La tragedia del comunismo

martedì 25 febbraio 2025


Nel primo anniversario della drammatica e oscura morte di Aleksej Naval’nyj nel carcere di massima sicurezza di Charp.

La storia europea è punteggiata, addirittura intrisa di feroci guerre, di sanguinosi conflitti, di immani tragedie. Guerra significa morti. Molte guerre, molti morti; e i caduti nel corso di tutte queste guerre sono probabilmente incalcolabili. Limitandoci alle due guerre mondiali, che hanno avuto l’Europa come epicentro e come principale teatro, arriviamo a circa 100 milioni di morti.

Ebbene, 100 milioni di morti sono stati causati anche da un’altra grande tragedia, che non viene rubricata come guerra ma che ha devastato, in misura maggiore o minore a seconda delle aree, l’intero mondo, sotto la forma di regimi dittatoriali accomunati da un denominatore chiamato ideologia comunista. Il disastro causato da questa ideologia non è stato dunque esclusivamente europeo, ma certamente in Europa, a prescindere dal numero effettivo di vittime sul suo suolo, il comunismo ha prodotto una tragedia particolarmente eclatante.

Di esso, come regime e come ideologia, è noto ormai pressoché tutto, dal punto di vista storiografico e da quello politico. La bibliografia è vastissima. Cito un testo per tutti: il Libro nero del comunismo, curato nel 1997 da Stéphane Courtois e che, detto per inciso, è stato tradotto in italiano grazie alla sensibilità politica di Silvio Berlusconi. Ciò nonostante, ci sono ancora drammatiche lacune da colmare, misfatti ancora occultati o misconosciuti, episodi oscuri e verità ancora da ripristinare.

Sono trascorsi poco più di cent’anni dalla rivoluzione bolscevica, eppure le sciagure, le tragedie, i massacri causati da quella origine sono stati (e ancora sono) di tale portata che, secondo il metro e il senso dello sviluppo storico, sembra che siano trascorsi svariati secoli. E al tempo stesso sembra ieri, quando ha iniziato a manifestarsi a livello statale quel virus germinato fin dalla metà del XIX secolo a partire dalle teorie di Marx e dai movimenti rivoluzionari ad esse ispirati.

In quanto regime totalitario, il comunismo va associato, pur nelle differenze, al nazionalsocialismo. Entrambi hanno prodotto devastazioni indicibili e massacri immani. Quando si parla di tragedia europea, il primo pensiero va, giustamente, alla Shoah, allo sterminio della popolazione ebraica, al genocidio perpetrato dalla follia nazista; ma tragedia europea è stato anche il gigantesco crimine collettivo commesso dal comunismo. Stabilita e affermata l’unicità della Shoah, comunismo e nazismo sono entrambi infernali macchine di morte, di eliminazione fisica e di annullamento psichico degli individui, e rappresentano i due volti del totalitarismo novecentesco.

Fra parentesi: c’è anche un terzo totalitarismo, l’islam radicale, che è vivo e minaccioso, e che conta su un bacino di affiliati più vasto e, in quanto fondato su una religione, ancor più fidelizzato di quello già ampio del comunismo.

Come scrisse Courtois, «il comunismo è stato il fenomeno fondamentale del Novecento, perché si trova proprio al centro dello scenario storico. Preesisteva al fascismo e al nazismo ed è sopravvissuto a essi, colpendo i quattro grandi continenti». Dilagando, e trascinando con sé, nel disastro, interi popoli.

Il comunismo però non è sepolto sotto alle macerie del Muro di Berlino, ma continua ad agitarsi in ogni direzione. Non è morto, né come ideologia né come forma di Stato, sia pure diversa rispetto al passato (come si vede oggi in Cina, Cuba, Venezuela, come pure in Russia, che è un regime sostanzialmente neo-sovietico), ma la propaganda della sinistra occidentale vorrebbe indurci a credere che invece sia davvero finito. Vivo e morto al tempo stesso? Questo equivoco è prodotto e viene alimentato dai centri operativi di quella stessa ideologia, attivando un doppio movimento, quasi dialettico, con il quale stringere come in un cappio la coscienza politica, soprattutto quella del mondo occidentale: morto sarebbe il sistema sovietico (il socialismo reale), viva invece sarebbe l’idea, che prima o poi dovrebbe trovare una realizzazione adeguata corrispondente alla bontà, si fa per dire, dei suoi obiettivi.

