Tramonto dell’Occidente?

venerdì 7 febbraio 2025


Pubblichiamo il testo integrale della lectio magistralis tenuta a Piacenza il 26 gennaio 2025 in occasione della IX edizione del Festival della Cultura della Libertà dal titolo: “Libertà educativa, meno Stato, più società”.  

***

Secondo il metodo filosofico di Platone, ripreso da Aristotele, per comprendere e spiegare un oggetto o un problema è necessario ricondurlo a unità (synagoge) e scomporlo poi nelle sue parti (diairesis), ed eventualmente proseguire l’operazione secondo il medesimo schema. È evidente, per ragioni di tempo, che non posso applicare qui questa regola, tanto più perché sto per trattare un oggetto gigantesco per quantità e qualità, e quindi dovrò assumere che Occidente sia un concetto sufficientemente condiviso nonostante la pluralità di interpretazioni, e sufficientemente definito nonostante la sua complessità.

Già, la sua complessità. Infatti, analogamente a come affermava Aristotele riguardo al concetto di «essere», si può dire l’Occidente in molti modi: pollachos legetai. Lo si può dire in molti modi, non solo perché contiene una pluralità di determinazioni, ma anche perché è stato determinato in vari modi a seconda della prospettiva dalla quale è stato considerato ed elaborato.

Occidente è dunque un concetto che si articola e si sviluppa in molti versi, un concetto che può declinarsi al plurale senza però perdere quel nucleo identitario che gli conferisce unità e che consiste nella sedimentazione delle idee fondamentali etiche, religiose, gnoseologiche, estetiche e politiche, che costituiscono la peculiarità della sua cultura rispetto a tutte le altre e che formano quello che possiamo chiamare il canone occidentale.

Per elaborare la questione specifica che mi è stata posta con il titolo di questa relazione, se cioè l’Occidente stia tramontando, vorrei iniziare enunciando una tesi. Ritengo che l’Occidente si fondi su sei pilastri principali: anima, spirito, libertà, verità, natura e tecnica, che esprimono rispettivamente il nucleo dell’esistenza e della coscienza individuale, il senso del sacro o della religione, l’anelito alla libertà e la ricerca della verità, la cura della natura e l’essenza tecnica dell’uomo. Se da questa struttura, che potremmo chiamare l’esagono occidentale, togliamo anche una sola di queste colonne, l’edificio collasserà. Incriniamone una, e la struttura inizierà a franare. Nel primo caso ci sarà un crollo devastante, nel secondo (l’incrinatura) si avvierà uno smottamento dall’esito incerto, perché ci sarà tempo e quindi modo per intervenire.

Nelle profondità cosmogoniche della storia occidentale troviamo quello che è il principale mito di fondazione della grecità, secondo il quale Prometeo dona agli uomini il fuoco e il sapere tecnico per usarlo, i quali però si rivelano insufficienti perché agli uomini mancava lo spirito, quell’elemento che permettesse loro di convivere secondo le leggi e nel rispetto del sacro; gli mancava l’anima, senza la quale la natura sarebbe vuota e la conoscenza sarebbe cieca.

Nella versione platonica di questo celebre mito, Zeus allora interviene, donando agli uomini i due elementi fondamentali per la loro vita sociale, dike e aidos, cioè il senso della giustizia e quello del rispetto (dell’onore o del pudore), senza i quali il fuoco e la tecnica sono insufficienti per la coesistenza umana. Ecco dunque che la natura e la tecnica devono essere accompagnate e anzi guidate dallo spirito umano che, nel caso della vita sociale, si manifesta nella politica, nella politike techne, che non rappresenta una mera tecnica bensì costituisce l’essenza della ragione umana sul piano dell’esistenza collettiva configurata anche in senso istituzionale: dall’anima  educata secondo giustizia e onore nasce la democrazia, che – nella sua forma originaria e ideale – rappresenta lo spazio in cui gli uomini cercano la verità dei discorsi ed esercitano la libertà del giudizio individuale. E tutto ciò nel rispetto del sacro e della naturalità del mondo circostante. Queste sono le condizioni di partenza della civiltà occidentale, sulle quali si sono innestati il patrimonio giuridico romano e il contributo morale della religione cristiana, anche nel suo intreccio con quella ebraica rappresentato da San Paolo, e poi via via tutti gli altri grandi movimenti di idee e di sapienza dell’età medievale e moderna.

