Tusk erede del passato, vedi Brindisi e ti indigni

martedì 4 febbraio 2025


Sassolini di Lehner

L’Esecutivo polacco guidato da Donald Tusk è, da un lato, esaltato dall’Unione europea, forse perché odora tanto di filiale tedesca; dall’altro, sembra la riproposizione della dittatura militare di Wojciech Witold Jaruzelski. E per questo piace molto anche ai sinistroidi italiani, anche quelli di ritorno per la rovente giorgiafobia. Quei gran bugiardi dei disinformatori comunisti rivendettero il golpista come lo strenuo patriota che impedì l’invasione sovietica della Polonia, divenuta di colpo nemica del popolo e controrivoluzionaria a causa del proletariato che animava Solidarność contro il regime comunista, sedicente Governo della classe operaia, in realtà il più antioperaio e sfruttatore a memoria di lavoratore. Il comunismo posto sul banco degli accusati dai metalmeccanici e dai manovali dei cantieri di Danzica apparve accadimento davvero troppo difficile da digerire per gli utili idioti al servizio delle Botteghe Oscure. La propaganda dei compagni fu talmente suasiva che financo Bettino Craxi si convinse del patriottismo di quel generale mascalzone. L’illusione durò fino al giorno in cui in quel di Hammamet gli mostrai i documenti fotocopiati negli archivi del Pcus.

Del resto, anche la Casa Bianca statunitense era caduta nel tranello, legittimando informalmente l’operazione – vedi i contatti segreti tra il generale Eugeniusz Molczyk e il vicepresidente George Bush – avendo creduto alla balla dell’autogolpe come male minore rispetto all’intervento del Patto di Varsavia. Carta canta e cantò ben altra verità: Jaruzelski vola a Mosca per implorare al Comitato centrale del Pcus proprio l’immediata occupazione militare della Polonia. Jurij Andropov, allora capo del Kgb, irridendolo, gli oppone che l’Unione Sovietica non era in condizioni di ripetere una nuova Ungheria 1956 e neppure la Cecoslovacchia del 1968, essendo militarmente ed economicamente stremata dall’ intervento in Afghanistan. Il Cremlino, quindi, intima un “no” secco a Jaruzelski: “No, caro compagno, noi non invaderemo la Polonia”. Jaruzelski, allora, provvede alla sopravvivenza del regime comunista con quella sorta di inaudito e grottesco auto-putsch di Stato.

Il 13 dicembre 1981, per salvare il salvabile dalla rivolta proletaria, Jaruzelski proclama lo stato di guerra, nominandosi capo del Consiglio militare di salvezza nazionale. Il generale, uno dei polacchi di famiglia nobile deportati, quindi allevati e manipolati dagli stalinisti, odia il cattolicesimo, tant’è che, pur avendo notizia, ben due settimane prima, del progettato attentato a Karol Wojtyła, non fa nulla per impedirlo, anzi punisce lo 007 polacco autore della soffiata sul progetto di uccidere il pontefice. Raccontai l’episodio, nel 2008, alla tivù di Stato polacca, citando anche la vergognosa delazione contro il collega polacco da parte di uno spione italiano vicino ai comunisti. Ebbene, oggi, 2025, il Governo Tusk ripropone l’odio anticattolico e, di fatto antipolacco, del generale golpista. Karol Wojtyła, infatti, non è stato ed è soltanto un grande, indimenticabile pontefice, ma anche una immensa figura identitaria.

Il popolo polacco riuscì a non farsi azzerare culturalmente, linguisticamente, moralmente e psicologicamente da invasioni e occupazioni svedesi, prussiane, russe, austriache e, poi, dagli orrori nazisti e dalla barbarica colonizzazione sovietica, grazie alla fede cattolica, religione divenuta straordinario scudo esistenziale, usbergo salva personalità e specificità nazionale. Giovanni Paolo II è uno dei polacchi più famosi della storia, ma l’attuale Esecutivo di Tusk trema davanti all’erigendo museo a Karol. In previsione dell’anniversario della morte, 2 aprile del 2005, il Ministero della Cultura e del Patrimonio nazionale, guidato da Hanna Wróblewska, ha deciso di intentare causa contro la Fondazione Lux Veritatis con la quale, nel 2018, venne firmato il patto di collaborazione per la fondazione del Museo della memoria e dell’identità intitolato a Karol. La costruzione iniziò nella città di Toruń nel 2019. Il Governo di centrodestra programmò finanziamenti per completare i lavori e l’apertura al pubblico.

