Trump può vincere, ma occorre un cambio di passo

lunedì 26 agosto 2024


È finalmente terminata la Convention di Chicago del Partito democratico, uno spettacolo scintillante che ha portato in soli cinque giorni alla beatificazione di Kamala Harris. La Chiesa di Roma di solito impiega anni ‒ se non decenni ‒ ad aureolare personaggi in odore di santità ma ai Dem americani sono bastate un paio di settimane, miracoli dell’asinello.

Abbiamo visto di tutto la scorsa settimana: ex presidenti ed ex first ladies, nemici giurati di una vita, un presidente in carica ancora rabbioso a cui hanno scippato la ricandidatura prima affossandolo e poi osannandolo con gli occhi lucidi al grido di “grazie Joe!”. Un rito salmodiante a cui non si sono sottratti storici antagonisti ma che, per “il bene della democrazia”, hanno messo da parte per qualche ora dissapori personali e divergenze politiche cementate nel tempo pur di raffigurare un partito compatto. Roba che al Nazareno, dove l’acrimonia umana tra i dirigenti è pressoché ricalcabile con la carta carbone, se la sognano.

Nei giorni scorsi abbiamo assistito ad una sfilata di big con interventi quasi fotocopia, con alcune sfumature più stomachevoli come l’accenno alla “ossessione per le dimensioni”, con tanto di mimica, di Barack Obama, e il convitato di pietra della Democratic National Convention è stato sempre e soltanto lui: Donald Trump. Non un accenno, per esempio, ai preoccupanti dati economici che rischiano di portare ben presto gli Stati Uniti ad una recessione sistemica. Nemmeno Kamala Harris, la candidata presidente, ha dedicato un solo passaggio, che dico, una sola parola del suo discorso alla ricetta economica che ha in mente per risollevare le sorti di un grande Paese in cui il cittadino medio ha le tasche sempre più vuote ed una rabbia arrivata quasi al limite dell’umana sopportazione.

No, l’unica ossessione dei Clinton, degli Obama, di Alexandria Ocasio-Cortez, di Nancy Pelosi, dei vari governatori avvicendatisi sul palco del United Center di Chicago è stata parlare di Trump, del pericolo per la democrazia che una sua eventuale presidenza porterebbe in dote all’America (dimenticando forse che Donald è già stato presidente e la democrazia pare abbia serenamente retto) e dei suoi processi passati e presenti. Processi che, peraltro, i democratici conoscono bene essendone stati per gran parte i mandanti grazie ai loro affezionatissimi procuratori, in particolare quello di New York. D’altronde, in mezzo a tanta sfacciataggine elargita da dirigenti che non possono nemmeno vedersi, l’unico collante non poteva che essere il nemico giurato di tutti.

Che dire, per esempio, del povero Joe Biden? Il presidente in carica è stato costretto a parlare il secondo giorno della Convention pur di non incontrare i congiurati Barack Obama e Nancy Pelosi, i due architetti principali del suo passo indietro obbligato. E poco conta che la prassi cerimoniale ed istituzionale avrebbe voluto che all’attuale inquilino della Casa Bianca fosse riservato l’intervento conclusivo prima del discorso di accettazione di Kamala Harris: pur di non rischiare d’incrociare nemmeno lo sguardo di Pelosi e Obama, Biden ha deciso di parlare tra una ex first lady come Hillary Clinton e un rappresentante della Camera di cui non ricordo nemmeno il nome.

La raffigurazione di un partito unito, graniticamente schierato come una testuggine attorno a Kamala Harris non è altro che una narrazione artefatta della vera realtà che si cela tra i dirigenti democratici: i coltelli tra i denti sono stati riposti solo momentaneamente nel loro fodero, pronti ad essere sguainati di nuovo dopo le elezioni del 5 novembre. Ed esattamente questo sarà il vero problema per Kamala qualora dovesse vincere: di chi potrà realmente fidarsi se gran parte di coloro (eccezion fatta, forse, per il suo storico mentore Barack) che oggi la portano sulle spalle come una Santa fino a poche settimane fa la descrivevano come inadatta, scialba, senza alcuna attrattiva elettorale? Come dimenticare le parole della stessa odierna candidata alla Casa Bianca quando descrisse apertamente quella sorta di “mobbing” di cui era oggetto, e non solo da parte di Joe Biden?

Oggi appare tutto passato, tutto dimenticato: l’euforia del momento, i sondaggi apparentemente favorevoli, la possibilità di poter finalmente riporre Donald Trump nel dimenticatoio sono più forti di qualsiasi altro sentimento, soprattutto del rancore. Non c’è dubbio che questa sia la campagna elettorale più bizzarra degli ultimi decenni, con un presidente spodestato perché di fatto considerato un rimbambito e un altro che tenta per l’ennesima volta di tornare alla Casa Bianca.

Si dice spesso “non c’è due senza tre”, ma è del tutto chiaro ed evidente che questa ennesima nomination (è la terza, un caso unico nel Gop) sia l’ultima che il partito repubblicano ha offerto a Donald Trump. Se dovesse vincere, quello che inizierà ufficialmente il 20 gennaio 2025 sarà il suo secondo ed ultimo mandato che la Costituzione americana consente; se dovesse perdere, sarebbe impossibile per il tycoon ripresentarsi ancora una volta tra quattro anni, quando lui peraltro ne avrà quasi 83. È esattamente questo, e nessun altro, il motivo per cui il Partito democratico ha serrato le fila e ogni possibile (e anche migliore) candidato alternativo ha deciso di non contrapporsi a Kamala Harris nella corsa alla nomination: comunque vada, al massimo tra quattro anni Trump sarà comunque spazzato via dalla scena politica e i giochi si riapriranno, anche in casa Dem.

Analogo ragionamento è quello fatto dai tanti giovani di talento che negli ultimi anni hanno conquistato notorietà e apprezzamento tra i Repubblicani, uno su tutti l’ottimo governatore della Florida, Ron DeSantis. Anche nelle retrovie dell’elefantino sono tutti consapevoli che stavolta per Trump o la va o la spacca, meglio quindi attendere ai box per un mandato presidenziale, che sia Trump o Harris a ricoprirlo poco conta, e riappropriarsi finalmente nel 2028 di un partito che negli ultimi otto anni è diventato più il movimento del tycoon che il Grand Old Party di storica (e solida) tradizione americana.

Noi ‒ che avremmo certo preferito una competizione con altri candidati ‒ ovviamente non possiamo che tifare anche stavolta per Trump, ma all’ex presidente ci sentiamo di dare lo stesso consiglio che i dirigenti repubblicani (preoccupati) gli suggeriscono: basta attacchi personali all’avversaria, è necessario concentrarsi sui temi.

Due in particolare sono i cavalli di battaglia su cui l’ex presidente deve puntare tutto, e cioè l’immigrazione clandestina e l’Economia – in particolare il risanamento dei conti pubblici ‒ due ambiti in cui nel primo mandato Trump ha peraltro ottenuto ottimi risultati e che, dopotutto, sono i due problemi che l’americano medio sente oggi di più. Se la campagna elettorale di The Donald riuscirà velocemente a cambiare narrazione ed impostazione, evitando di cadere nella sua talvolta troppo evidente misoginia, sarà possibile ribaltare nuovamente i pronostici e probabilmente riconquistare la Casa Bianca, ma se il refrain continuerà ad essere quello attuale, anche poco gradevole a dirla tutta, assisteremo presto all’elezione della prima donna, e di colore, presidente degli Stati Uniti.


di Francesco Capozza