Oggi, un’analisi strutturale della tenuta di quegli antichi pilastri concettuali evidenzierebbe, oltre a normali modifiche sopravvenute nel corso dei secoli, anche preoccupanti lesioni, fenditure causate da errori nell’uso dei concetti e da fraintendimenti nella loro interpretazione, entrambi – errori ed equivoci – a loro volta generati da variazioni di prospettiva e di obiettivi, cambiamenti talvolta radicali rispetto all’essenza di quei concetti, che pur con la necessaria relativizzazione storica dovrebbero rimanere inalterati.

A peggiorare la situazione, si sta instaurando oggi una mancanza di finalità, un’inquietante assenza di telos: smarrito il fine, abbiamo perso l’orientamento. Emerge una sorta di nihilismo pervasivo e al tempo stesso non percepito come tale. Disorientati in tutte le dimensioni dell’esistenza, procediamo a tentoni credendo però – e questo è l’autoinganno più drammatico – di avanzare con sicurezza.

L’esempio più eclatante di questa mancanza di finalità si osserva nella tecnoscienza, riguardo alla quale l’autoinganno risalta in modo addirittura contundente. La crisi che ci avvolge riguarda tutte le dimensioni della vita e dello spirito, dalla religione alla politica, dalla cultura all’educazione, dall’arte al pensiero. Gli unici campi che, in apparenza, non sembrano in crisi sono la scienza e la tecnica, perché stanno procedendo tanto rapidamente e con tale efficacia come se fossero immuni da tutto, ma in realtà anche la tecnoscienza è, sia pure in forma diversa, in crisi. La differenza è che negli altri ambiti a essere in crisi non sono i princìpi (o i valori) ma le loro applicazioni, mentre nella tecnoscienza a essere in crisi (anche se essa non se ne rende conto) sono i princìpi nella loro versione moderna, non le applicazioni, che appunto la fanno sembrare in piena integrità. Un abbaglio dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche.

La crisi dei fondamenti delle scienze che un secolo fa Edmund Husserl aveva individuato e denunciato non è scomparsa, anzi, per molti aspetti è diventata cronica e al tempo stesso più acuta. La scienza si è degradata a mera tecnica, smarrendo ogni orizzonte strategico e riducendo la sua visione a mera tattica. L’efficacia operativa istantanea ha fatto scomparire la finalità etica di lungo periodo: è svanito il telos storico ed è rimasto solo l’utile pragmatico. La tecnoscienza oggi si muove senza alcun fine trascendente, incapsulata nella sua mera immanenza pragmatica. E sta correndo verso un baratro ancora peggiore, nel quale l’obiettivo sarà consegnato alla convenienza, nemmeno più all’utilità.

La crescita della tecnica è direttamente proporzionale alla debolezza dell’anima, alla crisi dello spirito. Non si tratta però di rifiutare la scienza, né di demonizzare la tecnica, tanto più perché quest’ultima si è sviluppata in simbiosi con l’evoluzione umana. Per l’uomo, infatti, la tecnica è come la propria ombra, che lo segue sempre e di cui egli non può sbarazzarsi, perché l’ombra è la traccia simbolica della sua essenza umana: finitezza e persistenza.

Ma il rischio, tanto maggiore in quanto implica la disgregazione dello spirito occidentale, è che la tecnica si renda autonoma dall’uomo, allontanandolo da se stesso, in un paradossale processo di autoestraneazione. La tecnica autonomizzata sfocia nell’automa antropologico. Quando la tecnica smette di essere un mezzo e diventa un fine, l’umano ha non solo perduto il controllo su di essa ma ha anche smarrito se stesso. In questo modo si arriva alla tecnica senza uomo e si avvia il percorso per arrivare all’uomo senza l’umano, paradosso estremo e finale. Poiché l’uomo ha annullato o ammutolito la voce della coscienza, gli resta soltanto l’algoritmo della tecnoscienza.

Per l’Occidente, questo possibile disastro discende anche dalla perdita di uno dei fondamentali aspetti della nostra civiltà, cioè dalla rescissione del legame originario con la tradizione religiosa ebraico-cristiana e con quella sfera etica alla quale, pur con mille oscillazioni, la politica ha sempre fatto riferimento.

Tanto meno la sfera etico-religiosa conta nella società, tanto più la tecnoscienza assurge a faro della vita collettiva, attirando a sé la mente delle persone, che si affidano ad essa con una fede analoga a quella religiosa. In questo modo, la tecnoscienza da un lato acquisisce in modo indebito una dimensione di altro genere (cioè la fede) che è essenzialmente incompatibile con essa, e dall’altro lato perde un aspetto che ne aveva pervaso l’origine, e cioè il carattere di ricerca libera ma pur sempre sottoposta al giudizio morale. Oggi invece gli scienziati o almeno molti di essi vorrebbero anche dettare legge nelle scelte della politica e dell’etica.

