Quando “femminismo” è sinonimo di misoginia

lunedì 5 agosto 2024


Le prime Wokimpiadi, ospitate in una Ville Lumière con poche luci (e molte ombre), hanno evidenziato un fenomeno antico: ci sono donne che detestano le donne. Fin qui nulla di strano, considerando che l’invidia è radicata nella psiche umana dagli albori dei tempi. Ma esiste una differenza significativa tra le ostilità di ieri e i malumori di oggi. Una volta, la rivalità tra le donne scaturiva dal desiderio di affermarsi in un mondo a trazione maschile. Il risentimento femminile del 2024, invece, si accompagna alla smania di decostruire la realtà e, con essa, i modelli che caratterizzano il nostro vivere associato. Sono proprio certe “femministe” le responsabili del clima d’odio che pervade ogni aspetto dell’esistenza: dai rapporti sociali alla politica, dalla cultura all’intimità affettiva. Si sa, gli -ismi sono portatori di sventura e denotano il peggioramento del sostantivo a cui si legano. Il movimento che aspirava a salvaguardare i diritti inalienabili delle donne si è trasformato nell’altare dell’intolleranza – non solo verso gli uomini, ma nei confronti delle stesse donne.

Una domanda sorge spontanea: cosa avrebbero pensato le femministe liberali, se avessero assistito alle gare di boxe delle Wokimpiadi di Parigi? A questo interrogativo si aggiunge un altro dubbio. Quale sarebbe stata la loro reazione di fronte a un ermafrodita (pardon: intersex) che, in soli 46 secondi, ha annientato quattro anni di preparazione olimpica di un’atleta? E, soprattutto, come avrebbero commentato la tifoseria da stadio – contro l’italiana Angela Carini e l’ungherese Anna Luca Hamori – delle “paladine del progressismo”, che difendono a targhe alterne le donne? Di sicuro, le emancipazioniste avrebbero preso a borsettate queste leonesse da tastiera. L’universo femminista è conosciuto per essere vario, complesso e litigioso: le sue correnti risultano spesso contraddittorie e hanno dato origine a scuole di pensiero che si collocano agli antipodi. Adottando la categoria interpretativa del genere, un parametro essenziale negli studi sociologici, è facile dedurre le opinioni delle donne che hanno combattuto per la causa della libertà.

Proviamo a calarci un attimo nei panni di Elizabeth Cady Stanton, leader del movimento abolizionista e figura cruciale nella storia americana dell’Ottocento. Donna coltissima, si ispirò al giusnaturalismo di matrice lockiana, lesse i Federalist Papers e fece proprio lo spirito della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti. La sua adesione ai principi liberali classici era più che convinta. Cady Stanton ha lottato per tutta la vita contro le disparità di trattamento tra i sessi. Essendo una sostenitrice dell’uguaglianza formale, riteneva che le donne fossero equiparabili agli uomini sul piano giuridico, ma che non dovessero rinunciare alle loro peculiarità individuali. I generi? Due, pari in dignità e diritti, nelle rispettive differenze. Con un pizzico di fantasia, possiamo immaginare la promotrice della Seneca Falls Convention mentre bersaglia di critiche quanti godono dei benefici di entrambi i sessi senza assumersi la responsabilità di nessuno dei due.

Circa un secolo dopo abbiamo assistito alla nascita del femminismo della differenza sessuale. Questa corrente rivendicava l’autonomia della donna dalla dimensione maschile. Le sue esponenti, come Jean Elshtein e Sara Ruddick, sostenevano che la tragedia del sistema politico contemporaneo fosse l’abbandono di un’etica femminile propriamente detta. La compassione e la cura sarebbero state preferibili alla competizione e alla concorrenza, due elementi contrari all’indole della donna. Tralasciando la stucchevolezza di questa teoria, è chiaro che le femministe della differenza sessuale avrebbero gridato allo scandalo vedendo i match Khelif vs. Carini e Yu Ting vs. Turbidekova. Forse sarebbero state d’accordo con loro persino le femministe radicali degli anni Sessanta, che di certo non possono essere tacciate di simpatie reazionarie. Loro non avrebbero mai accettato che un individuo biologicamente uomo, dunque espressione del “patriarcato”, potesse competere con una pugile donna che, in quanto tale, sarebbe svantaggiata dal punto di vista fisico.

Arriviamo ora alla tendenza che ha spalancato le porte ai deliri woke: il transfemminismo, secondo cui l’appartenenza di genere non dipende dal proprio sesso, ma avviene in un momento successivo non meglio specificato. La cosiddetta “disforia di genere” (il non riconoscersi nel proprio corpo) condurrebbe alla liberazione dai costrutti binari, cioè dall’identità maschile e da quella femminile. Judith Butler, la pioniera della teoria gender, è favorevole a somministrare i puberty blockers ai minori perché crede che siano sicuri e reversibili, ha inaugurato i voli acrobatici dei pronomi e ritiene che il concetto di “donna” debba essere rivisto, se non addirittura cancellato. Nella morra cinese delle transfemministe, ‘uomo mascherato batte donna indifesa’: un riflesso pavloviano che ha portato dall’altra parte della barricata gli arcinemici uomini, purché si considerino, per assurdo, delle “donne oppresse”. E così le banali donne cisgender (chi è donna e si riconosce come donna, per farla semplice) diventano all’improvviso una parte del problema. In nome della presunta inclusività, quindi, le seguaci della setta queer sono disposte a vedere i transgender umiliare le sportive di sesso femminile. Molto spesso, il “femminismo” è un sinonimo di misoginia. Gli odiatori seriali dell’Occidente vogliono distruggere i traguardi di civiltà che abbiamo conquistato negli ultimi secoli. A soffrirne di più, naturalmente, sono le donne.


di Lorenzo Cianti