Così, pur sconfitto dall’Occidente liberaldemocratico, il comunismo resta un nemico attivo da affrontare con determinazione. In tal senso, si osservano alcuni segni di un orientamento, sia pure ancora flebile, di condanna. L’Unione Europea – al netto di tutte le sue malefatte legislative, di tutte le sue sciagurate iniziative di integrazione forzata dei popoli e di tutte le critiche che giustamente vanno indirizzate alla sua struttura burocratica che come un buco nero di antimateria disintegra le energie vitali dei popoli europei (con sguardo esperto e penetrante, Vladimir Bukovskij colse inquietanti ed effettive analogie fra la burocrazia di Bruxelles e quella del Cremlino) –, nonostante tutto ciò, l’Unione Europea ha il merito – parziale e ancora insufficiente, ma incamminato sulla buona strada – di aver quanto meno denunciato l’essenza criminale del comunismo.

Dopo tanto tempo e tanti sforzi, nel 2019 il Parlamento Europeo ha infatti votato una risoluzione di condanna dei regimi totalitari con la quale nazismo e comunismo vengono equiparati in quanto regimi totalitari. Oggi, la risoluzione del Parlamento europeo del 22 gennaio di quest’anno sulla «disinformazione e falsificazione della storia da parte della Russia per giustificare la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina» fa un passo avanti rispetto alla risoluzione del 2019, perché fornisce anche un supporto normativo operativo: il divieto di esporre i simboli dei due totalitarismi, cioè svastica e falce e martello.

Sembra poca cosa, ma in realtà è un significativo risultato culturale e politico, perché questo divieto, che per altro è già in vigore negli Stati Baltici, può costituire la base per far emergere il senso distopico del comunismo e contrastarne le insorgenze nella società, fino a farne risaltare il profilo che si nasconde anche fra i torbidi gestori della burocrazia di Bruxelles.

C’è sempre bisogno infatti di un lavoro educativo a largo raggio, perché – nonostante i massacri, i genocidi compiuti sotto le insegne della falce e martello – gran parte della sinistra europea continua a derubricare tutto ciò come effetti collaterali del tentativo di instaurare una società egualitaria, e continua a praticare il medesimo inganno ideologico adattandolo a una realtà storico-sociale molto diversa. Non facciamoci ingannare dai sinistri mascherati da buonisti, dai burocrati camuffati da filantropi, dai progressisti che si fingono liberali. Timeo Danaos, e vanno temuti proprio perché recano doni.