Ed è sulla propria ambiguità o anfibietà che la tecnoscienza fa leva per trasformarsi nel demiurgo della nuova epoca storica: poiché le scoperte scientifiche e le loro applicazioni possiedono, oggettivamente, molti aspetti utili per la crescita dell’umanità, allora tutto il lavoro, i prodotti e gli atti della scienza sarebbero indiscutibilmente positivi. E ciò che non è in discussione è, per definizione, assoluto. Ma il fatto che la scienza sia in molti casi salvatrice, non implica che essa non possa anche essere, se non viene guidata, distruttiva.

Quando gli scienziati dicono che bisogna credere nella scienza, diventano sacerdoti di una falsa religione, e smettono di essere scienziati nel senso autentico del concetto, e quando i politici esprimono la medesima credenza incondizionata nella scienza, si alimenta lo scientismo, la degenerazione della scienza in una forma di burocrazia dittatoriale; e a sua volta lo scientismo opera per asservire le persone a sé come la stregoneria faceva a dispetto sia della scienza autentica sia della religione.

Così, le tecnologie d’avanguardia rappresentano il catalizzatore di questa credenza. Per esempio, la cosiddetta intelligenza artificiale (una denominazione che è un obbrobrio concettuale, un ossimoro mentale) potrebbe diventare il più evocativo totem del settarismo scientifico che si sta manifestando. Anche nel caso dell’intelligenza artificiale, ci possono essere alcuni aspetti positivi di carattere meramente strumentale, ma la dinamica interna alla scienza contemporanea tende a farli affondare nei flutti della sua volontà di dominio.

Questo neo-paganesimo tecnoscientifico disintegra la religiosità autentica smantellando l’influsso della tradizione ebraico-cristiana, e annienta la coscienza personale come condizione di possibilità di una critica della tecnoscienza. Così, la sacralità della persona come sacralità dell’essere umano viene ridotta a questione meramente funzionale. Ne scaturisce l’idea che l’uomo non sia la sua coscienza ovvero la sua anima, bensì la serie delle sue operazioni scientificamente misurabili: tutto ciò che sfugge a questa misurabilità diventa superfluo. E così svanirebbe anche la scienza autentica, scomparirebbero i suoi princìpi originari, sostituiti dalle loro applicazioni tecniche.

In pericolo qui è non solo la verità a cui lo spirito occidentale ha da sempre anelato, ma anche la libertà, quella libertà che, come affermava Benedetto Croce, «è il principio supremo della vita morale e veramente umana, e non è conseguenza di altre cose, ma la premessa di tutte le altre». Ma se soltanto la coscienza della libertà permette di giungere a questo riconoscimento, è solo la civiltà occidentale a pervenire a questa consapevolezza, perché lo spirito di questa civiltà ha posto fin dall’origine la libertà come premessa fondamentale della propria vita storica. Pur differenziandosi, come segnalava Constant, in antica e moderna, la libertà è stata e rimane – ancora Croce – il motore della storia occidentale.

Occorre però interpretarla correttamente, seguendo il solco crociano dell’intreccio fra libertà e responsabilità, nel quale la libertà di tutti si affianca alla responsabilità di ciascuno, perché altrimenti si rischia di ridurre la libertà a mero arbitrio o a semplice oggetto di propaganda, oppure di trasformarla in un feticcio, in un simulacro e, alla fine, di usurarne il concetto ridicolizzandone il nome. Infatti, per lo spirito occidentale la libertà non deve mai essere disgiunta dalla verità, mentre la propaganda o la sofistica sono, in sé, l’opposto della verità.

Per inciso, segnalo che dietro a questa degradazione del concetto di libertà si cela un problema enorme, benché sotterraneo, costituito dalla perdita del senso delle parole, dallo svilimento del linguaggio, da un analfabetismo transgenerazionale (primario o anche di ritorno) che affligge la nostra contemporaneità. L’Occidente potrebbe liquefarsi per inflazione linguistica causata dall’immiserimento del linguaggio. 

L’erosione dunque di quei pilastri originari, la debolezza dello spirito che abdica in favore della scienza, l’incapacità della politica di essere all’altezza della sua essenza e di governare la tecnica, la trasformazione della verità e della libertà in opinione e anarchia, tutto ciò genera una condizione di asfissia, nella quale l’Occidente sembra sempre più soffocare.

