mercoledì 29 gennaio 2025
Lo “strapotere” che non abbiamo dimenticato
Ci risiamo. Non è il 22 novembre 1994. Non è quell’avviso di garanzia che colpì Silvio Berlusconi e che venne annunciato il giorno prima dal Corriere della Sera con uno scoop, proprio nei giorni in cui il Cavaliere presiedeva il G7 di Napoli. Ma è come se lo fosse. In quelle settimane si parlava della cosiddetta “inchiesta Telepiù”, condotta dalla procura di Milano e che aveva come oggetto la proprietà della pay tv e la compatibilità del ruolo di Fininvest con quanto stabilito dalla legge Mammì. Oggi abbiamo il caso Almasri. Eccola lì, la magistratura politicizzata con la sua vocazione da protagonista e quel sottile piacere di tenere il guinzaglio della politica che torna a colpire. Questa volta tocca alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ma il rumore delle rotative è lo stesso. È una storia che si ripete, come un ritornello stonato che non vuole andare via. Una toga che si fa partito. Che gioca a fare l’opposizione quando l’opposizione non basta. Non è giustizia questa. È politica vestita da giustizia che utilizza codici e fascicoli come fossero manifesti elettorali. Una deriva che fa male alla democrazia, che corrode la fiducia dei cittadini, che trasforma i tribunali in ring dove si combattono battaglie che dovrebbero appartenere ad altre arene. C’è qualcosa di profondamente distorto in questa magistratura che si sente investita di una missione salvifica. Come se la democrazia fosse un fastidio da correggere, come se il voto degli italiani fosse un errore da emendare a colpi di avvisi di garanzia (quando va bene). È la sindrome del giustizialismo messianico, quella convinzione di essere gli ultimi custodi della verità. Gli unici argini al male.
Ma chi ha dato loro questo mandato? Chi li ha nominati censori della politica italiana? La Costituzione parla di separazione dei poteri, non di supplenza giudiziaria. Parla di giustizia uguale per tutti, non di tribunali politici travestiti da aule di giustizia. Il problema non è l’indipendenza della magistratura, che va difesa come principio sacrosanto. Il problema è l’uso politico della giustizia. Questa tentazione irresistibile di alcuni magistrati di sostituirsi al Parlamento, di fare politica con la penna rossa del pm. È una degenerazione che inquina tutto: le indagini, i processi, perfino il linguaggio. Guardate le tempistiche, sempre sospette. Guardate i teoremi accusatori, sempre politicamente orientati. Guardate le fughe di notizie, sempre strategiche. È un sistema, una cultura, un modo di intendere il ruolo della magistratura come contro-potere permanente. E poi ci sono le correnti, veri e propri partiti in toga che si spartiscono il Csm come fosse una torta. Una lottizzazione che fa impallidire la Prima Repubblica, con la differenza che almeno quella aveva il mandato degli elettori. Questa è una politicizzazione senza legittimazione, un potere che si autoalimenta e si autoassolve. E, purtroppo, spesso accade che si auto replichi come le migliori intelligenze artificiali. Fine pena mai. La verità è che questa magistratura politicizzata fa male soprattutto ai magistrati veri, quelli che ogni giorno fanno il loro lavoro in silenzio, che cercano la giustizia e non i titoli dei giornali. Fa male a chi crede ancora che i tribunali debbano essere luoghi di diritto e non di battaglia politica. È tempo di cambiare. Di pretendere una riforma che rimetta ordine, che riporti la magistratura al suo ruolo naturale: garantire la giustizia, non fare politica. Una riforma che separi le carriere, che responsabilizzi chi sbaglia, che spezzi il circuito perverso delle correnti. Perché la giustizia o è imparziale o non è giustizia. O è al servizio dei cittadini o è solo un’altra forma di potere, più subdola perché si ammanta di toga. È ora di voltare pagina, prima che sia troppo tardi. Prima che la fiducia dei cittadini si perda come lacrime nella pioggia.
di Michele Di Lollo