All’armi siam italiani!

venerdì 14 marzo 2025


La pacchia è finita. È stato bello per settant’anni non doverci preoccupare della nostra sicurezza perché c’era lo Zio Sam a farlo. È stato conveniente non dover sborsare denari per assicurarci una difesa nazionale adeguata alle minacce esterne, ma limitarci a spendere il minimo sindacale. È stato di grande conforto pensare che il bilancio pubblico dovesse riguardare quasi esclusivamente la scuola, la sanità, le pensioni e i trasporti e che la spesa per la Difesa fosse superata. In fondo, è stato comodo fare i pacifisti con il portafoglio degli altri. Ma, come sempre nella vita, le cose non durano in eterno, soprattutto quelle che si è convinti debbano durare per sempre. Come l’ombrello americano sulla sicurezza del Vecchio continente. Donald Trump sta ribadendo in malo modo ai partner europei ciò che i suoi predecessori hanno detto, con toni più soft, in passato. E cioè che il bilancio Usa non ce la fa più a sostenere il costo della protezione degli alleati europei. È da giudicare per questo un “fetentone”? Se la pensassimo alla maniera dei ragazzini dell’oratorio a cui il parroco ha portato via il pallone interrompendo la ricreazione, dovremmo rispondere di : è lui il cattivo che ci costringe a tornare ai nostri doveri e ci nega il tempo della beata spensieratezza. Il guaio è che non siamo fanciulli irresponsabili, ma uomini e donne di comunità nazionali che devono badare da sé stessi ai propri bisogni.

E, tra questi, al primo posto c’è la capacità di difendersi dalle minacce esterne che non mancano in un mondo fatto di nazioni e di gruppi umani in lotta. Ora che sappiamo la verità, cioè che Zio Sam stringe i cordoni della borsa, che si fa? Al momento, soltanto una gran baraonda. Tanti leader europei minuscoli che si affannano a portare acqua al mulino domestico, mostrando un’ossessiva attenzione per il pelo e nessuna per la trave che sovrasta pericolosamente le loro fragili teste. Una presidente della Commissione europea che lavora a un’ipotesi di riarmo comunitario senza che vi sia uno straccio di strategia politica di lungo respiro a sostenerlo, ma solo il malvezzo mercantilista di elargire un po’ di soldi (a credito) ai singoli Stati questuanti perché rimettano in piedi i loro apparati di difesa. E, in risposta alle fughe in avanti di Ursula von der Leyen, ci sono i partiti politici – di sinistra e di destra – che, in ogni singolo Paese, si azzuffano sul nulla. Come in Italia, anche altrove, maggioranza governativa spaccata sul riarmo, opposizioni spaccate. Se fossimo nei panni dei nemici dell’Unione europea, ce la rideremmo di gusto nell’assistere a questo esilarante teatrino. Dietro roboanti proclami, c’è il resto di niente. Ora, fatta la tara alla vacua retorica su un’Europa che deve darsi una difesa comune che non esiste, e non esisterà per molti anni a venire, al netto resta da scandagliare la cruda realtà della nostra condizione, non di europei uniti – che è una leggenda metropolitana – ma di italiani alle prese con i rischi per la sicurezza nazionale, provenienti da ipotetiche minacce esterne. L’unica possibilità concreta di fare qualcosa insieme ad altre nazioni nostre pari, al di fuori dell’ambito strategico della Nato, è una cooperazione militare rafforzata. Gli Stati interessati potrebbero essere quelli i cui ministri della Difesa si sono incontrati ieri l’altro a Parigi. Parliamo di Francia, Regno Unito, Germania, Polonia e Italia.

Si tratta di Paesi che per demografia, storia, armamenti, Pil e posizione geopolitica potrebbero costituire il nucleo di massa critica di un potenziale più ampio fronte di difesa europeo. Tuttavia, perché il piano di coordinamento possa vedere la luce è necessaria una precondizione: l’omogeneità del potenziale offensivo dei cooperanti, onde evitare che qualcuno prenda il sopravvento sugli altri. Abbiamo alle spalle una millenaria storia di irriducibile inimicizia marchiata col ferro e col fuoco sui campi di battaglia di tutta Europa, per immaginare, ad esempio, che un francese possa comandare una truppa di tedeschi, di inglesi, o di italiani. E un tedesco che dà ordini a un polacco? Neanche per tutto l’oro del mondo. In questo spicchio di mondo, costruito sul sangue e sul suolo – Blut und Boden – se si vuole fare qualcosa insieme, si deve partire tutti dallo stesso piano. Ma qui le cose si complicano. Il primo scoglio è la questione dell’arma nucleare. I francesi la hanno; i britannici anche. Per quanto possa sembrare inverosimile, è giunto il momento per italiani e tedeschi di infrangere un tabù lungo ottanta anni e affrontare lo spinosissimo nodo della dotazione di un arsenale nucleare proprio. Su come procurarselo abbiamo idee precise, che in seguito riproporremo. C’è poi un problema di risorse umane per adeguare gli apparati di difesa agli standard raggiunti da Francia e Gran Bretagna. Come ha spiegato il generale Carmine Masiello, capo di Stato maggiore dell’Esercito, in audizione alla Commissione Difesa della Camera dei deputati, con la normativa approvata nel 2023 i volumi complessivi dell’esercito sono stati fissati a 93.100 unità, obiettivo da conseguire entro il 2033. Non bastano.

