venerdì 6 dicembre 2024
Ciò che sta accadendo in Francia, con la caduta del Governo Barnier e lo stallo istituzionale che si prefigura, è solo l’assaggio di quel che vedremo a breve in Germania e, a ruota, in Spagna. Siamo al cospetto di una crisi a tutte le latitudini della democrazia nel suo assetto liberale che, da europei, deve preoccuparci. Pe quanto le policies dell’Unione europea generino sovente un tale sentimento di diffidenza da renderla indesiderabile, l’interconnessione tra le società vivili che compongono la comunità degli europei esiste ed è sostanziale. Ragione per la quale, ciò che accade oltre i confini nazionali non può lasciarci indifferenti. Il problema non è congiunturale ma strutturale e investe il processo di graduale ma costante indebolimento della democrazia liberale-rappresentativa su scala nazionale. Una crisi sistemica in fieri che aggredisce la natura stessa della Rule of law, da tempo vulnerata dagli esiti penalizzanti della globalizzazione. La delusione crescente dei cittadini verso la propria condizione di vita, che produce l’acuirsi di atteggiamenti di scetticismo, di apatia, di antipolitica, non è più una variabile ma è una costante della paralisi democratica.
La mancata integrazione europea dei popoli, osteggiata dalle politiche velleitarie e subdolamente dirigiste delle élite comunitarie, certifica plasticamente la teoria di Ralf Dahrendorf riguardo all’inesistenza di un demos europeo portatore di un idem sentire economico-sociale, sul quale cementare un’idea di sovranità condivisa. È fin troppo facile prendersela con i populismi e i sovranismi spuntati come funghi in giro per l’Europa. È drammaticamente sbagliato scambiare i sintomi con le cause della malattia. Per essere chiari: il mondo della democrazia liberale-rappresentativa sta precipitando non perché vi sia l’antipolitica. Semmai, è l’antipolitica a essere nutrita dalla crisi della democrazia liberale-rappresentativa. In questi decenni di ubriacatura globalista non si è prestata adeguata attenzione al processo di scollamento tra le classi dirigenti e le popolazioni, che la centralità di un’entità sovraordinata ai singoli Stati nazionali ha illusoriamente alimentato. Si è pensato che la concentrazione del potere decisionale nelle mani di élite autoreferenziali e il contestuale svuotamento delle dinamiche democratiche potessero costituire le pietre angolari di una nuova architettura comunitaria.
Si è valutato che l’inasprimento della polarizzazione sociale e l’aumento delle diseguaglianze, i cui effetti sono misurabili in termini di aumento diffuso della precarietà, dell’incertezza e della vulnerabilità, non dovessero incidere sui destini delle democrazie liberali. Si è consentito che la politica si consegnasse a una posizione di subalternità alla grande finanza e alle imprese transnazionali dell’hi-tech. Si è pervicacemente operato per distanziare il potere dei decisori dalla sovranità, badando di relegare quest’ultima a svolgere una funzione di mera ratificazione delle scelte strategiche assunte in contesti del tutto sottratti alla giurisdizione popolare. Allora perché meravigliarsi di un’Europa diventata una bomba a orologeria? Non si arriva a danzare sul ciglio del burrone se qualcuno non ti ci porta su quel ciglio. Un esempio, per intenderci.
La governance comunitaria, a Bruxelles, si ostina a proseguire sulla linea di marcia serrata verso la transizione ecologica. Peccato che questa mandi in frantumi interi apparati industriali nazionali e, a cascata, produca disoccupazione diffusa soprattutto tra le fasce più deboli delle società colpite. Eppure, quando una linea strategica è destinata a produrre nel breve termine effetti sulla coesione sociale visibilmente distruttivi, chi l’ha promossa e implementata dovrebbe quanto meno preoccuparsi di illustrare modalità, tempi ed esiti attesi dalla trasformazione del modello sociale. Il punto è che nessuno dei responsabili della mutazione traumatica della vocazione produttiva europea abbia mai detto qualcosa che andasse oltre la riproposizione elementare e poco credibile di un laconico: lo facciamo per la salute del pianeta. A differenza di ciò che è consentito sul piano filosofico, nella prassi quotidiana della gente comune il dilemma esistenziale del “meglio l’uovo oggi che la gallina domani?”, si risolverà sempre a favore del primo.
