America is back: il ritorno di Trump alla Casa Bianca

martedì 21 gennaio 2025


“It’s morning again in America”. Il celebre slogan utilizzato durante la seconda campagna di Ronald Reagan è un inno alla speranza che evoca la rinascita degli Stati Uniti e celebra l’incommensurabile talento del popolo americano. Quale frase migliore per descrivere lo spirito della sessantesima inaugurazione presidenziale? Il sole di ieri mattina, più luminoso di un sorriso reaganiano, ha fatto brillare la cupola del Campidoglio purificando la sua austera sagoma neoclassica. È come se i raggi avessero voluto benedire il debutto trionfale di Donald Trump. La luce ha sconfitto messianicamente le tenebre e ha rischiarato gli edifici governativi che hanno tradito senza ritegno i principi della Costituzione. Ma l’apparente clemenza del cielo non deve trarre in inganno: le forti raffiche di vento e le temperature gelide hanno impedito il consueto svolgimento della cerimonia di fronte a Capitol Hill. E qui ricorre un’altra, curiosa analogia tra Il Grande Comunicatore e The Donald. Complici le condizioni meteo sfavorevoli, il giuramento del commander-in-chief ha avuto luogo al chiuso per la prima volta in quarant’anni, proprio come il 20 gennaio 1985.

A Washington si è respirata un’aria diversa dal solito. Nessun cenno di tensione tra i repubblicani esultanti e i democratici under the blue che, anzi, si distinguevano per la compostezza e i modi garbati – in barba allo spauracchio del “pericolo per la democrazia” che hanno agitato per mesi, demonizzando il loro avversario e trattandolo alla stregua di un dittatore wannabe. Anche i padroni della Silicon Valley, apertamente ostili al Tycoon in passato, hanno preso parte alla cerimonia d’insediamento del 45° (ora 47°) Presidente e sembravano quasi compiacersi del suo ritorno alla Casa Bianca. Il tempo ricompone le antiche fratture e crea delle simpatie inedite, non c’è che dire. A differenza di otto anni fa, quando la prima inaugurazione del leader del Gop fu segnata da un’atmosfera caustica, stavolta è prevalso un clima disteso, un senso di tranquillità abbastanza anomalo.

I toni del discorso inaugurale, però, sono stati tutto meno che concilianti. Non si è trattato del solito sfoggio di retorica che fa sbadigliare dopo cinque minuti. Trump ha inflitto una lezione mortificante all’establishment politico, all’internazionale globalista e ai circuiti dell’informazione a senso unico rivolgendosi direttamente ai responsabili del declino americano: il duo Obama-Biden. Ha esordito così: “L’età d’oro dell’America inizia proprio ora. Da questo giorno in avanti, il nostro Paese fiorirà di nuovo e sarà rispettato in tutto il mondo. Saremo l’invidia di ogni nazione e non permetteremo più a nessuno di approfittarsi di noi”. Nelle righe successive riemerge la metafora della luce tanto cara a Reagan: “Un’ondata di cambiamento sta spazzando il Paese, la luce del sole sta tornando in tutto il mondo e l’America deve approfittare di questa opportunità. Le sfide che l’America ha di fronte sono enormi e, come ha giustamente sottolineato Trump, la gente non si fida di un governo che ha lasciato da sole le vittime delle catastrofi in Carolina del Nord e a Los Angeles, che non protegge i confini nazionali o gli stessi cittadini americani.

Trump ha dipinto un’America che torna a rialzare la testa, che crede in un futuro migliore ed è consapevole del suo ruolo di superpotenza mondiale. Un’America di nuovo fiera delle sue radici, che tuteli il free speech e che ripristini l’integrità, la competenza e la lealtà delle istituzioni. Un’America che sappia premiare i meritevoli a prescindere dalla loro etnia, abbandonando una volta per tutte i programmi di impianto neomarxista come la DEI (Diversity, Equity, Inclusion), le derive woke e le politiche di social engineering che hanno contribuito a diffondere l’odio contro la civiltà occidentale. Un messaggio incontrovertibile pronunciato in occasione del Martin Luther King’s Day. “Mi impegnerò a rendere il suo sogno una realtà”, dichiara solennemente Trump, accompagnato da una standing ovation.

Addio al Green New Deal e alle eco-follie di ogni sorta: “Revocheremo il mandato sui veicoli elettrici, salvando la nostra industria automobilistica e mantenendo la mia promessa sacra ai grandi operai dell’automobile americani. In altre parole, potrete acquistare l’auto di vostra scelta”. Altrettanto significativa la postura del neopresidente in politica estera. Trump ha affermato di voler passare alla storia come un pacificatore ma, per garantire la pace, sostiene che sia necessario usare la forza. America First diventa così sinonimo di peace through strenght, nel solco della tradizione jacksoniana. Il Tycoon ha ribadito l’importanza di un approccio pragmatico e di un uso consapevole della deterrenza per annientare i nemici del mondo libero, difendendo gli interessi nazionali statunitensi. Arriva qui l’affondo su Panama e un avvertimento a Pechino: “La Cina sta operando il canale di Panama. Non l’abbiamo restituito alla Cina ma a Panama. Ecco perché ce lo riprenderemo.”

Nel pomeriggio Trump ha firmato una raffica di ordini esecutivi, molti dei quali cancellano i provvedimenti chiave della stagione bideniana sancendo un netto cambio di direzione. È stato dichiarato lo stato di emergenza al confine meridionale con il Messico; è stata abrogata la concessione automatica della cittadinanza americana ai figli degli immigrati irregolari; le gang criminali e i cartelli del narcotraffico sono ora designati come organizzazioni terroristiche straniere, secondo quanto previsto dall’Alien and Sedition Act del 1798; è stato confermato l’incremento dei dazi doganali a Canada e Messico; è ufficiale l’uscita dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità e il recesso dagli Accordi di Parigi sul clima. Mentre Trump ratificava i primi decreti della sua presidenza, ha aperto accidentalmente il cassetto della scrivania dell’Oval Office e vi ha trovato una lettera del predecessore Joe Biden indirizzata a lui. “La leggerò da solo, poi vi dirò cosa c’è scritto”. L’ultima testimonianza di quattro anni infelici confinata in uno scrittoio, mentre Trump prova a risollevare gli Stati Uniti. It’s morning again in America.


di Lorenzo Cianti