mercoledì 12 marzo 2025
È Riyad – non Londra, Parigi o Bruxelles – il fulcro intorno al quale ruota la speranza di pace nel Vecchio continente. Le delegazioni di Stati Uniti e Ucraina tornano a incontrarsi, nella capitale del regno saudita, dopo lo scontro trasmesso in diretta mondiale dalla stanza ovale della Casa Bianca tra Volodymyr Zelens’kyj, Donald Trump e J.D. Vance. Non è che si potesse fare diversamente. Le sorti dell’Ucraina sono nelle mani di Washington. È bastato un temporaneo stop alle forniture di armi statunitensi a Kiev, deciso da Trump, per mandarne in tilt il sistema di difesa e per costringere Zelens’kyj a dichiararsi pronto ad assecondare qualsiasi richiesta il potente alleato gli presenti pur di non dover subire un’umiliante sconfitta sul campo di battaglia per mano dei russi. Questa è la realtà. Tutto il resto, in special modo ciò che si sta combinando in queste ore nelle principali capitali europee, è retorica politicista priva di costrutto. Sarebbe piaciuto a molti, soprattutto dalle parti dell’Occidente europeo, di assistere alla capitolazione di Vladimir Putin; di vedere la Russia finire in pezzi, strangolata dalla fame e dal disordine sociale. Ma così non è stato e, quindi, bisogna sbrigarsi a trovare un accomodamento con il nemico prima che sia troppo tardi. Non si tratta di fare regali a chi non li merita. Si tratta di prendere atto dello stato effettivo delle cose e trarne le debite conclusioni.
Si avrà una pace giusta? Di certo, se pace vi sarà, sarà giusta per il vincitore, non per lo sconfitto. Rebus sic stantibus, quale convenienza avrebbe il Governo di Kiev a trattare con Mosca? Nessuna, se non quella di far cessare il martirio – ormai inutile – del suo popolo. Donald Trump sta cercando, con le buone e con le cattive, di farlo capire a Zelens’kyj, mentre i leader europei sono così fuori giri che non è chiaro se siano o no consapevoli di ciò che sta accedendo sul fronte russo-ucraino. Nelle condizioni date, il male minore per Kiev è di accettare un cessate il fuoco che congeli le posizioni occupate sul campo dai rispettivi attori. Per dirla brutalmente: Kiev deve farsi una ragione del fatto che una parte del suo territorio sia passato in mano ai russi e che questi non lo molleranno più. Si obietterà: ma che pace è se uno dei contendenti è costretto ad accettare una sconfitta che comporti l’amputazione di una parte del suo territorio. Infatti, non lo è. E noi italiani ne sappiamo qualcosa: Istria, Fiume e Dalmazia docent.
Riguardo all’Ucraina, ciò che realisticamente si può conseguire è un congelamento definitivo dello stato di belligeranza. Perciò, una soluzione alla “coreana”. L’Ucraina divisa in due, con una linea di demarcazione che plasticamente separi i due mondi: un pezzo che si accasa in Occidente sebbene a determinate condizioni di neutralità imposte da Mosca, un altro che viene stabilmente incorporato nella Federazione russa. Anche in Europa avremo un “38esimo parallelo” come in Corea, cioè una striscia di terra-di-nessuno della larghezza di alcune centinaia di metri, che costituirà la linea di demarcazione demilitarizzata tra l’Ucraina occidentale e l’Ucraina russa. Dall’una e dall’altra parte della nuova frontiera, i nemici continueranno a tenersi d’occhio con i fucili puntati e pronti a sparare. E così sarà, per gli anni e per i decenni a venire. Ci interrogheremmo a lungo su cosa di diverso si sarebbe potuto fare per evitare un tale drammatico epilogo per il popolo ucraino. Possiamo girarci intorno quanto vogliamo, ma non eluderemo la verità: l’unico modo per non perdere sarebbe stato di non farla cominciare la guerra. Al diavolo l’insopportabile ipocrisia di chi ripete come un disco rotto il medesimo, stonato ritornello: è la Russia di Putin l’aggressore.