Ed è proprio la gente che non ha più la disponibilità dell’uovo quotidiano – che si sente tradita da quei fabbricanti di illusioni che le hanno promesso la gallina domani senza tuttavia precisare quando sarebbe giunto il domani e, soprattutto, come e di quale peso sarebbe stata la gallina – a reagire, dando corpo al populismo disgregatore del sistema, al punto da considerare preferibile l’alternativa della democrazia appiattita sulla sua dimensione plebiscitaria. Il rifluire nel modello alternativo alla democrazia liberale rappresentativa, che l’applicazione del populismo alla realtà garantirebbe, non può essere arginato ricorrendo alla demonizzazione del fenomeno perché le opinioni pubbliche in numeri crescenti prendono sempre più coscienza dell’esistenza del conflitto con le élite che sono la controparte nella lotta per l’egemonia. C’è chi ha individuato l’esistenza dell’inedito scontro tra “élite che stanno diventano progressivamente più diffidenti verso la democrazia, e pubblici arrabbiati che stanno diventando sempre più anti-liberali” (Krastev, 2007). Ciò deve indurre a una seria e approfondita riflessione sul da farsi. Perciò, prima di imbarcarsi in pericolose fughe in avanti alla ricerca di fantasiosi modelli a tonalità liberal per incardinare in Europa una democrazia postmoderna, occorrerebbe soffermarsi sulla necessità d’interrogare massicciamente non le solite élite ma la gente comune su cosa pensi che sia la democrazia, su cosa speri quando la invoca, su quali elementi costitutivi indefettibili ritiene debba basarsi. E bisognerebbe anche chiedere all’opinione pubblica quale grado d’intensità intenda riconoscere alla rappresentanza politica esercitata attraverso la mediazione delle organizzazioni partitiche.
Finora queste sono state considerate domande-tabù, dogmi laici di cui sarebbe stato impossibile disfarsi. Ma oggi, con un’Europa che assiste impotente all’involversi dello scenario internazionale; con una pandemia debellata con difficoltà e che ha lasciato il segno nella vita delle famiglie e delle comunità; con due guerre in atto alle sue porte; con l’emersione ostile di nuovi attori forti sulla scena globale; con una rinnovata leadership statunitense intenzionata a non porre l’alleanza organica con il Vecchio Continente in cima alla scala delle priorità dell’azione politica; con i principali Stati membri dell’Unione a progressivo rischio di paralisi dei propri assetti istituzionali interni, che altro si potrebbe fare se non guardare in faccia la realtà e ammettere di aver imboccato la strada sbagliata per l’unità politica degli europei? C’è da riallineare sviluppo economico, libertà politica e coesione sociale. E un tale obiettivo non può neppure sfiorato se non si mettono in discussione le logiche della globalizzazione, della finanziarizzazione dell’economia in danno della manifattura e del “mercatismo” senza regole.
Nella contrapposizione esistenziale tra benessere delle comunità e profitto, è giunto il momento di guardare alla sostenibilità del primo invece di consegnarsi inermi all’incontrastata primazia del secondo. Ciò significa rinnegare il liberalismo e la sua intima connessione con l’impianto democratico della società? Tutt’altro. Si tratta di sanare la frattura determinatasi tra potere decisionale e sovranità, restituendo quest’ultima al popolo, seppur condizionandone l’esercizio all’interno di una dinamica di democrazia rappresentativa. Si deve tornare a una sorta di “sovranità decidente”, espressione effettiva della volontà popolare. Secondo una visione deterministica della società e della storia, l’umanità è destinata a ricostituire i suoi equilibri dopo un periodo più o meno lungo di destabilizzazione. Lo fa in due modi possibili: con le buone o con le cattive. Che vuol dire? Tutte le componenti di una comunità partecipano armonicamente a ripristinare le corrette dinamiche democratiche, propedeutiche all’individuazione dei decisori. Il modo pacifico. Diversamente, quando le componenti privilegiate di un determinato contesto comunitario si arroccano nella difesa a oltranza dei loro privilegi e nell’esercizio esclusivo e non condiviso della decisione, interviene un evento traumatico di rottura, che fa saltare il sistema. La maggioranza dei popoli europei sta facendo sentire la sua voce, che è un grido di dolore. La ascoltiamo quella voce o preferiamo mettere la testa sotto la sabbia e attendere che il mondo ci crolli addosso?
di Cristofaro Sola