Cinque Stelle cadenti

martedì 26 novembre 2024


È finita davvero. Dopo anni che è stata annunciata, talvolta fortemente desiderata dai suoi oppositori, è giunta al capolinea la stagione populista del Movimento 5 stelle di Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo. Il fatto che il de profundis in suffragio di un’esperienza morta sia stato salmodiato da Giuseppe Conte in una specie di psicodramma a sfondo edipico – l’Assemblea costituente del M5s svoltasi a Roma lo scorso fine settimana – non toglie né aggiunge granché alla dimensione storica dell’evento. Già, perché comunque la si pensi sul comico genovese, che si fece profeta, e sui suoi adepti, pescati per casting dalle pieghe marginali della società civile, il Movimento 5 stelle ha scritto una pagina di storia che resterà. Per quanto si fosse parlato male di loro – e non senza buone ragioni – un debito di riconoscenza l’Italia odierna con i grillini lo ha. È vero, la storia non si fa con i “se”. Purtuttavia, dovremmo con onestà domandarci: cosa sarebbe stato del nostro Paese tra il 2011 e il 2013 senza la “variante grillina”?

Quando, defenestrato il legittimo Governo Berlusconi per mano di forze non propriamente trasparenti, venne imposto dai centri di potere nazionali ed esteri il Governo “commissariale” di Mario Monti, perché somministrasse agli italiani una cura da lacrime e sangue sulla falsariga di quella dettata alla Grecia dalla Commissione europea, con il concorso della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale. Si è sfiorata la tragedia della ribellione popolare. Se non finì con i morti per le strade – anche se non fu magra la contabilità degli imprenditori suicidi per gli insostenibili oneri imposti da uno Stato fattosi Leviatano – fu anche merito di quel movimento populista-qualunquista che conquistò l’attenzione delle piazze e, in qualche misura, riuscì a canalizzarne la protesta nell’alveo della dialettica democratica. Il fatto ancor più sorprendente è che quell’improvvisa – e per molti versi insospettata – capacità di aggregazione del consenso avvenne non soltanto sull’onda di una rabbia diffusa ma anche sulla geniale intuizione – che fu principalmente di Gianroberto Casaleggio – d’inventarsi dal nulla una cultura politica che offrisse agli sconfitti della globalizzazione imperante una visione alternativa di futuro nella quale tutte le caselle – dalla più equa redistribuzione della ricchezza, alla moralità pubblica, alla disintermediazione dei corpi intermedi della società, alla partecipazione della cittadinanza al Governo della complessità dell’organizzazione statuale, alla sconfitta della corruzione nell’esercizio della funzione pubblica, alla conversione green degli apparati produttivi – sarebbero andate quasi magicamente al loro posto. Non che fosse una novità assoluta.

Il nuovo populismo dei 5 stelle era tributario dell’esperienza dei movimenti qualunquisti, in particolare di quello italiano legato alla figura e all’opera di Guglielmo Giannini in auge sulla scena politica nazionale a cavallo tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta del secolo scorso. Se il populismo salviniano della Lega 2.0, che grande successo ha riscosso nel corso del decennio passato, segnava un più intenso legame di parentela con il Poujadismo di Pierre Poujade e della sua L'Union de défense des commerçants et artisans (Udca), attivo nella Francia prossima al collasso della Quarta Repubblica, il qualunquismo grillino mutuava dal suo precursore storico – il Fronte dell’uomo qualunque – l’idea forte di sostituzione concettuale di “popolo”, che nel Novecento delle torsioni autoritarie dei sistemi democratici aveva assunto una connotazione negativa, con quello di “folla”. Nell’immaginario grillino, quest’ultima, offre una percezione positiva; è autosufficiente e non abbisogna di padroni o di capi che la educhino o la dirigano come si fa con un gregge.

La folla è dotata di buonsenso in misura tale da poter accedere a forme di autogoverno con l’ausilio della tecnologia che ne facili l’esercizio: è l’esaltazione del “uno-vale-uno”. Il diverso organicismo a cui si appella la visione pentastellata trova il suo snodo nella centralità del progresso delle nuove tecnologie della comunicazione e del web nella regolazione e definizione delle relazioni interpersonali e intracomunitarie. Differentemente dal populismo leghista, che si cementa nella militanza fiscale dei bottegai in un legame carnale, prepolitico, all’identità territoriale. Cos’è il “Vaffa!” di Beppe Grillo se non “l’Abbasso tutti!”, grido di battaglia del Fronte dell’Uomo qualunque? La contrapposizione tra “Folla” ed élite non è declinata dai 5 stelle in chiave esclusivamente politica ma investe anche il versante morale. È come se la coppia assiologica “Piazza/Palazzo” divenisse nel tempo storico vissuto la versione plastica visibile, immediatamente percepibile di quella “Virtù/Vizio”. Anche la dinamica all’interno dell’istituto della rappresenta politica, cardine della filosofia liberale della democrazia parlamentare, viene riscritta in termini che riconducono al Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau – superamento involutivo del pactum societatis di fonte giusnaturalistica – e al giacobinismo, per l’evidente scopo di ridimensionare sensibilmente il peso dei corpi intermedi nei processi di intermediazione sociale.