Sullo sfondo di tutti i regimi comunisti c’è il drammatico tema dell’odio che essi hanno sempre scatenato contro la religione e contro il cattolicesimo in particolare. La loro tesi è: se il comunismo dev’essere oggetto di fede, non può essere tollerato alcun altro credo religioso. Da qui le persecuzioni contro gli ecclesiastici e contro chiunque professasse pubblicamente la fede cristiana (mentre l’ortodossia russa era parzialmente accettata perché era diventata conciliante e talvolta perfino connivente con il potere sovietico). Da qui la repressione, fino all’uccisione, nei confronti di ecclesiastici e laici, accomunati nella testimonianza della fede. Impossibile farne l’elenco, ma doveroso ricordarne il sacrificio. Ne scelgo uno per tutti: Jerzy Popiełuszko, il cappellano di Solidarność assassinato a Varsavia dalla polizia politica nel 1984, quando era primo ministro il generale Jaruzelski. Questa era la «Chiesa del silenzio», tra i cui martiri si inscrivono i tre sacerdoti oggi commemorati. E ridotta al silenzio sarebbe stata la Chiesa anche in Occidente, se quell’ideologia avesse preso il potere, come dimostra, per esempio, l’uccisione di circa settemila sacerdoti spagnoli da parte delle brigate anarco-comuniste durante la guerra civile o, in terre italiane e limitrofe, le centinaia di esponenti del clero assassinati dai comunisti prima e dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Oggi in Occidente la religione cristiana continua ad essere sotto il medesimo attacco, sia pure non così sanguinario. Vediamo ancora marxisti coerenti con la loro sempiterna lotta alla religione, ma si tratta di forme residuali, perché il marxismo è entrato nel cristianesimo e quest’ultimo, uscito da se stesso, utilizza teorie riconducibili al marxismo. Vediamo cattolici laicisti, progressisti anticattolici, sinistri anti-identitari e perciò anticristiani (e antisionisti ovvero antiebraici, e su questo punto si saldano con la pseudodestra filo-russa). Vediamo fanatici europeisti antireligiosi e soprattutto anticristiani: la mancata menzione delle radici ebraico-cristiane dell’Europa non è solo una macchia incancellabile sull’Unione Europea ma anche un palanchino per scardinare la coscienza religiosa tradizionale dei popoli europei. Qui si mostra l’ottusità delle istituzioni di Bruxelles, che vedono nella religione un ostacolo alla loro idea di integrazione forzata: è vero che lo spirito religioso cristiano contrasta (ed è bene che sia così) con la laicizzazione burocratista, ma è anche vero che questo spirito, se adeguatamente valorizzato, potrebbe fornire un apporto fondamentale per l’armonizzazione dei popoli e degli Stati dell’Unione europea, a vantaggio di tutti. Ma purtroppo gli europeisti ottusi non lo possono capire.

Con l’islam le istituzioni europee hanno un rapporto diverso, di tipo più pragmatico, dettato da convenienze più che da convinzioni, e munifico di concessioni di ogni tipo. Premessa per l’instaurazione di Eurabia? Forse, e quindi occorrerà impegnarsi a fondo per evitarla, così come è necessario impedire l’avvento di Eurasia, che gli strateghi politici e culturali del Cremlino auspicano, dicendo Eurasia ma pensando Eurussia.

Lo stolido laicismo radicale dell’Unione Europea è il riflesso di una altrettanto insipiente concezione dei rapporti con le identità dei vari popoli, rapporti basati esclusivamente sull’imposizione normativa e sulla gestione burocratica, dannose non solo a quelle identità particolari ma anche controproducenti, perché stanno causando danni alla stabilità della stessa Unione Europea. Per chi lavorano dunque questi sedicenti europeisti, se la loro azione sta affossando l’Unione Europea?

Ecco che si comprende allora il senso della critica talvolta radicale ma sempre precisa che alcuni leader politici – e penso in primo luogo alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni – esercitano con determinazione e, mi auguro, con sempre maggiore successo, nei confronti delle istituzioni di Bruxelles. E della premier Meloni va anche valorizzato il costante impegno, ideale e concreto, a contrastare l’ideologia comunista in tutte le sue forme e a difesa delle vittime di quella ideologia.

Ora, fra i vari aspetti caratteristici del comunismo – tra i quali la lotta, anzi l’odio contro la proprietà privata è forse il più noto –, evidenzierò qui tre che sono emblematici della configurazione teorica e dell’architettura pragmatica della galassia comunista: la pratica onnipervasiva della menzogna, il controllo sistematico e l’uso della disinformazione.

1) La pratica della menzogna viene esercitata non solo come modo di informazione istituzionale ma anche come forma di esistenza delle persone e delle loro strutture organizzate. La falsità generalizzata è uno dei caratteri primari della vita nei regimi comunisti, ed è una necessità politica, sociale e perfino antropologica, perché il comunismo ha potuto e può realizzarsi solo nascondendo e mistificando non soltanto la terrificante realtà dei suoi regimi ma anche la sua orribile ideologia. Sulla menzogna si è retta la dittatura sovietica, su di essa continuano a sostenersi i regimi comunisti attuali e tutti i movimenti che in varia forma discendono dal marxismo-leninismo o che di esso sono varianti progressiste, postmoderne, politicamente corrette o come le si voglia chiamare.