Per assicurare efficienza al piano di difesa nazionale, lo stato maggiore dell’esercito ha stimato che occorrerebbe “un incremento delle dotazioni organiche fra le 40, 45mila unità rispetto alle previsioni normative vigenti definendo un modello in chiave Nato oscillante fra le 133mila,138mila unità”. Servono più uomini – e più mezzi – per stare al passo con le sfide e le minacce del presente. Ma ancor più occorre che si compia una vera e propria rivoluzione culturale nell’approccio all’idea stessa di forza armata. Negli anni passati, funestati dalla presenza al potere della sinistra con il suo portato di cultura pacifista, fatta eccezione per un ristretto numero di operatori nel settore ad alto impatto delle forze speciali, il grosso della componente terrestre è stato indirizzato verso compiti di protezione civile. Sarà pure nobile ma non è ciò che iscritto nel Dna di una forza armata, il cui mestiere è quello delle armi. Come spiega il generale Masiello: “L’esercito deve essere proattivo adeguandosi alle minacce attuali mentre si trasforma per quelle che verranno, in quanto le sfide si affrontano e si vincono con un’evoluzione continua”. Lo scoppio della guerra russo-ucraina ha reso manifesta la metamorfosi nella concezione della guerra del futuro, la quale non sarà più solo tradizionale con carri armati, artiglieria e trincee, ma sarà sempre più tecnologica con i droni, i missili ipersonici e gli attacchi cibernetici e sarà guerra ibrida e di disinformazione “orientata a indebolire le opinioni pubbliche e il morale dei combattenti”. Un nuovo paradigma nell’arte della guerra al quale il nostro esercito, a vocazione “peacekeeping”, non è stato preparato. L’integrazione della forza armata italiana nel quadro di una cooperazione europea rafforzata passa per la riconfigurazione del nostro modello di difesa da adeguare ai nuovi scenari geostrategici. Stesso dicasi per la Marina militare.

Come ha dichiarato l’ammiraglio Enrico Credendino, capo di Stato maggiore della Marina militare, in un’intervista concessa lo scorso 6 marzo a Gianluca Di Feo di Repubblica: “Le marine francesi e britannica, simili a noi come numero di navi, hanno 10mila persone in più. Noi siamo fermi a 30mila e questo ha un impatto sulla resilienza degli equipaggi che restano in mare per mesi e sulla vita delle loro famiglie, anche se tutti tornano entusiasti dalle missioni. Credo che sarebbe opportuno aumentare l’organico a 39mila e so che il ministro Guido Crosetto ci sta lavorando perché è molto sensibile alle esigenze del personale”. In complessivo, la dotazione organica delle nostre forze armate (compresa l’unità combattente dell’Arma dei Carabinieri), per essere in linea con le capacità di proiezione offensiva dei britannici e dei francesi dovrebbe nel breve termine superare la soglia delle 200mila unità militari. Ma c’è un problema. La dotazione finanziaria per il comparto Difesa, messa a bilancio per il 2025, è di 31.298.400.926.

Non basta per fare ciò che chiedono i comandi militari, che sono gli unici a sapere di cosa parlano quando in gioco c’è la difesa della nazione. I denari che l’Ue promette di erogare sono destinati agli investimenti, non certo alla spesa corrente. Delle due, l’una: o ci accodiamo, in un ruolo ancillare, alla Francia e alla Gran Bretagna oppure tiriamo la cinghia e proviamo a cavare i denari che servono dalle pieghe del nostro non magro bilancio pubblico. Alla fine della fiera è l’eterno, disperante, dilemma antropologico che si ripropone: noi italiani, siamo più Arlecchino, astuto servitore di due padroni, o più Ettore Fieramosca, nobile e coraggioso uomo d’arme, che nel 1503 da italiano sfidò, sconfiggendoli, i francesi a Barletta?


di Cristofaro Sola