mercoledì 29 gennaio 2025
Sassolini di Lehner
Avviso di garanzia all’Italia. Chi persegue, con buon senso e pragmatismo, l’interesse nazionale dovrà rispondere di favoreggiamento e peculato. La realpolitik fattispecie di reato è la perfetta rappresentazione della fantagiustizia e della demenzialità naviganti nella Penisola. Niccolò Machiavelli non aveva previsto che la sintesi di tutte le arti, cioè la politica, potesse diventare un volgare reato. Gli stessi Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer, fautori del primato della politica, oggi, rimarrebbero basiti davanti al primato del Codice penale e degli azzezzagarbugli. Per l’eterogenesi dei fini va osservato che, alla fine, la bizzarria degli avvisi di garanzia a Giorgia Meloni, a Carlo Nordio, a Matteo Piantedosi, ad Alfredo Mantovano si trasformerà in ulteriore consenso all’Esecutivo di centrodestra. Il Governo, infatti, ha rispedito la patata bollente al mittente, la Corte penale internazionale, quella che vuole decapitare il Governo di Israele, quella che fece scattare l’ordine di cattura per il libico solo quando mette piede in Italia, quella che un giorno sarà chiamata a rispondere dei suoi atti e misfatti. Gli italiani dovrebbero sapere che, dalla Libia, appena appreso l’arresto di Najem Osama Almasri, in un solo giorno, sono partiti verso l’Italia migliaia di migranti. Restituire Almasri ai libici è stato un atto di autentico patriottismo. Chi non lo capisce, odia l’Italia.
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Tiziana Panella, telepontificatrice della Tele Pravda de La7, non sapendo più come dispiegare la propria mania giorgiafobica, si attacca pure a Daniela Santanché, individuata come insidiosa spina nel fianco dell’Esecutivo. Premetto, per evitare equivoci, che della pitonessa non sono né amico, né congiunto, né simpatizzante. A Tiziana, sempre più nervosa, disturbata e turbata dalla troppa Meloni, tanto da incalzare gli interlocutori, alzando addirittura la voce, sovrapponendola a chi tenta di ragionare, si unisce Mario Giordano. Costui tralascia le encomiabili inchieste sulle occupazioni abusive, per precipitarsi a valanga sulla Santanché: “Altro che Pitonessa, lei è Lady Coccoina”. Ebbene, non mi garba questo Mario salito sul pulpito, facendomi, così, rimembrare una sua figuraccia. Ai tempi dell’Esecutivo Pdl, illustrai a Silvio Berlusconi che la sua riforma della giustizia combaciava, quasi pari pari, con le coraggiose posizioni dell’indimenticabile Giovanni Falcone. Silvio accolse subito il suggerimento, consegnandolo al Guardasigilli Angelino Alfano. Il nome di Falcone doveva e poteva ammutolire le opposizioni. Alfano si fece subito intervistare da Mario Giordano, allora direttore del Giornale, evocando, appunto, la nausea di Falcone verso la politicizzazione e le storture della giustizia ingiusta. L’intervista, però, ebbe l’effetto di distruggere la credibilità della riforma e dei suoi fautori, giacché nel testo spiccò una castroneria, tale da offrire a tutti gli utili idioti al servizio della casta togata la possibilità di sbertucciare come analfabeti noi del Pdl. Marcelle Padovani, la giornalista francese coautrice con Falcone, del saggio Cose di Cosa nostra, venne, infatti, mascolinizzata e rivenduta come “Marcello Padovani”. Furibondo per tanto conclamato giornalettismo suicidario scrissi sul Tempo di Roma un infuocato corsivo sui due asinelli, Alfano e Giordano. Alfano, il giorno stesso, mi fece sapere che l’asinello era Giordano e non lui, che da buon siciliano aveva letto e apprezzato il saggio di Falcone e Padovani. Quindi, Mario, che, oggi, espone alla pubblica coccoina la Santanché, fu da me iscritto nell’albo dei direttori somari, talmente sciatti da non controllare i loro stessi scritti. Alla luce di siffatto precedente, c’è da chiedersi se gli appartenenti a quell’albo siano autorizzati a sbeffeggiare chicchessia.
