martedì 1 ottobre 2024
In mancanza di una vera opposizione politica che non si limiti ad aggrapparsi alle gonnelle di Maria Rosaria Boccia cercando di ottenere improbabili vantaggi su di un elettorato ormai indifferente a simili storielle, la vera opposizione oggi in Italia la fanno i giornali e i giornalisti. Pare davvero impressionante constatare come, per esempio su La7, siano tutti – ma proprio tutti, senza eccezione alcuna – di sinistra. Ma come è possibile che una percentuale del 100 per cento sia tutta – ed entusiasticamente – dello stesso orientamento politico? Che facciano degli esami preliminari di ammissione allo scopo di assumere soltanto chi la pensa come loro? Oppure forse l’assunzione è subordinata al possesso di una tessera di partito (Ds, M5s, Sinistra italiana, eccetera)?
Comunque sia, rimane il dato strabiliante: una uniformità ideologica assoluta ed inossidabile che tuttavia potrebbe alla lunga risultare perfino noiosa, perché ci si annoia a discutere con coloro che pensano sempre le stesse cose. Evidentemente loro non si annoiano. Affermo qui che la vera opposizione la fanno i giornalisti, per il semplice motivo che basta constatare quale sia il loro comportamento in studio nel corso di uno dei tanti programmi – ormai da tempo inflazionati – di approfondimento politico, per averne dimostrazione oltre ogni dubbio. Aggiungo che poi molti conduttori hanno preso il deprecabile vezzo di invitarsi fra di loro nelle rispettive trasmissioni, con effetti che a volte sono perfino comici e che tuttavia la dicono lunga circa l’accoglienza riservata ai rivali politici che la pensino in modo opposto o diverso: uno dei posti disponibili per gli ospiti è già occupato da uno di loro e tanto basta.
Così Lilli Gruber invita David Parenzo; Parenzo invita Luca Telese; Telese invita la Gruber; e infine tutti appassionatamente invitano Corrado Formigli, il quale, a sua volta, sentendosi in obbligo di ricambiare gli inviti ricevuti, per buona educazione, contro-invita ciascuno di loro e alla fine anche Tiziana Panella, altrimenti si offende. Poi il valzer ricomincia da capo. Ma questo è il meno. L’aspetto davvero preoccupante sta nel fatto che il conduttore – chiunque sia fra quelli sopra menzionati – si lascia cogliere come il vero e più agguerrito contraddittore del politico (o del giornalista) chiamato a rappresentare la maggioranza di governo: e così lo rintuzza, lo incalza, in altre parole spodesta il politico di sinistra che era stato chiamato a svolgere quel ruolo ed invece lo assume lui in prima persona.
Sicché uno si domanda chi sia il politico di sinistra – a volte comicamente emarginato dal conduttore medesimo – e chi invece il giornalista: perché questo assume in punto di fatto un ruolo vistosamente politico, mettendo fra parentesi il compito informativo che gli sarebbe proprio. Questo ruolo informativo a vantaggio dell’opinione pubblica viene peraltro sistematicamente abbandonato da coloro che incarnano il celebre giornalismo d’inchiesta, il cui più fulgido esempio viene in Italia incarnato dal Fatto Quotidiano. Per carità, ben vengano le inchieste giornalistiche, le quali storicamente hanno a volte contribuito ad favorire squarci di luce ove regnava soltanto il buio, giungendo perfino a rovesciare verità accertate in sede giudiziale: basti pensare – una per tutte – al celebre caso di Émile Zola che salva l’innocente Dreyfus da una condanna infamante che lo avrebbe condotto alla morte.
Tuttavia, bisognerebbe ricordare al Fatto e a tutti gli altri giornalisti d’inchiesta alcuni elementari principi, dimenticando i quali, l’inchiesta si trasforma in una sorta di inquisizione, azzerando o quasi i diritti dei malcapitati che vi siano incappati. Un caso recentissimo è quello che ha come protagonista Vittorio Sgarbi, che presumo, per carattere, per intelligenza e per sua propria qualità umana, non molto gradito ai giornalisti inchiestaioli del Fatto. Ebbene, per mesi interi, giorno per giorno – senza saltarne uno – il Fatto ha dedicato la prima pagina o diverse paginate interne richiamate in prima, alle vicende che hanno visto Sgarbi indotto alle dimissioni da sottosegretario per una delibera dell’Antitrust e poi accusato di alcuni reati dalla Procura di Macerata.
