venerdì 10 gennaio 2025
Avremmo dovuto capirlo da tempo che Donald Trump, quando parla, dice cose serie. E quando minaccia, non c’è da prenderlo sottogamba. Perché lui, al contrario di come lo dipingono gli spocchiosi progressisti di entrambe le sponde dell’Atlantico, è uno che vede lontano. Perciò, se in pubblico dichiara di volersi prendere la Groenlandia, attenzione a trattarlo da pazzo, perché pazzo non è. Piuttosto, bisognerebbe fare uno sforzo di comprensione per comprendere i motivi (fondati) di una tale pretesa, ancorché minacciosa.
Perché la Groenlandia? Perché adesso? A guardarla oggi è solo un’immensa distesa di ghiaccio. Allora, perché accanirsi a volerla annettere agli Stati Uniti d’America? Noi italiani, di occasioni fiutate ma non coraggiosamente esplorate come avremmo dovuto ne sappiamo qualcosa. Più di un secolo fa mettemmo piede in Libia pensando che fosse un inutile “scatolone di sabbia” (la definizione è di Gaetano Salvemini che, nel 2011, criticava le ragioni della guerra italo-turca). Poi, ci siamo accorti troppo tardi quale prezioso scrigno fosse dal punto di vista minerario.
Trump, per sua fortuna, questo problema di sottovalutazione non lo ha: ha capito benissimo quale ruolo strategico possa svolgere in futuro quell’enorme deserto bianco e per questo intende muoversi per tempo prima che lo facciano altri competitori globali. Di cosa parliamo?
La Groenlandia è un’isola tra il nord dell’Atlantico e il Mar Glaciale Artico, la più grande al mondo. La sua estensione, di 2.166.086 km², corre per 2.670 km da nord a sud e per più di 1.050 km da est a ovest; due terzi di essa si trova all’interno del Circolo Polare Artico con l’estremità settentrionale dell’isola che si estende fino a meno di 800 km dal Polo Nord. Attualmente, la sua superficie è coperta dai ghiacci per l’81 per cento. La popolazione annovera circa 56mila abitanti.
Da colonia danese, dal 1953 è divenuta una provincia del Regno di Danimarca. Con l’entrata in vigore della Legge sull’autogoverno della Groenlandia il 21 giugno 2009, l’isola si è dotata di un’amministrazione autonoma rispetto al governo centrale di Copenaghen.
La terra degli Inuit stimola gli appetiti delle principali potenze globali per ciò che offre il sottosuolo e per la posizione strategica che l’isola avrebbe in previsione della mutazione climatica. Nel 2023, un rapporto del Geological Survey of Denmark and Greenland (Geus) ha stimato la presenza sotto i ghiacci dell’isola di 6 milioni di tonnellate di risorse naturali di grafite; 36,1 milioni di tonnellate di terre rare; 235 migliaia di tonnellate di litio e 106 migliaia di tonnellate di rame; oltre ai metalli delle terre rare, niobio, metalli del gruppo del platino, molibdeno, tantalio e titanio, oro. E gas e petrolio. Bacini minerari il cui sfruttamento andrebbe messo a regime se non fosse per gli alti costi di estrazione e di trasporto che solo grandi potenze economiche potrebbero sostenere. Tuttavia, in un tempo di progressivo esaurimento delle fonti di energia non rinnovabile, mettere le mani su quel “pozzo di san Patrizio” che promette di essere la Groenlandia sarà l’affare del millennio che i player globali vorranno contendersi anche a dispetto dei quasi 6milioni di simpatici danesi i quali, dal ventre grasso della vecchia Europa, si consentono il lusso di fare i green più green degli altri a spese degli interessi economici e patrimoniali dei groenlandesi.
La Cina ha posto la Groenlandia sotto la lente d’ingrandimento del proprio Ministero delle risorse minerarie per una scommessa di mercato che intende giocare fino in fondo. Inizialmente, i target di maggiore interesse degli investitori cinesi hanno riguardato la miniera di ferro di Isua sul versante est e il giacimento di terre rare di Kvanefjeld nell’estremo sud groenlandese. In particolare, il sito minerario di Isua – 150 chilometri a nord-ovest della capitale Nuuk – il cui sfruttamento è legato alla ripresa della domanda di produzione dell’acciaio. La licenza per i diritti sul bacino minerario, concessa nel 2013 dal Governo groenlandese alla britannica London mining, è passata nel 2014 alla General Nice Development Ltd, una grande società di investimento nel commercio di materie prime, costituita a Hong Kong nel 1992 e con sede a Tianjin, in Cina. La politica della General Nice Developement, illustrata nel 2019 dall’allora suo presidente Cai Suixin, mirava a coinvolgere il Fondo di sviluppo nordico (Ndf) per promuovere lo sviluppo a lungo termine della regione. Ma c’è di più. E c’entra il cambiamento climatico.
Lo scioglimento della calotta polare se, da un lato, è una sciagura, per un altro verso rappresenta un’enorme opportunità. La fruibilità della navigazione commerciale alle latitudini del Circolo polare artico accorcerebbe drasticamente il tempo di trasferimento delle merci da est a ovest rendendo, di fatto, obsolete le rotte marittime tradizionali finora utilizzate. Non è un caso che proprio il gigante cinese abbia ampliato i propri investimenti nell’isola indirizzandole allo sviluppo infrastrutturale. L’Unione europea non ha brillato per velocità nella corsa alla creazione di partenariati strategici con la Groenlandia. Solo il 30 novembre 2023 è stato firmato il Memorandum d’intesa tra l’Ue e il governo della Groenlandia in ordine a un partenariato strategico per lo sviluppo di catene del valore sostenibili per le materie prime.
Il 15 marzo 2024, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha inaugurato nella capitale Nuuk l’apertura dell’ufficio dell’Ue. Sono stati siglati due accordi di cooperazione del valore di 94milioni di euro, attinti dal pacchetto di 225 milioni di euro stanziati dalla Ue e di cui la Groenlandia beneficia per il periodo 2021-2027 a sostegno dei settori dello sviluppo sostenibile, dell’istruzione e della crescita verde.
Nella gara al miglior offerente, Donald Trump entra con la stessa grazia dell’elefante nella cristalliera mettendo sul piatto tutta la forza dell’economia statunitense e del suo apparato bellico. È di tutta evidenza che Trump non dichiarerà guerra alla Danimarca per prendersi la Groenlandia. Tuttavia, aver alzato l’asticella della discussione sulla sorte dell’isola lascia intendere la volontà del nuovo inquilino della Casa Bianca di giungere a un accordo forte di cooperazione militare tra Usa e Groenlandia che, per ragioni di sicurezza nazionale, ceda a Washington il pieno controllo di una delle porte d’accesso al sub-continente nordamericano e di partenariato commerciale che dia mano libera alle imprese a stelle e strisce nello sfruttamento delle ricchezze minerarie della vicina isola, un tempo meta di vichinghi, per sostenere la crescita dell’apparato industriale Usa. Dovremmo dolerci per questo? Piuttosto, parafrasando J.F. Kennedy, dovremmo chiederci – noi europei – non cosa Trump voglia fare per la sua nazione ma cosa noi siamo disposti a fare per la nostra Europa. La lucida “follia” dell’improbabile Trump “boots on the ground” ci ricorda una verità scolpita nelle granitiche pagine della storia da Winston Churchill, per il quale le nazioni non hanno amici ma solo interessi. Bentornato sano pragmatismo!
di Cristofaro Sola