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Qualche anno fa, Roberto D’Agostino stazionava nell’area liberal, in perfetta sintonia con l’indimenticabile picconatore, il presidente Francesco Cossiga, che definì Mario Draghi “vile affarista, liquidatore dell’industria pubblica italiana”. Roberto, non essendo all’epoca gregario portatore di borracce di nessuno, ebbe l’ardire spiritoso di declassare Mattarella Sergio a “mummia sicula che infesta i saloni del Quirinale”. Ora, siccome Mattarella gli serve in funzione anti-Meloni, Roberto s’è trasformato in quirinalista sfegatato. Purtroppo, l’amico Mario Draghi il Colle, nonostante i sudori di D’Agostino, se lo può scordare, salvo baciare e leccare le pantofole non di Roberto, bensì di Giorgia Meloni. Un esempio di patetico mattarellismo viscerale?
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Jannik Sinner non accoglie l’invito di Sergio Mattarella, preferendo un salutare riposo alle luci del presenzialismo istituzionale. Non si tratta di sgarbo, bensì soltanto di urgente necessità di parentesi psico-fisica. Invece, scatta il pronto intervento delle volanti della polizia morale dagospiesca: “Quando il capo dello Stato chiama, si battono i tacchi e ci si presenta anche in condizioni fisiche precarie!”.
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I magistrati di lotta e di Governo impugnano la Costituzione a mo’ di clava. E quando il Guardasigilli Carlo Nordio o il sottosegretario Alfredo Mantovano si accingono a parlare, loro escono per protestare contro l’Esecutivo. Un ricordo personale basterà a farli fuggire ancora dalle loro responsabilità? Non lo so, ma, intanto, lo snocciolo, trattandosi di pura verità. Alla Corte d’appello di Bolzano richiesi un confronto tra Piercamillo Davigo e la sua segretaria, prova fondamentale per la mia difesa. Davigo e la segretaria, infatti, avevano raccontato storie diverse, anzi, contrastanti, a proposito dell’avviso di garanzia recapitato, Napoli, 21 novembre 1994, a Silvio Berlusconi, non dal pool di Milano, ma dal Corriere della Sera diretto da Paolo Mieli. Si trattò di un tentativo di colpo di Stato da parte del pool e degli utili idioti iscritti all’Ordine dei giornalisti. Ebbi il coraggio di denunciare quella vergognosa trama mediatico-giudiziaria – la fotocopia del provvedimento, digitato alle 13 e 30, alle 14 era già in via Solferino – in un volume. Fui, ovviamente, rinviato a giudizio. O Davigo, che aveva comunicato per iscritto a Francesco Saverio Borrelli la sua versione oppure la sua segretaria, che raccontò il fatto in aula, uno dei due aveva mentito per la gola. Chi era il bugiardo o perché aveva mentito? Il confronto all’americana fra i due, che mi avrebbe salvato dalla condanna, fu negato. La verità, essendo comunque scomoda, non si doveva appurare. Io venni condannato al pagamento di una cifra mostruosa, qualcosa come 250mila euro, compreso il risarcimento a Borrelli, ammalatosi di nefrite a causa di una mia diabolica parolina: “Sinergia”. Spiegai che “sinergia” non è sinonimo di “complotto”, ma nella stagione della barbarie manipulitista la semantica era liberamente interpretabile. Insomma, di “sinergia” allora si poteva morire. Uno dei tre magistrati non condivise la condanna, raro esempio di togato perbene ed equo, anzi, se ne vergognò. Chissà se i miei condannatori hanno impugnato anch’essi la Costituzione?
di Giancarlo Lehner