Un martellamento continuo, senza pause, senza requie e a tal segno compulsivo da giungere – nella furia inquisitoriale invero incompatibile con l’attività giornalistica - ad imputare al noto critico anche reati (il furto o il depistaggio) per i quali nessuno aveva mai pensato di accusarlo. Senonché, pochi giorni fa, una notizia deve aver completamente sconvolto i giornalisti del Fatto e cioè che il Gip di Roma, davanti al quale la Procura lo accusava di frode fiscale, ha prosciolto Sgarbi e per giunta con la formula più ampia, secondo la quale il fatto (quello di cui egli era accusato ovviamente e non il quotidiano) non sussiste.
E deve averli sconvolti al punto da far perdere loro letteralmente la testa, forse perché essi sono in cuor loro convinti – non si sa bene per quale sorta di incantesimo – che Sgarbi non possa essere assolto: mai, in nessun caso e per qualunque reato gli sia imputato. Egli, per il Fatto, è sempre costitutivamente colpevole e perciò da condannare. Sicché, non potendo – per ragioni di pura decenza – occultare la notizia dell’assoluzione, cosa han pensato di fare i nostri bravi giornalisti-inquisitori? Semplice: hanno relegato la notizia a pagina nove e – come si usa dire in gergo giornalistico – in “taglio basso”, in modo da renderla assai poco visibile, se non per un lettore molto attento e solito a leggere tutte le pagine di un quotidiano da cima a fondo: cosa che fanno non più del 10 per cento dei lettori.
Tuttavia, ciò non poteva bastare per appagare la propria coscienza inchiestaiola e così han titolato l’articolo in modo assai furbo, vale a dire a tal segno ambiguo da indurre il lettore medio a concludere che, più che essere stato assolto con formula piena che più piena non si può, Sgarbi sia riuscito a “farla franca” per l’ennesima volta, con l’ausilio di avvocati ben pagati e forse di giudici compiacenti. Il titolo infatti recava (riprendendo quello di una canzone di Lucio Battisti): “Sgarbi, innocenti evasioni”. Come dire, insomma, che le “evasioni” (fiscali) c’erano comunque state, ma che quel furbacchione di Sgarbi aveva saputo farla franca.
Ai nostri bravi giornalisti non importava naturalmente che nessuno avesse mai accusato mai il critico di evasione fiscale e che perciò non poteva esserci nessuna evasione né innocente e neppure non innocente. E non importava perché, in fondo, non importa loro granché del diritto vantato dai lettori di essere informati; diritto che per gli inchiestaioli si trasforma in quello che hanno loro di far sapere ai lettori e far loro capire ciò che reputino più opportuno. In questo caso, che Sgarbi è riuscito ad uscirne indenne. E l’assoluzione? Che importa? E la formula piena? Ancor meno! Certo, poi i lettori potranno leggere l’articolo che spiega meglio le cose. Ma è noto che mentre il titolo vien letto da tutti, il pezzo che lo segue lo è solo da una piccola percentuale di lettori.
La tenacia e la furbesca determinazione con cui i nostri bravi inchiestaioli si son comportati nei confronti di Sgarbi m’induce tuttavia a credere che – paradossalmente – essi siano in buona fede e che perciò non sia possibile spiegare le loro gesta semplicemente ricorrendo alla faziosità politica, intesa in senso banalmente tradizionale. Nelle loro gesta, c’è probabilmente qualcosa di più e di diverso: c’è una preliminare problematica che andrebbe accuratamente investigata e compresa ricorrendo all’armamentario concettuale dell’antropologia: perché costoro, prima che un problema politico, manifestano un interrogativo che interessa gli antropologi. Si spera perciò che questi studiosi non tarderanno a prendere in esame il caso.
Questa genia di giornalisti inchiestaioli mi sembra infatti come prigioniera di se stessa, quasi costretta – dopo aver ormai acquisito da decenni una certa forma mentis della quale rimane succuba – a servire l’ideologia a prescindere dai fatti, l’inquisizione a prescindere dal diritto, la condanna a prescindere dalla giustizia, la furbizia (dei titoli suggestivi) a prescindere dalla intelligenza (si può esser furbi nell’azione, pur in perfetta buona fede nella ideazione). Per questo tale genia – a cagione della sua buona fede – manifesta tutta la sua pericolosità: perché, come è noto, le vie dell’inferno son lastricate di buona e non di cattiva fede. Se poi si aggiunge che in questo caso l’avversario era Vittorio Sgarbi, il cerchio si chiude: intelligenza versus insipienza; brillantezza versus uniformità; libertà versus chiusura ideologica. L’avversario perfetto per un giornalista inquisitoriale e inchiestaiolo. Ma dimenticano che Sgarbi abita altri mondi per costoro irraggiungibili: per questo essi batteranno con nocche consunte su porte che per loro resteranno chiuse. Per sempre.
di Vincenzo Vitale