Nel 2023, destino cinico e baro, Tusk, avendo perso le elezioni, diventa primo ministro, grazie a un’ammucchiata di altri partiti e partitini. Wlodzimierz Redzioch su La Nuova bussola quotidiana informa: “Dopo il cambio del Governo, il Ministero della Cultura, guidato da Hanna Wróblewska, sta cercando di distruggere questa grande iniziativa come molte altre simili che mirano a mantenere viva la memoria del Papa polacco. Il Governo lo fa per puro interesse politico e ideologico, anche a costo di sprecare i fondi pubblici spesi finora per la costruzione di questo museo statale”. Il lettore italiano si chiederà: Hanna Wróblewska è turca o polacca? Ebbene, è certamente polacca ma, forse, della razza collaborazionista, la genìa di coloro che fecero carriera col regime comunista e anche col golpe di Jaruzelski. Non so se la Wróblewska sia parente degli assassini di padre Jerzy Popiełuszko, le belve comuniste Grzegorz Piotrowski, Leszek Pękala, Waldemar Chmielewski e Adam Petruszka, che il 19 ottobre 1984, rapirono il sacerdote.

Dopo averlo rinchiuso nel bagagliaio di un’automobile, lo torturarono e lo gettarono ancora vivo nella Vistola, dove il cadavere riaffiorò il 30 ottobre, in località Włocławek. Non so se la signora Hanna sia congiunta con quanti amnistiarono gli assassini del giovane parroco, i quali rimasero in carcere pochissimo, ma è certo che lei come molti componenti del Governo Tusk sembra voglia riportare la Polonia al dicembre 1981. Chissà? Magari l’attuale Esecutivo potrebbe affidare incarichi ben remunerati anche agli assassini di Popiełuszko. Secondo George Soros e i padroni della Ue, Tusk e le sue Wróblewska sono, tuttavia, personcine encomiabili. Chi ha memoria della storia polacca sa che, nel migliore dei casi, sono il conseguente, disgraziato frutto bacato dell’ecatombe nella foresta di Katyn, dove 22mila polacchi, l’élite della nazione, furono trucidati su ordine di Iosif Stalin e Lavrentij Berija. Rispetto all’Ue, che si coprì di vergogna, rinnegando le radici giudaico-cristiane, non v’è altro da dire se non che è la degna ruffiana degli impresentabili residuati echeggianti Jaruzelski.

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Premesso che sono allergico alla fede, limitandomi a una sola eccezione, quella di professare la religione della libertà di parola e di pensiero. Non sono, perciò, amico, né nemico delle chiese, delle sinagoghe, delle moschee, semplicemente perché non le frequento. Rispetto chi crede, come qualsiasi altra forma di umana autoconsolazione al mal di vivere. Oltre il rispetto, per ragioni politico-culturali, sono anche uno strenuo difensore delle radici giudaico-cristiane, le quali ci definiscono e ci delineano. Insomma, sono un miscredente relativo, ma tenace. Eppure, mi ha inorridito il programma di Giuseppe Brindisi sui testimoni di Geova, trattati, senza possibilità di una sola voce a favore, come mostri indegni di stare al mondo. Insomma, Giuseppe Brindisi è riuscito a demonizzare circa 250mila italiani, che non mi risulta creino problemi all’ordine pubblico e alle istituzioni. Non ricordo di testimoni di Geova che, istigati dal loro credo, abbiano occupato abusivamente abitazioni altrui, che siano adusi allo scippo, alla rapina, alle truffe, all’omicidio, alla pedofilia, allo sfruttamento della prostituzione, allo spaccio di droghe, agli atti vandalici. Durante lo scempio televisivo, ex comunisti, che hanno a suo tempo creduto con atto di fede alla provvidenzialità delle stragi leniniane e staliniane, nonché altri sapientoni, che si sentono in diritto di stabilire che quella professata dai testimoni non è una religione, hanno condannato questi credenti dipinti come trogloditi maligni, asociali, carichi di negatività.

La mancanza di una controparte agli accusatori mi ha reso simpatici i testimoni di Geova, dei quali, in verità, sino alla Zona bianca del 2 febbraio 2025, non me n’era mai fregato nulla. A che tanto strazio? A che l’allarme scatenato da Mediaset nello spazio di Giuseppe Brindisi? Perché non fare il processo a tutte le sette, le corporazioni, i clan, le consorterie, le caste chiuse presenti nel Belpaese? Codesti testimoni hanno regole e usanze tutte loro, ma sono affari loro e al loro interno si gestiscano pure come detta il loro Geova. L’unico fastidio, ma è piccola cosa, potrebbero arrecare, attaccandosi al citofono per chiederci se sappiamo da dove veniamo e dove andremo. D’altra parte, non sono i soli a proporre simili noiosi quesiti. Tanto forcaiolismo mi ha fatto scaturire un sospetto. Non è che Giuseppe Brindisi, invece di occuparsi delle vere emergenze italiane, ha raccolto i pentiti non di mafia, bensì di setta, fuorusciti dalla famiglia geovese, per allestire un processo mediatico ai credenti in Geova, per quel loro conclamato ripudio dell’omosessualità, specie quella esibita e vantata, come se ciò – contro la libertà di pensiero – configurasse il reato di vilipendio del sacro altare gaio di Lgbtqia+? Suvvia, Giuseppe Brindisi, rispettiamo davvero i diritti civili di tutti i clan, non solo quelli dei testimoni del dio Urano.


di Giancarlo Lehner