Come annotò Boris Souvarine nel 1937, «essendo l’elemento naturale per i bolscevichi di tutte le sfumature, mentire non è più mentire, è fare politica». La menzogna finisce non solo per assumere i tratti della normalità, ma pure per trasformarsi in un carattere antropologico essenziale: l’homo sovieticus è un homo mendacem, altrimenti non solo non sarebbe sovietico ma non sarebbe nemmeno uomo. Se non diventa sovietico, egli è un Untermensch, come lo è l’ebreo per i nazionalsocialisti.

Nei regimi comunisti la menzogna viene praticata in combinazione con il terrore, e lo stesso avviene – sebbene in forma non così appariscente – negli attuali movimenti della sinistra, le cui tesi e le cui parole d’ordine vengono diffuse mediante il terrorismo psicologico o, come ha spiegato Richard Millet, il «terrorismo letterario» o culturale. Il terrore è la principale conseguenza della menzogna.

Per capire quanto la menzogna fosse penetrata in profondità nella mente sovietica, basti ricordare le parole di Solgenitsin: «la menzogna generalizzata, imposta, obbligatoria, è l’aspetto più orrendo della vita delle persone nel nostro paese». Ma il regime pretendeva che l’orrore fosse a tal punto nascosto da apparire come il suo opposto: splendore. Si voleva raggiungere quello stadio in cui la menzogna fosse vista come verità: se tutti mentono, nessuno mente. Qui la logica viene sconvolta nelle fondamenta, il modus ponens e il modus tollens cortocircuitano, perché è vero che tutti mentono, ma è falso che nessuno mente.

È dunque fino all’assurdo che l’ideologia comunista è arrivata, fino al punto in cui la menzogna viene spacciata per verità: assumendo e distorcendo la proposizione di Hegel secondo cui «il tutto è il vero», gli ideologi del bolscevismo potevano sostenere che nel socialismo realizzato nessuno mente, perché essendo parte di esso in quanto totalità, tutti non possono che essere nella verità, perché appunto il tutto è il vero. Povera dialettica hegeliana, stravolta in modo abominevole. Premessa teorica del totalitarismo, che non tutti i marxisti occidentali però accettavano: «il tutto è il falso», afferma infatti il marxista critico Theodor Adorno, che pur da marxista respinge il totalitarismo sovietico.

La menzogna è non solo l’opposto della verità, ma è anche la negazione della parresia, del parlare con chiarezza e onestà, cioè di quell’antico pilastro della cultura politica greca che consiste nel dire la verità, perché solo la verità – come avrebbe successivamente e definitivamente insegnato Cristo – rende liberi gli uomini; solo la verità permette il confronto politico; solo la verità permette il dispiegamento della democrazia, solo nella verità si dispiega la libertà. Ed è proprio la libertà, individuale e collettiva, che il sovietismo (e il comunismo di ogni epoca) vuole sopprimere.

Eretta a sistema – politico, istituzionale, culturale e mentale –, la menzogna diventa assoluta e quindi agli occhi di chi vive in quel sistema finisce per scomparire. Ma per chi, in quel medesimo sistema, la vede e la denuncia, si apre la via dell’inferno. Ecco che compaiono (e scompaiono nel gulag) i dissidenti. Elenco lunghissimo, liste infinite, infinito dolore: itinerarium mentis et corporis in Gulag.

Cambiano i tempi ma la sostanza, pur camuffata diversamente, resta identica: dall’Unione Sovietica alla Russia attuale; da Mao a Castro, da Chávez a Putin, dal movimento del ‘68 ai movimenti terzomondisti, fino al progetto totalitario del politicamente corretto. E poiché quella essenza è, appunto, menzognera, dev’essere appunto dissimulata, affinché la falsità non venga riconosciuta e, pian piano, venga percepita come verità. La menzogna riesce così a piegare la realtà ai suoi scopi. Se infatti, secondo la frase attribuita a Goebbels, una bugia ripetuta cento, mille, un milione di volte, diventerà una verità, replicare mille volte la struttura sociale basata su quella falsa verità produrrà – letteralmente – una realtà.