A poco più di un secolo dalla pubblicazione dell’edizione definitiva del Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler e a novant’anni esatti dalla conferenza che Edmund Husserl tenne a Vienna sulla Crisi delle scienze europee, lo scenario geopolitico è cambiato radicalmente, ma quello spirituale e culturale è ancora identico nella sua essenza. Spengler riteneva che la civiltà occidentale stesse giungendo al termine e, con sguardo neutrale quasi da naturalista, lo considerava come analogo agli altri epiloghi delle grandi civiltà e ne ravvisava l’inevitabilità. Husserl invece guarda con estrema preoccupazione alla decadenza dello spirito europeo, alla perdita della ragione (la cui accezione originaria di logos e theorein è stata stravolta dal razionalismo illuministico, pur con tutti gli altri imperituri meriti dell’Aufklärung, dell’Illuminismo) e allo smarrimento del telos che caratterizza la missione storica della civiltà occidentale, individuando la soluzione proprio nel recupero dell’origine e del telos in essa annunciato.

Atteggiamenti differenti, prospettive diverse, intenzioni divergenti. Ma sia Spengler sia Husserl avevano ben chiare le cause: l’Occidente sta decadendo per inerzia, per aver lasciato esaurire le sue fonti, che secondo Spengler si trovavano nella potenza pre-culturale dei suoi popoli, mentre secondo Husserl erano insite nella forza per così dire visionaria ovvero teoretica del pensiero greco e nella connessa ricerca del senso. Per Spengler l’Occidente decade quando la Kultur diventa Zivilisation; per Husserl svanisce quando il pensiero si trasforma da intuizione in intelletto, da eidos in Verstand, smarrendo il Sinn, il senso.

In entrambi i casi però il punto critico consiste nella razionalizzazione, in quel processo di conformazione della pluralità dell’esperienza all’unicità della razionalità e di semplificazione della complessità del mondo a mera efficienza pragmatica. Questo processo epistemologico, analogo a quello che sul piano spirituale è il processo di secolarizzazione, può sfociare nel caos tecnocratico oppure può essere governato dalla politica. Il finale non è ancora scritto.

In natura, il tramonto è spesso uno spettacolo meraviglioso. Nella cultura, può essere talvolta tragicamente grandioso, malinconicamente epico. Posto che il tramonto sia quello della civiltà occidentale, cosa facciamo? Assistiamo allo spettacolo?

Qualcuno è straziato dal dolore, altri guardano con piacere, alcuni ne traggono profitto, altri ancora agiscono per accelerare il declino, altri preferiscono contrastarlo, pur nella consapevolezza delle difficoltà. Stoicamente, come suggerisce Spengler: «Siamo nati in questo tempo e dobbiamo percorrere coraggiosamente sino alla fine la via che ci è destinata. È dovere tener fermo sulle posizioni perdute, anche se non c’è più speranza né salvezza. Tener fermo come quel soldato romano le cui gambe furono trovate a Pompei davanti a una porta: egli morì perché quando scoppiò l’eruzione del Vesuvio, il comandante si dimenticò di rilevarlo dal suo posto. Questa onorevole fine è l’unica che non si può togliere all’uomo». Oppure unendo stoicismo e attivismo, come propone Husserl: «La crisi dell’esistenza europea ha solo due sbocchi: il tramonto dell’Europa, nell’estraneazione rispetto al senso razionale della propria vita, la caduta nell’ostilità allo spirito e nella barbarie, oppure la rinascita dell’Europa dallo spirito della filosofia, attraverso un eroismo della ragione capace di superare definitivamente il naturalismo. Il maggior pericolo dell’Europa è la stanchezza. Combattiamo contro questo pericolo estremo, da “buoni europei”, con quella fortezza d’animo che non teme nemmeno una lotta destinata a durare in eterno».

C’è chi – come abbiamo visto nell’esempio della tecnoscienza – sta, forse anche inconsapevolmente, erodendo l’Occidente dall’interno. E poi, c’è chi lo teme e chi lo auspica; chi lo difende e chi lo combatte. E tutto ciò avviene sia all’esterno sia all’interno dello spazio occidentale.

Nella più specifica prospettiva geopolitica e geoculturale, oggi l’Occidente si trova – letteralmente – sotto assedio; un assedio anomalo e anche paradossale, perché proviene appunto sia da fuori sia da dentro. Ribadito il fatto che l’Occidente è una dimensione composita e quindi non facilmente descrivibile in modo sintetico sotto il profilo politico-sociale, spiccano in particolare due tipi di aggressioni interne e due tipi esterni.

