. Ma, a legge elettorale vigente, vi è comunque la necessità di formare coalizioni allo scopo di battere l’avversario. E per farlo è d’obbligo annacquare le differenze. Allora saremmo capo a dodici a discutere fino allo sfinimento di quanto sia bella e impossibile la sinistra che non è d’accordo su niente se non sullo stare insieme per scalare il potere. Quindi, l’aspirazione egemonica prima – e a dispetto – della linearità e della credibilità dell’offerta programmatica. Che non è il migliore dei mondi possibili in cui stare, anche per noi che non siamo di quel campo lì, ma che vorremmo misurarci con avversari che abbiano le idee chiare su chi siano e su cosa vogliano realizzare, una volta al governo della Nazione, per il bene dei cittadini. Mission: impossible.


di Cristofaro Sola