Come scrisse Orwell: «se tutti accettavano la menzogna imposta dal Partito, se tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la menzogna diventava un fatto storico, quindi vera». Una volta dunque introiettata la menzogna, è difficile estirparla ed è facile controllare gli individui, perché essi la credono una verità. Ben lo sapeva Bukovskij, che per non voler credere a quella falsa verità subì anni di internamento, comminati allo scopo di curarne la dissidenza politica diagnosticata come devianza mentale: l’ospedale psichiatrico era dunque il luogo adatto per detenere coloro che non riuscivano ad apprezzare il paradiso comunista e che, di conseguenza, non potevano essere altro che pazzi. 

Il comunismo viene annunciato come il paradiso in terra, e i suoi cantori spacciano per utopia una distopia; spacciano per società buona e giusta una società malvagia e ingiusta. Questo è uno dei punti ideologici centrali che vanno smascherati: il comunismo non è buono nemmeno nella sua forma ideale.

2) Per proteggere la loro ciclopica menzogna, i vari regimi – ieri e oggi – devono tutti reggersi sul controllo. Il regime controllava gli spostamenti delle persone, anche orientandoli verso determinate mete; possedeva i mezzi di informazione, plasmando l’opinione pubblica; vigilava sui rapporti interpersonali e familiari; tentava di controllare perfino le menti degli individui. Per un migliore risultato in questa vasta azione di sorveglianza, veniva incentivata la delazione, come ha magistralmente descritto Florian Henckel von Donnersmarck nel film Le vite degli altri. Così il controllo passa da azione verticale ad attività orizzontale, sgravando i nuclei centrali di sorveglianza e trasformando i controllati in controllori, che non vigilano però sul potere bensì sui loro pari, sui loro concittadini, vicini di casa, parenti. Applicazione scientifico-sociale della teoria. Così il potere consegue il massimo risultato con il minimo sforzo, utilizzando i sudditi come sorveglianti. Tutti controllori, e perciò necessariamente delatori. E tutto confluisce nei centri di raccolta delle informazioni, dai quali si dirama poi il sistema giudiziario e quello carcerario: la delazione denuncia il dissidente, che viene condannato dal tribunale (del popolo ovviamente) e poi spedito nel gulag o nel carcere più o meno duro.

Il Gulag è il simbolo più atroce dell’universo carcerario comunista. Il Gulag è il Golem sovietico, il mostro che sgretola l’essere umano. Come scrive Varlam Šalamov a Boris Pasternak l’8 gennaio 1956, quattro anni dopo essere stato scarcerato dal gulag siberiano della Kolyma, «il fatto fondamentale è la corruzione della mente e del cuore, quando l’enorme maggioranza delle persone si persuade di giorno in giorno, in modo sempre più netto, che si può vivere senza carne, senza zucchero, senza vestiti, senza scarpe, ma anche senza onore, senza coscienza, senza amore, senza dovere». Questo è il Gulag – versione sovietica del Lager nazista –: luogo di sterminio dello spirito oltre che del corpo.

Il controllo doveva essere totale; controllo a tutti i costi. Analogamente a quanto accade con la menzogna, il regime voleva arrivare a un rovesciamento dialettico della realtà: tutti controllati, nessuno controllato. Ennesima falsità. La realtà piegata all’ideologia.

Se non sottostare alla menzogna, all’epoca dell’Unione Sovietica conduceva diritti all’inferno del gulag o alla fucilazione, oggi, nella Russia putiniana, gli oppositori vengono spediti al carcere duro e in molti casi portati alla morte, come è accaduto ad Aleksej Naval’nyj, stroncato nella colonia carceraria artica n. 3 esattamente un anno fa. Il gulag in quanto tale è stato dismesso, ma i suoi surrogati funzionano a pieno regime, con una leggera variazione nella formula di condanna: la vecchia antisovetskaja agitacija, la propaganda antisovietica, è oggi trasformata in «propaganda antinazionale». Un esempio: nel marzo 2023 Vladimir Kara-Murza è stato condannato a venticinque anni di carcere con la seguente motivazione: «alto tradimento e reati di natura politica per aver contestato l’invasione dell’Ucraina», ed è stato poi scarcerato nell’agosto 2024 solo grazie a un accordo per uno scambio di prigionieri con gli Stati Uniti.