All’interno, da sinistra, agiscono la cancel culture, l’ideologia woke e più in generale il progressismo tendente a un marcato controllo sociale fin nell’uso del linguaggio. La cancel culture è pervasa di ideologia marxista terzomondista ma è anche intrisa di conformismo paraideologico e quindi è una sorta di moda culturale, e come tale è esposta all’usura del tempo, tanto che oggi la sua curva sembra in flessione, pur mantenendo tutta la velenosità che ha pervaso non solo i movimenti ma perfino le istituzioni. Dalla parte opposta opera una pseudodestra antiamericana e filorussa, una tendenza che è presente oggi in forma trasversale nello scenario politico, che vede l’Occidente come un mondo in putrefazione e spera che l’eurasianismo putiniano lo spazzi finalmente via.

In entrambi i poli di questo antioccidentalismo interno vige un preciso rifiuto del liberalismo: a sinistra viene respinto soprattutto il liberismo economico e in misura meno accentuata il liberalismo sociale; a destra (ma insisto: pseudodestra) viene rigettato il liberalismo sociale e culturale, mentre quello economico viene in buona parte accolto. La sinistra liberal è socialista in economia, la (pseudo) destra tradizionalista è liberista ma è illiberale in campo socioculturale. In entrambe le aree, a essere avversato dunque è il senso pieno e autentico del liberalismo.

Dall’esterno, si concentrano sul mondo occidentale vecchie e nuove potenze economiche e militari che, da differenti premesse e con diverse motivazioni, mirano tutte all’indebolimento del campo occidentale.

Il gruppo dei Brics è minaccioso sul piano finanziario, ma è troppo eterogeneo per esserlo anche sul piano politico, e quindi, almeno a medio termine, resta sostanzialmente inerte nello scacchiere strategico globale. Invece attivo e mortalmente pericoloso sul piano geopolitico è l’asse Russia-Cina-Iran, mentre l’altro acerrimo nemico, cioè il fondamentalismo islamico sunnita, per varie ragioni fra cui la sua frammentazione e la nostra azione di contenimento, non è per ora altrettanto efficace quanto l’asse sopraindicato, nel quale è oggi incluso il fondamentalismo sciita (Iran e affini). Tuttavia, non va trascurata la penetrazione sottotraccia di islamisti radicalizzati nel territorio europeo, la quale si innesta su un terreno favorevole costituito da folti strati di immigrati musulmani. Al di là degli attentati, già subìti e sempre incombenti, la presenza dell’islam radicale in Europa è diffusa in modo pulviscolare e capillare, come si vede dalla situazione nelle periferie francesi o belghe, e non solo, dove si sono formate enclaves in cui vige di fatto la legge islamica. Terreno di coltura per terroristi, attuali e potenziali.

E a proposito di terrorismo, gli attacchi del 7 ottobre in Israele e la guerra che hanno scatenato sono gli eventi più recenti di una lunga serie di provocazioni e conflitti che l’Iran, supportato più o meno occultamente dalla Russia, insieme ai suoi più piccoli satelliti ha sferrato contro lo Stato ebraico, nell’ottica di una strategia di vasta portata e a lungo termine.

Ripensando agli ultimi due decenni, vedo diversi stress test significativi, volti a saggiare le capacità di reazione e di difesa del mondo occidentale. Ne elencherò rapidamente alcuni.

Il primo si è diffuso nel tempo e nello spazio, nasce dall’integralismo islamico e si è configurato nella forma degli attentati terroristici, a partire dall’11 settembre, per giungere alle ondate in Europa e in Israele. Quegli attacchi alla civiltà occidentale hanno avuto anche lo scopo di mettere alla prova la reazione dei governi e della popolazione all’aggressione islamica, incoraggiata anche dall'immigrazione massiccia e incontrollata in Europa.

Il secondo test è la penetrazione cinese e russa in varie aree del mondo (dall’Asia al Sudamerica), che rappresenta un tentativo sia di espandere la propria sfera di influenza sia di minacciare gli Stati Uniti, in quanto nucleo forte dell’Occidente, perfino sul suolo stesso del continente americano, per vedere quanto Washington tolleri questa invasione sottotraccia e quindi fino a che punto sia docile o condiscendente.

Un terzo tentativo è consistito nell’esplosione della pandemia causata dal virus cinese, uscito dal laboratorio di Wuhan con l’intento palesemente nascosto (mi si perdoni l’ossimoro) di verificare come il sistema sociale e politico dei Paesi occidentali possa resistere a crisi sanitarie così gravi; in che misura siamo disposti ad attuare misure tiranniche per controllarle, e fino a che punto la popolazione sia disposta a sottomettersi, contro la propria libertà e le garanzie che la tutelano.