Se, alle prime avvisaglie d’irrequietezza russa – avvertite dai servizi segreti occidentali già dall’estate del 2021 – l’Occidente, invece di premere l’acceleratore sulla sfida muscolare, avesse imposto a Putin un serio negoziato diplomatico per appianare il contenzioso con l’Ucraina sul trattamento riservato alle popolazioni russofone ( e russofile) del Donbas e, nel contempo, avesse offerto le garanzie di sicurezza che il Cremlino chiedeva a fronte di un’espansione abnorme della sfera d’influenza strategica della Nato, il mattatoio di questi tre ultimi anni si sarebbe evitato e l’Europa sarebbe stato un luogo sicuro in cui vivere, più di quanto lo sia oggi. Ma tant’è: la storia non si fa con i se. Epperò, si è fuori di testa se si pensa che il problema sia adesso ciò che è più desiderabile per gli ucraini. Per come si sono messe le cose sul campo di battaglia – a prescindere dalla decisione di Trump della scorsa settimana di sospendere gli aiuti militari a Kiev, che può aver inciso nel deterioramento della forza di resistenza ucraina, ma non esserne la principale causa – l’obiettivo del cessate il fuoco serve a evitare il peggio agli sconfitti. L’unico che sembra averlo capito è il presidente Usa ed è per questo che vuole fare in fretta a chiudere un accordo con Mosca. Come dargli torto?
C’è tuttavia una sola condizione che deve essere soddisfatta perché si arrivi all’agognato cessate il fuoco: l’impegno diretto degli Stati Uniti a garantire militarmente sul territorio ucraino il rispetto degli accordi sottoscritti. Se è il modello “coreano” quello a cui si farà riferimento nei negoziati russo-ucraini, è bene che quel modello venga adottato in ogni suo aspetto. Insieme all’Armistizio del luglio del 1953 – firmato a Panmunjom dalle Nazioni unite, dalla Cina e dalla Corea del Nord, con l’assenza della Corea del Sud – venne sottoscritto da Washington e Seul un trattato di mutua difesa, in forza del quale ancora oggi sul territorio sudcoreano sono presenti circa 28.500 militari statunitensi (per numero, il terzo contingente Usa attivo fuori dei confini nazionali dopo Germania e Giappone). Donald Trump, nel suo eccesso di furore antieuropeo, vorrebbe scaricare la patata bollente delle garanzie di sicurezza da fornire a Kiev sugli alleati transatlantici della Nato. Ma neppure a lui – che tanto può – è consentito di svignarsela con facilità.
Gli piaccia o no, gli americani boots on the ground sono necessari. In primo luogo, perché Mosca non accetterebbe una presenza europea in armi alle sue porte. In secondo luogo, perché i Paesi europei non hanno sufficienti risorse economiche e umane, tecnologie e sistemi d’arma per garantire la sicurezza ucraina lungo una linea di demarcazione che si estenderà per migliaia di chilometri. Probabilmente, una soluzione di compromesso in tal senso potrebbe essere la decisione di Trump di inviare maestranze Usa a estrarre le preziose terre rare dal sottosuolo ucraino. Basterebbe già la sola presenza in loco di civili americani per scoraggiare la controparte russa a tentare improvvide provocazioni sulla linea di confine. Dunque, per il raggiungimento del cessate il fuoco non è più questione del “se” ma del quando. Trump non vuole perdere tempo, ma dovrà ugualmente attendere che Mosca completi l’opera prima di sedere al tavolo della trattativa. E, al momento, completare l’opera vuol dire ricacciare indietro oltre il confine russo il contingente ucraino che negli scorsi mesi ha invaso l’oblast di Kursk.
Secondo l’informazione aggiornata, fornita dal sito on-line Analisi Difesa, “la morsa russa si sta stringendo intorno a Sudzha, principale centro urbano in mano agli ucraini, le stesse fonti russe riprese dall’Institute for the study of the war, hanno reso nota la caduta anche dei villaggi di Pravda, Kubratkin e Ivashkovshyi, a nord di Sudzha dove sono in azione gli Spetsnaz ceceni della Forza Akhmat e truppe del 30° reggimento fucilieri motorizzati (72a divisione fucilieri motorizzati)”. Mancherebbe davvero poco all’annientamento della forza d’invasione ucraina. Visto che si parla di vite umane perdute e di civili innocenti che rischiano di perderla nelle prossime ore, ci sovviene un potente titolo di giornale con cui si chiedeva aiuto all’Italia per le conseguenze catastrofiche del terremoto dell’Irpinia nel novembre 1980. Fu il quotidiano Il Mattino, allora diretto da Roberto Ciuni, ad aprire a tutta pagina con un eloquentissimo Fate presto!. Un grido potente e muto, come l’urlo di Edvard Munch.
Una domanda onesta d’aiuto a rendere testimonianza di un dolore immenso, incolmabile e, insieme, di un fremito di speranza, mai tramontato o sopito negli affollati recessi delle ore più buie. Funzionò per gli irpini, perché non dovrebbe per gli ucraini?
di Cristofaro Sola