Insomma, i meccanismi del potere sono rimasti identici: un tempo si reggevano su ideologia marxista-leninista e burocrazia, oggi su burocrazia e una nuova ideologia (l’eurasianismo, elaborato in particolare da Aleksandr Dugin, che mescola nazionalismo russo, messianismo antiliberale e bolscevismo, il tutto in funzione dichiaratamente antieuropea e antioccidentale), ma con la medesima tecnica. A saldare le due epoche sono le strutture degli onnipotenti servizi segreti, invariati nella forma e nella sostanza: il KGB prima, l’FSB oggi. Continuità, dunque. Perché, come spiega ancora Bukovskij, «la nostra tragedia nazionale è che non c’è stata una chiara sconfitta del sistema comunista, nessun processo stile Norimberga per i suoi crimini, nessuna purificazione. L’Occidente si è affrettato a celebrare la fine della Guerra Fredda e la vittoria della democrazia nei paesi dell’ex cortina di ferro, ma la vecchia nomenklatura comunista è rimasta al potere a tutti i livelli, anche se sotto altro nome».

Nel mondo occidentale, individuare i segnali del controllo serve a svelare la presenza di questa pervicace ideologia. Per fare solo un esempio di grande impatto, ne abbiamo visto le tracce nella sciagurata gestione politico-sanitaria della pandemia da Covid. Il virus cinese e comunista (cinese per la sua origine, comunista perché prodotto e diffuso con l’avallo del Partito comunista cinese, che controlla qualsiasi attività di alto livello di sicurezza e che stabilisce se e come impiegarne i prodotti, in questo caso SARS-CoV-2), quel virus ha trovato un ambiente politico-ideologico recettivo nell’Occidente liberaldemocratico, che lo ha gestito in modo illiberale come in Cina. Al virus microbico si è aggiunto il virus ideologico. Il primo si insinua nell’organismo fisico, il secondo infetta le menti, quelle già pronte ad accoglierlo o inclini alla tirannide. Tempesta perfetta. Comunismo realizzato. Liberalismo annichilito. Per fortuna – e anche per la posizione ferma di alcune forze politiche (non posso non menzionare ancora Giorgia Meloni, che si è sempre opposta al diluvio di obblighi vaccinali e di lasciapassare sanitari da cui siamo stati sommersi, e che ha voluto la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla pandemia) –, per fortuna dicevo, il test pandemico comunista non ha avuto seguito (pur avendo lasciato dietro a sé migliaia di morti e danni colossali), ma il liberalismo è sempre sotto attacco. 

3) La menzogna viene alimentata dalla disinformazione, che si insinua fra le pieghe della società e invade i cervelli delle persone, e che a sua volta è indispensabile per mantenere e rafforzare il controllo. Dinamica circolare, circuito chiuso.  

La dezinformatjia sovietica si è sempre congegnata, fin dagli anni Venti, con due azioni congiunte: per un verso mascherare la realtà dell’inumano sistema sovietico tessendo le lodi del magnifico mondo comunista; per un altro verso e parallelamente diffamare il sistema liberal-capitalista descrivendolo come un mondo decadente, degenerato, destinato a soccombere dinanzi alla forza vitale dello Stato bolscevico. Ed entrambe le azioni erano rivolte sia all’interno sia all’esterno del blocco sovietico.

All’interno occorreva, da un lato, nascondere la realtà miserevole ammantandola di fasti futuri, correlandola all’obiettivo finale che giustifica non solo la miseria ma anche i massacri; e dall’altro lato occorreva distorcere la realtà occidentale affinché i sudditi non ne vedessero gli aspetti positivi. All’esterno il doppio movimento era identico nella motivazione ma diverso nell’attuazione, perché doveva trovare le chiavi adatte per entrare nella mente di popolazioni – quelle dei paesi occidentali – molto diverse dai russi per storia e abitudini.