Concretamente, il test pandemico è servito ai nemici, esterni e interni, dell’Occidente a produrre caos, a snervare la popolazione, a individuare possibili quinte colonne, a sondare le capacità di reazione e a valutare le conoscenze dei paesi occidentali per trattare una pandemia dal punto di vista sia medico-sanitario sia organizzativo (le oscure missioni dei militari russi e degli specialisti cinesi in Italia nel marzo del 2020 sono un inquietante esempio di questa subdola strategia). È accaduto che, per ironico paradosso, con le misure restrittive delle libertà individuali – dalla vaccinazione obbligatoria al lasciapassare sanitario – i governi occidentali, tutti liberaldemocratici, abbiano adottato la medesima prassi illiberale della Cina comunista. Con conseguenze devastanti sul piano sociale e psichico, perché se in Cina le persone sono abituate a tollerare molte restrizioni alle loro libertà personali (certo, assai meno di quanto accadeva con il maoismo, ma pur tuttavia ancora con una certa remissività) e quindi le assurde misure coercitive sono state accettate senza eccessivi sconquassi socio-psicologici, in Occidente siamo ancora – ed è un bene che sia così – molto reattivi dinanzi a imposizioni governative che toccano e limitano la libertà del pensiero e dell’espressione, della mente e del corpo, e quindi i soprusi e gli abusi che i governi ci hanno fatto – inutilmente – subire in quella circostanza hanno sconvolto la vita collettiva e la psiche stessa degli individui, colpendoli nel profondo, squilibrandone l’esistenza, causando sconcerto, disorientamento, paura e rabbia. Monito dunque ai governanti: guai a toccare con tale violenza l’interiorità e il corpo delle persone, perché si provocano danni incalcolabili e reazioni imprevedibili.

La gestione della pandemia ha svelato molti punti deboli: la fragilità delle società occidentali, la facilità con cui in esse si possono instaurare meccanismi dispotici che sequestrano le libertà individuali, l’inadeguatezza di un certo liberalismo e di un certo conservatorismo rispetto al giudizio sulla scienza e riguardo al rapporto fra politica e scienza, che in quella circostanza si è esplicato come un rapporto di sudditanza della prima nei confronti della seconda, contraddicendo così l’essenza di entrambe.

La scienza mitizzata diventa infatti un feticcio e finisce per contravvenire a uno dei fondamenti dell’idea stessa di scienza, cioè l’essere costantemente critica verso se stessa; e lo scientismo è l’anticamera del totalitarismo epistemico e un ottimo alleato per i dispotismi politici. Combattere lo scientismo significa sia aiutare la politica a comprendere i rischi insiti nella burocratizzazione della scienza, sia salvare l’essenza della scienza da quella tendenza autoritaria e autofagica che la minaccia dall’interno. Ciò non implica scivolare nel fanatismo: anti-scientismo non è anti-scientificità, anzi, è una forma di difesa della scienza autentica.

Un ulteriore test è costituito dall’invasione dell'Ucraina. L’ignobile aggressione russa, iniziata non a caso subito dopo il ritiro dell’Occidente dall’Afghanistan (fra parentesi: forse bisognerà prima o poi chiedere conto a Donald Trump del catastrofico esito degli accordi di Doha con i talebani), aveva cercato di decapitare il governo legittimo di Kyiv sostituendolo con uno fantoccio, come in Bielorussia, immaginando che di fronte al fatto compiuto l’Occidente avrebbe chiuso un occhio, o anche entrambi. Tuttavia, non è stato così, anche grazie alla massiccia e solidale reazione dei paesi della NATO.

Ma il sanguinoso test ucraino continua: la Russia attacca via terra, la Cina sviluppa un’azione diplomatica fantasmatica, l’Iran sostiene materialmente l’attacco dalle retrovie, aggirando l’embargo occidentale. L’attacco è multiforme e organizzato, come dimostra l’ingresso ufficiale della Corea del Nord sul terreno di battaglia. L’antico espansionismo russo, che aveva visto con l’Unione Sovietica la sua massima realizzazione, è oggi ripreso – con una retorica nazionalista che unisce zarismo e sovietismo – dalla Russia di Putin, che continuerà nei tentativi di penetrare in Europa orientale saggiando nel contempo la capacità di risposta della NATO.