Deputati e senatori 5 stelle diventano “portavoce” dei cittadini. Il sistema mediatico viene individuato come nemico e internato idealmente nell’universo concentrazionario della “casta”, insieme ai maneggi dei professionisti della politica, alle trame dei grand commis di Stato, al burocratismo criptico dei mandarini della Pubblica amministrazione e agli interessi diabolici dei potentati che occupano i salotti buoni della società e le stanze del potere. L’Unione europea è vista dai grillini come la causa prima di tutti i mali e perciò strenuamente combattuta. Il populismo-qualunquismo pentastellato vuole sfidare e abbattere un totem dell’Occidente democratico: la polarizzazione della politica tra destra e sinistra. I 5 stelle vagheggiano una “Terza via”, che non è sintesi e neppure superamento della dialettica in essere tra i due blocchi tradizionali della cultura politica, ma si pone come fattore di totale rottura degli schemi, in grado di traghettare la società governata dalla “Folla” in una nuova dimensione, altra rispetto al passato dichiarato “vox populi” decaduto. Per quanto potesse essere sgradito ai palati fini della tradizione democratica declinata nella forma partitica, gli “scappati di casa” – come sono stati spesso ingenerosamente definiti i grillini – hanno conquistato alle Politiche per la Camera dei deputati nel 2013 8.691.406 voti (25,56 per cento) e, nel 2018, 10.732.066 consensi (32,68 per cento).

Un capitale elettorale enorme che, nel volgere di quattro anni, hanno dilapidato al punto da calare alle Politiche del 2022 a 4.335.494 voti (15,53 per cento). Molte le cause – esogene e endogene – del fallimento di un’offerta politica che era prima di tutto una visione. L’esito inevitabile è stato la fine di una storia. Ciò che resta nelle mani di Giuseppe Conte è un guscio vuoto che conta di sopravvivere per forza d’inerzia, accettando di consegnarsi a un futuro ancillare al servizio del Partito democratico. Il problema, però, che ci restituisce il miserevole tramonto pentastellato, con il suo indesiderabile corredo di liti giudiziarie e di carte bollate sulla proprietà di un brand che non attrae più sul mercato elettorale, è che la sua fine non certifica affatto l’estinzione della domanda anti-sistema, che è stata alla base del successo di tutte le avventure populiste inveratesi sulla scena politica italiana dalla fine della Prima Repubblica. L’esplosione del dato dell’astensione nelle recenti elezioni regionali è l’indicatore di un malcontento sociale che resiste all’interno delle aree disagiate del tessuto civile italiano.

Oggi c’è chi, sui media, si domanda, con il fastidio tipico dell’intellettuale snob, se dopo esserci liberati di Beppe Grillo e dopo aver tarpato le ali della popolarità al Matteo Salvini sovranista, dovremo attendere la comparsa all’orizzonte politico di un nuovo masaniello, cioè di un capopopolo in grado di raccogliere un gran numero di consensi destinati ad annichilire in un’impossibile Opa ostile al potere della normalizzazione che, come dimostrano gli accadimenti in Europa degli ultimi decenni, è destinato a vincere sempre e comunque. È una risposta difficile da dare, dal momento che è dimostrato con certezza incontrovertibile il postulato secondo il quale a muovere la mobilità dell’elettorato nella stagione post-ideologica sia la pulsione emotiva che soltanto in seconda istanza trova una razionalizzazione, quando la trova. Quindi, morto (politicamente) un Beppe se ne fa un altro? Possibile. Quel che è sicuro è che il nuovo populista non fraternizzerà con Giuseppe Conte; che non si metterà con i nuovi 5 stelle, percependoli come morti che camminano; non si dirà progressista per necessità; sarà testardamente velleitario. E pur confusionario, incuterà timor panico negli avversari. Proverà, invece, a regolare il proprio tempo sperando di ritrovarsi in quota maggioritaria, pronto a cambiare le regole del gioco nell’attimo nel quale, anche se da orologio rotto in partenza, prima o poi, inevitabilmente segnerà l’ora esatta.


di Cristofaro Sola