mercoledì 11 settembre 2024
Per chi, come noi, è cresciuto con il mito del giornalismo americano, sognando un giorno di poter essere dei reporter professionalmente imparziali (pur sempre con le proprie idee politiche, questo è ovvio) come quelli che fin da piccoli ammiravamo a bocca aperta sintonizzandoci sui canali televisivi a stelle e strisce, non può che rimanere sconcertato ed affranto nell’assistere alla deriva faziosissima in cui sono sprofondati da tempo quasi tutti i media americani. Il primo – e forse unico – dibattito tra l’ex inquilino della Casa Bianca Donald Trump e l’attuale vicepresidente Kamala Harris è stato, per dirla con un tweet di Vivek Ramaswamy, imprenditore ed ex candidato alle primarie repubblicane, “una partita giocata tre contro uno”.
Che il terreno di gioco, il network Abc News, fosse tra i più ostili al tycoon e tra i più ovattati per Kamala lo si sapeva, ma le regole d’ingaggio su cui gli staff dei candidati hanno lavorato per settimane, definendo regole stringenti e accordandosi su ogni singolo dettaglio, avevano lasciato intravedere un barlume di speranza. Niente da fare: le stesse regole concordate sono state deliberatamente violate dai due conduttori, David Muir e Lindsey Davis. Tra domande mirate a far innervosire l’ex presidente, come quella, riproposta a più riprese dal giornalista maschietto, se Trump si fosse pentito di aver appoggiato (cosa, peraltro, non vera) l’assalto al Campidoglio dei suoi supporter il 6 gennaio 2021, si è arrivati addirittura a disattendere una delle regole essenziali stabilite nel concordare il dibattito, ovvero escludere il fact checking dalla serata, dando semmai modo ai commentatori politici di farlo nei giorni successivi. È accaduto più di una volta, e ovviamente sempre nei confronti del candidato repubblicano. Una di queste quando Trump ha detto che in Ohio gli immigrati clandestini rubano gli animali domestici per sfamarsi (sembra sia avvenuto in più occasioni regolarmente denunciate): l’intervistatore ha interrotto l’ex presidente asserendo che la notizia sarebbe falsa e smentita dalle autorità locali. Viceversa, dai due giornalisti, quasi nessuna domanda rivolta a Kamala Harris sui suoi mille cambi di casacca, di idee, di convinzioni politiche personali che l’hanno portata dall’essere, non più di quattro anni fa, una candidata alla nomination democratica completamente schiacciata su posizioni di estrema sinistra a quella che è oggi, una (finta) moderata che cerca consensi nel campo avverso.
Intendiamoci: la performance di Trump non è stata delle migliori, fu sicuramente molto più brillante nel 2016 e nel 2020 contro Hillary Clinton e Joe Biden, ma alla fine ha rappresentato il solito Trump, quello che il suo elettorato vuole vedere e sentire. È certamente caduto in qualche provocazione della rivale, come quando la Harris lo ha sbertucciato dicendogli che la gente ai suoi comizi che durano ore e ore (effettivamente tra le qualità politiche del tycoon manca il dono della sintesi) se ne va perché devastata dalla noia. Lui ha replicato che invece a quelli della Harris il pubblico è “cammellato” su pullman organizzati dal Partito democratico per non farla sfigurare, ma è stato in effetti questo il punto in cui il repubblicano ha perso le staffe e ha cominciato ad alzare i toni dello scontro, talvolta risultando aggressivo. Colpito nell’orgoglio, ha iniziato visibilmente ad innervosirsi e forse ha anche perso qualche occasione per segnare dei goal a portata di mano, soprattutto su questioni di politica estera. Tuttavia, è bene ricordarlo, per i cittadini americani ciò che avviene oltreoceano è attualmente una delle preoccupazioni minori: né la guerra tra Russia e Ucraina né il conflitto in Israele sono tra le tematiche che interessano l’elettore in questa competizione. Al contrario, i due temi più importanti su cui gli americani vogliono risposte sono l’economia e l’immigrazione, e su entrambi, già prima del dibattito, i sondaggi evidenziavano come le ricette di Trump siano decisamente quelle più apprezzate.
Alla vigilia del confronto presidenziale di ieri, il New York Times – un altro organo d’informazione tutt’altro che vicino all’ex presidente e ai repubblicani in generale – ha reso nota una rilevazione secondo la quale il 53 per cento degli americani ritiene che Trump farebbe meglio di Harris sulla questione dell’immigrazione (lo pensa invece di Kamala “solo” il 43 per centro), mentre il 55 per cento crede che l’economia americana andrebbe molto meglio con il tycoon alla Casa Bianca che con la candidata democratica (ferma al 42 per cento). Tra i due, l’economia è senza alcun dubbio il tema che preoccupa di più il cittadino americano medio, schiacciato da un’inflazione che ha portato a far schizzare fino al 40 per cento, e in taluni casi al 50 per cento, il prezzo dei generi di prima necessità, in particolare quelli alimentari. La tendenza d’opinione che certifica una netta preferenza per le ricette economiche di Trump è confermata stamani anche dai primi dati registrati nel post dibattito dalla Cnn (anche questo un network politicamente schieratissimo con i Dem) che addirittura ampliano la forbice a vantaggio di Trump: il 55 per cento degli intervistati ritiene che sull’economia sia più convincente l’ex presidente, mentre è sceso al 35 per cento il numero di coloro che pensano farebbe meglio Harris. Prima del dibattito, per Cnn erano rispettivamente il 53 per cento a favore di Trump e il 37 per cento per Harris.
Si potrebbe andare avanti ancora a lungo nell’esaminare il dibattito di ieri punto per punto, ma ci fermiamo qui. Dobbiamo però evidenziare che Trump, che ha scelto di parlare per ultimo, ha chiuso in maniera molto convincente chiedendo all’avversaria perché tutte le belle cose che ha annunciato di voler fare non le abbia attuate in tre anni e mezzo di vicepresidenza, inchiodandola al fatto ineludibile che lei, pur cercando di allontanarsi dall’amministrazione Biden, ne è a tutt’oggi la numero due. Harris ha sottolineato di non essere “né Trump, né Biden” ma “la leader di una nuova generazione” e detto da una donna che tra qualche giorno compirà sessant’anni è abbastanza ridicolo. Quel che però al lettore non deve sfuggire è che, storicamente, i dibattiti presidenziali prima delle elezioni hanno spostato davvero poco, se non nulla. Anche questa volta non sarà diverso, nonostante i grandi esperti di politica internazionale all’amatriciana abbiano voluto intortare all’opinione pubblica nostrana che questo confronto sarebbe stato in grado di assegnare la presidenza degli Stati Uniti ad uno dei due candidati. Non è e non sarà così, sia perché mancano ancora otto settimane, sia perché la quasi totalità degli americani che andranno a votare il 5 novembre ha già ben chiaro a chi dare la propria preferenza. Nulla è ancora scontato e assisteremo quasi certamente ad una sfida all’ultimo voto negli Stati chiave che assegneranno, forse addirittura per poche decine di migliaia di voti, la vittoria e l’accesso allo Studio Ovale. Per noi nel dibattito di ieri non c’è un vero vincitore, c’è però sicuramente un perdente: l’informazione americana. Ed è questa l’unica cosa che ci rattrista.
di Francesco Capozza