Altro test, la guerra contro Israele, nella quale i ruoli della «triade» sono cambiati e si sono aggiunti altri attori, ma la sostanza rimane la stessa. L’Iran, attraverso Hamas e Hezbollah, ha attaccato via terra; la Russia ha sostenuto segretamente l’attacco coprendo i pasdaran iraniani in Siria, e la Cina continua ad agire secondo una diplomazia fittizia. Da qualche settimana nello scenario mediorientale le cose sono cambiate, in meglio per l’Occidente, perché Israele ha rafforzato la sua posizione, l’Iran è fiaccato, i gruppi terroristici palestinesi e libanesi sono ridimensionati e per loro la Siria non è più zona franca, la Russia dovrà almeno parzialmente sloggiare dalle coste siriane, e l’Arabia Saudita sembra poter riprendere il cammino degli accordi con Israele. Ma la missione antioccidentale rimane la stessa: attaccare, dividere e indebolire.

E in questa chiave, le prossime mosse ipotizzabili sono: in Asia, la pressione cinese su Taiwan; in America Latina, maggiore penetrazione economica e militare da parte di Cina e Russia (l’Iran agisce soprattutto sul Venezuela e su alcuni paesi dell’America Centrale); in Europa, la pressione russa sugli Stati baltici e sulla Polonia, con un possibile attacco al corridoio strategico di Suwałki, che separa l'enclave russa di Kaliningrad dalla Bielorussia.

Al di là delle più o meno facili ipotesi, la realtà è che l’Occidente è in guerra, trascinatovi da un nemico molteplice e multiforme, dislocato su vari quadranti e che sul terreno europeo è incarnato dalla Russia putiniana, che sta giorno dopo giorno non solo conquistando terreno in Ucraina ma anche acquisendo alleati fra i paesi europei.

Di fronte a tutto ciò, l’Occidente reagisce con geometrie variabili, con l’incognita statunitense attuale, talvolta perfino con la passività. Uno dei problemi che lo assillano è il rapporto con quello che un tempo veniva detto terzo mondo, nei confronti del quale sembra sempre assumere un atteggiamento segnato da una sorta di senso di colpa proveniente dalla vulgata della teoria della decolonizzazione, secondo la quale, da ex-colonizzatori, gli occidentali dovrebbero farsi carico in modo integrale e in misura esorbitante dello sviluppo del terzo mondo.

Certo, il senso di colpa è, sia psicologicamente sia moralmente, un elemento elevato della coscienza, che le permette di valutare i propri errori e, nel caso, di espiarli, e quindi di perfezionarsi, anche sul piano storico-politico (per esempio, la colpa del nazismo per aver compiuto la Shoah va sempre ricordata e condannata, proprio perché non abbia più a ripetersi), ma quando degenera in maniacale, cinica o stolida autocolpevolizzazione, allora è un fattore nocivo. E da quasi un secolo questa autofustigazione è diventata uno dei temi preferiti della propaganda ideologica della sinistra, sia di quella dichiaratamente ostile all’Occidente sia di quella inconsciamente antioccidentale, finendo per costituire una delle maggiori zavorre che trascinano lo spirito occidentale verso la paralisi.

Oggetto di scontro sono oggi i «valori» della nostra civiltà, nella quale convive un’ampia varietà di virtù e princìpi, dei quali la libertà è, pur nella sua grande genericità, quello fondante e vitale. I valori classici occidentali sono calpestati dall’interno (dalla sinistra legata al marxismo culturale e anche da quella forma di pseudodestra populista nettamente distante dal liberalconservatorismo) e strumentalizzati dall’esterno (la Russia neosovietica di Putin che si proclama alfiere dei valori spirituali dell’Occidente è un insulto all’intelligenza oltre che un’ingiuria politica).

Come ho già accennato, il principio maggiormente bersagliato da questa anomala e, fino a qualche tempo fa, inconcepibile convergenza, è la libertà, insieme al paradigma che la dinamizza, cioè il liberalismo nella sua forma concettualmente e politicamente più raffinata che è il liberalconservatorismo. 

Alcuni influenti settori del tradizionalismo cattolico sostengono che il liberalismo sia il male dell’Occidente, riferendosi non solo alle teorie liberals nordamericane, ma alla concezione liberale in generale. A questi tradizionalisti antiliberali e filorussi bisognerebbe spiegare che il liberalismo non è un male, anzi, è la soluzione politica e culturale delle varie patologie del mondo occidentale. Ma temo che siano refrattari a qualsiasi spiegazione, tanto sono ottusamente incistati nel loro pregiudizio antiliberale. 

D’altra parte, un certo libertarismo radicale – il quale se usato in modo intelligente resta un eccellente propulsore di libertà sul piano sociale e dei diritti civili – vagheggia la distruzione dello Stato definito come un’associazione a delinquere, a tal punto da sostenere – con un effetto grottesco perché causato da premesse del tutto differenti – la medesima tesi di Marx: l’estinzione o abolizione (dialetticamente: la Aufhebung) dello Stato.

