martedì 18 marzo 2025
Salvatore Satta, insigne giurista e finissimo scrittore – si pensi a Il giorno del giudizio – diversi anni fa, annotava che “dove comincia il formalismo, finisce il diritto”. Voleva significare che pur rimanendo il diritto un involucro formale adatto a rivestire la realtà (il convenuto, l’attore, l’erede, eccetera.) così permettendo la comunicazione universale del senso giuridico, la forma non deve mai divenire autoreferenziale, non deve mai cioè significare soltanto se stessa, dimenticando la vita degli esseri umani. Benché fatta propria dai più illustri giuristi del secolo scorso – Giuseppe Capograssi, Francesco Carnelutti, Piero Calamandrei – questa lezione è rimasta tuttavia inascoltata e gli esiti nefandi sono sotto gli occhi di tutti: massime della Corte di Cassazione elegantissime, ma dove, passando da un rimando normativo all’altro come in un gioco di specchi, ci si chiede dove mai sia finita l’esistenza umana che ha dato origine a quel determinato problema. Sentenze che partono dai codici, invece che dal fatto della vita, tornando ai codici come nulla fosse, del tutto indifferenti alle esigenze reali delle persone coinvolte; decisioni che, rinnegando l’appellativo che le designa, decidono di non decidere, guardandosi bene dallo “sporcarsi le mani” con l’entrare nel merito della controversia, ripartendo le ragioni dai torti.
A quest’ultima corposa categoria appartiene la recentissima sentenza con cui le sezioni unite della Cassazione hanno rigettato il ricorso presentato da Cuno Tarfusser – già sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Milano – con il quale si chiedeva di annullare la censura che gli era stata irrogata dal Csm. Breve riepilogo della vicenda. Tarfusser, non convinto delle prove a sostegno della condanna all’ergastolo di Olindo Romano e Rosa Bazzi per la “strage di Erba”, confeziona un’istanza di revisione e, dopo aver atteso invano per oltre una settimana di conferire con il capo del proprio ufficio, Francesca Nanni, impegnata altrove, la deposita presso la cancelleria della propria Procura. Quando la dottoressa Nanni rileva che tale istanza era già stata confezionata prima di aver ottenuto il proprio benestare – secondo un protocollo interno dell’ufficio – denuncia Tarfusser al Csm, quale responsabile di un illecito disciplinare. Il Csm lo sanziona con la censura e Tarfusser ricorre in Cassazione.
Ebbene, oggi la Cassazione a sezioni unite ci dice che siccome Tarfusser, mesi fa è andato in pensione per limiti di età, il semplice suo interesse di carattere morale alla decisione del ricorso non lo legittima alla prosecuzione della procedura e di conseguenza rigetta il ricorso perché “cessata la materia del contendere”. Mi limito a due osservazioni. La prima: quale sarebbe la “materia del contendere” che sarebbe svanita come neve al sole? Cosa chiedeva davvero Tarfusser? Ci vuol poco a capire che chiedeva che la sua splendida e prestigiosa carriera di magistrato – per oltre un decennio presso la Corte internazionale dell’Aja – non venisse alla fine macchiata da una “censura” tanto moralmente immeritata quanto giuridicamente infondata. La seconda: è proprio questo interesse morale che la Cassazione non ha voluto riconoscere, limitandosi ad affermare che siccome la censura, impugnata in Cassazione, non era divenuta giuridicamente definitiva e il pensionamento aveva interrotto il rapporto di servizio mentre pendeva il ricorso, dal punto di vista formale la censura sarebbe rimasta per sempre inoperante, come non ci fosse mai stata.
Perfetto ragionare. Ma dal punto di vista morale? Dal punto di vista morale, la Cassazione dice che non le importa nulla, come affermano altre sentenze emesse in precedenza. Qui davvero si coglie con chiarezza il vizio formalistico di fondo che inficia una tale conclusione. Infatti, per la Cassazione, una volta risolta la questione giuridico-formale, attraverso una sottile forma di ipocrisia sociale secondo cui la censura sarebbe svanita nel nulla, il problema è risolto. Così invece non è, come tutti possono capire usando il semplice buon senso. Infatti, la ferita morale da cui occorreva tener indenne Tarfusser, sta nel semplice fatto che per il vicino di casa, per il barbiere o per il negoziante all’angolo di casa, digiuni dei formalismi giuridici, quella censura esisterà sempre come una indelebile macchia: e il diritto non può far finta di nulla.
Ecco ben visibile il pericoloso scollamento fra il diritto e la realtà umana che la Cassazione consacra per l’ennesima volta. Decidendo di non decidere, la Cassazione ha dimenticato la vita.
di Vincenzo Vitale