Oggi avviene la stessa cosa: magnificare il mondo russo e infangare quello occidentale. Certo, è vero che l’Occidente è in crisi e il suo spirito è sofferente, è vero che sta subendo drammatiche distorsioni di alcuni dei suoi princìpi tradizionali, è vero che i nemici interni (progressisti, marxisti, fanatici del wokeism, terzomondisti, anti-atlantisti e filoputiniani) lo stanno erodendo affiancandosi così ai nemici esterni, ma è irricevibile che a denunciare e cavalcare questa crisi sia quel sistema di corruzione suprema dello spirito che è l’attuale sistema russo. È grottesco che il patriarca Kirill, ex agente del KGB, possa impartirci lezioni di morale o di religiosità. Non vengano a raccontarcela. Questo è l’impero fondato sulla menzogna e sulla disinformazione, oggi come allora. Il ricorso ai capisaldi della tradizione russa viene mescolato con alcune parole d’ordine del socialismo: lotta contro il fascismo e contro la decadenza del mondo occidentale; ortodossia religiosa coniugata a quella difesa della patria che cela il nazionalismo russo e abbandona l’internazionalismo.

Certo, come affermava Lord Acton, «il potere tende a corrompere, e il potere assoluto corrompe in modo assoluto», e ciò vale per tutte le epoche e per tutte le civiltà. Questa massima, che per realismo politico eguaglia la straordinaria lucidità di Machiavelli, reca in sé un monito: è necessario che il potere non sia mai assoluto e che, perciò, contenga e ammetta il pluralismo. E proprio in ciò consiste la differenza fra totalitarismo e liberalismo.

Questa è stata la principale differenza fra il mondo occidentale e la dittatura comunista (e ovviamente anche nazista), e questa continua ad essere la differenza tra l’Occidente e la Russia putiniana, della cui attività di disinformazione così riferisce Stéphane Courtois: «è sfruttando reti di propaganda e di disinformazione in tutto il mondo che [la Russia di Putin] tenta di minare dall’interno l’unità occidentale, se non addirittura di innescarvi la guerra civile». E continua: «questa propaganda mutua alcune modalità della sua antenata sovietica, ma ha una propria originalità ed è molto più capillare da quando ha abbandonato i suoi tratti ideologici specifici. È composta da tre elementi: destabilizzazione, confusione e minimizzazione».

Tutto come un tempo: mentire, minimizzare e metabolizzare. Si racconta che nel 1935 il direttore della fabbrica di trattori a Celjabinsk avesse riferito a Stalin che più di un milione di persone erano morte di fame negli Urali, nella regione al di là del Volga nella Siberia occidentale. E fu in quella circostanza che Stalin avrebbe pronunciato la famigerata frase «un morto è una tragedia, un milione di morti sono statistica». In questa espressione troviamo tutto il significato del modo in cui il comunismo si rapporta agli assassinii di massa: relativizzazione, minimizzazione, cinismo assoluto. Infatti, se una morte è una tragedia e un milione è statistica, cento milioni di persone uccise sarebbero archivio, un fatto meramente burocratico, nemmeno più politico.

Tutto come un tempo: i dissidenti vengono silenziati o fatti sparire. Come Anna Politkovskaja, la quale scrisse: «non eravamo dove credevamo di essere arrivati plaudendo a Gorbačëv e scendendo in piazza con Eltsin, ma a metà strada tra Stalin e Brežnev. Il nostro cammino va a ritroso: dalla stagnazione di Brežnev verso lo Stalin a cui “tutto è permesso”».  

Non dimentichiamo, come constatò amaramente Plinio Corrêa de Oliveira, che il comunismo «è la più terribile macchina di perdizione e falsificazione che il demonio abbia generato nel corso della storia», e quindi esercitiamo il ricordo per impedirne il ritorno, e al tempo stesso attiviamoci per smascherarne le metamorfosi. La grande tragedia storica del comunismo infatti può ripetersi, ma non secondo la formula marxiana – la prima volta come tragedia e la seconda come farsa –, bensì nella forma della catastrofe, di un abisso pronto a inghiottire l’Occidente.


di Renato Cristin