Ma questo non è liberalismo. In questo modo infatti si comprometterebbe la libertà individuale, perché, sia pure per eterogenesi dei fini, l’estinzione dello Stato non solo equivale all’obiettivo di lungo periodo teorizzato da Marx, ma ci farebbe ricadere, come abbiamo visto con il mito di fondazione greco, anche nella condizione di conflittualità precedente a quell’arrivo di dike e aidos che libera gli individui dal sopruso dell’arbitrio. Certo, in molte circostanze storiche la libertà viene negata dallo Stato, spesso l’amministrazione statale è oppressiva e iniqua (e tutti noi avremmo centinaia di casi molto gravi da denunciare), ma il compito del liberalismo è di far sì che la libertà trovi nello Stato un alleato e un difensore, pur mantenendolo il più limitato possibile. Compito difficile ma ineludibile.

Il titolo di questo convegno fornisce la chiave per comprendere il senso di questo complesso rapporto fra liberalismo e Stato: «meno Stato, più società». Da qui quella che potremmo definire la regola aurea del liberalismo (e del libertarismo intelligente): libertà equivale a meno Stato e più società ovvero più individuo. Ecco, appunto, meno Stato, non zero Stato. Meno, non zero: una concezione minarchica dello Stato non deve mai diventare una concezione anarchica, che porta inevitabilmente alla scomparsa delle condizioni di possibilità della libertà sia teorica sia concreta, sia generale sia individuale.

Lo Stato e la proprietà privata non sono, in sé, antitetici, anzi; uno Stato virtuoso protegge la persona e la sua proprietà con l’autorità delle leggi. Certo, quando lo Stato deborda e si trasforma nel Leviatano, allora tutti sono minacciati, anche la proprietà privata è intaccata, ma la colpa qui è del potere politico che in quel momento governa. Lo statalismo è anche, di fatto, socialismo, il quale però non deriva dall’idea di Stato bensì da ideologie che si impadroniscono dello Stato stravolgendone il concetto.

Se per i totalitaristi lo Stato è l’entità suprema («tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato»: espressione mussoliniana che potrebbe perfettamente essere anche di Stalin, non di Lenin però, il quale rimane, almeno fino a Stato e rivoluzione (1918), nel solco marxiano), se per gli statalisti lo Stato è lo strumento per la statizzazione o nazionalizzazione dell’economia e della società (l’esempio del sistema scolastico che è al centro di questo convegno è, a tal proposito, perfettamente adatto), per i liberalconservatori (come pure per i libertari illuminati), esso è la quarta gamba di quel tavolo storico che include popolo, patria e nazione. Su questo punto altamente controverso che è lo Stato, non possiamo non dirci crociani (con tutto il rispetto, la stima e anche l’affetto per Giovanni Gentile, che assegna invece molta più influenza alla gestione statale). Che Croce non avesse compreso il senso autentico del liberismo, non inficia la sua posizione verso lo Stato, che potremmo definire minarchica.

Distinguendo patria da Stato, Croce sostiene che l’amor di patria esiste, mentre non vi può essere amore per lo Stato, perché quest’ultimo va servito e rispettato come qualcosa che è necessario, senza quel coinvolgimento spirituale e anche sentimentale con cui si guarda alla patria, ed è solo in virtù di questo amore per la patria che si possono osservare le leggi dello Stato, accettandole con un senso di dovere morale. Detto ciò, è evidente che per Croce lo Stato come struttura amministrativa è una figura storico-politica che ha una sua precisa necessità. Se infatti, oltre ad essere limitato nella sua funzione, lo Stato è concepito come Stato nazionale, ovvero come sostanza vivente che racchiude un popolo, allora esso si consolida connettendosi con una figura superiore, la nazione appunto, che esprime la volontà di un popolo di unirsi e di riconoscersi nella propria nazione. 

L’Occidente dunque potrebbe reggere l’urto dei nemici e l’usura della storia, proprio perché è un insieme di nazioni, che ne costituiscono l’ossatura originaria ed essenziale, che a sua volta si è strutturata storicamente sul concetto di patria e sul popolo che la determina. Forse la salvezza dell’insieme sovranazionale occidentale dipenderà dal virtuoso operare delle sue nazioni.

Il tramonto è una strada che può essere anche molto lunga, e oggi l’Occidente è a un passo dall’imboccarla. Ma fino a quel momento è ancora in salvo, in crisi ma ancora vivo.


di Renato Cristin