Perché non possiamo dirci macroniani

giovedì 1 agosto 2024


L’editoriale a firma del ministro Eugenia Roccella, pubblicato ieri l’altro dal Giornale e dal titolo Una cerimonia per cancellare le nostre radici, ci interroga sull’orizzonte antropologico della cerimonia d’apertura dei Giochi olimpici. Domandiamoci allora se, in un momento particolarissimo della storia dell’umanità, tempestato da guerre, fame, siccità e promesse di escalation che ci avvicinerebbero a grandi passi al Big Bang finale della civiltà, sia utile insistere sulla pessima performance dei francesi e non, invece, limitarci a considerarla vicenda di dettaglio. Non è che si stia esagerando con le polemiche? Si vuole forse distogliere l’attenzione delle opinioni pubbliche dai giganteschi problemi che le attanagliano litigando su inezie? È nostra opinione che della cerimonia si debba parlare, eccome. Anche perché Eugenia Roccella ha centrato il cuore della questione. Quello che è andato in scena nella capitale francese va ben oltre il cattivo gusto: è un attacco diretto ai valori costitutivi della civiltà occidentale. Per dirla con le parole del ministro, è “la rappresentazione plastica di un’operazione di sostituzione delle radici del nostro mondo, o, se vogliamo, di rifondazione del nostro Occidente”. È la dichiarazione di morte per atto rivoluzionario della cultura che ha sostenuto e propiziato lo sviluppo ultramillenario dell’Occidente. Sotto il piovoso cielo parigino le radici greco-romane e giudaico-cristiane dell’Europa sono state poste in cima a una pira a cui è stato dato fuoco per ingraziarsi il favore delle divinità di un nuovo paganesimo, postmoderno, fondato sul melting pot di etnie, di genere asessuato, omologante nel linguaggio, intollerante verso la diversità di pensiero.

Con qualche superficialità la critica si è focalizzata sul tableau vivant che presentava una versione “queer” del Cenacolo, il dipinto parietale di Leonardo da Vinci. Effettivamente, si è trattata di un’esibizione disgustosa. Ed è verosimile che la rappresentazione oscena sia risultata offensiva per il sentimento religioso dei cristiani. Gli organizzatori si sono affrettati a negare ogni accostamento al capolavoro leonardesco, spiegando che la fonte ispiratrice del “tableau” sia stata un’altra opera pittorica: Le Festin des Dieux di Jan van Bijlert, artista olandese del Seicento, di scuola caravaggesca. Un banchetto degli dei preso a prestito per mettere in scena una rappresentazione transgender non sposta di una virgola la sostanza antropologicamente eversiva che gli organizzatori hanno inteso trasmettere al pubblico. Ma non è questo l’apice dell’operazione di liquidazione della cultura occidentale che Eugenia Roccella denuncia nel suo scritto. È l’insieme della manifestazione a dover essere messa sul banco degli imputati, insieme ai suoi realizzatori e al suo massimo ispiratore che siede all’Eliseo. Per comprenderne la finalità di sovvertimento rivoluzionario dell’ordine morale tradizionale bisogna cominciare col chiedersi cosa rappresentino nell’architettura simbologica della civiltà occidentale lo sport e gli atleti. L’attività sportiva non è semplicemente una pratica che sottopone l’individuo a un costante sforzo fisico. Ha ragione Roccella, è un rito di fondazione che costituisce un fondamentale veicolo valoriale attraverso cui transitano i processi formativi della personalità degli uomini e delle donne fin dalla loro adolescenza.

Lo sport abitua l’atleta alla ricerca costante del nesso lavoro-retribuzione, cioè: i risultati si ottengono con sacrificio, impegnandosi con tutte le proprie forze a perseguire gli obiettivi fissati, senza accettare favoritismi, senza cercare scorciatoie, senza barare. Lo sport insegna la lealtà nella competizione; prepara a raccogliere le sfide contro gli avversari, e contro sé stessi quando in gioco vi è il superamento dei propri limiti. Il gesto atletico è grazia, forza, bellezza. Il graduale irrobustimento dell’apparato muscolare, conseguito esclusivamente sulla base del lavoro fisico, abborre ogni forma di induzione ormonale artificiosa. L’atleta è la manifestazione archetipica dell’eroe. Le Olimpiadi, fin dall’antichità, sono state il luogo naturale di esaltazione del concetto di potenza associato all’individuo. Ecco perché la presentazione degli atleti, la sfilata con le divise che ne contrassegnano l’appartenenza identitaria, la bandiera in testa al corteo, sono state ritenute, in ogni Olimpiade, espressioni del sacro. Una sorta d’intangibilità della forma cerimoniale ha contribuito a potenziare la magia dei simboli presenti nell’apparato liturgico di apertura dei Giochi. Tutto questo a Parigi è stato abbattuto a picconate. Gli atleti, i protagonisti, sono stati ridotti a comparse. Ammassati sui Bateau-mouche come anonimi turisti dei travel group, impegnati a fare ciao con la manina in un clima da gita scolastica.

La manifestazione è stata una gigantesca esibizione circense, colorata e confusionaria come si addice a uno spettacolo di arte varia, allestito con artisti di strada. Nulla a che fare con la solennità olimpionica. E poi, il pugno allo stomaco del quadro dell’Ultima cena – o Banchetto degli dei, non fa differenza nel glossario della blasfemia – che Vito Mancuso dalle colonne de La Stampa definisce: “L’emblema degli spasimi in cui si contorce l’anima occidentale, nemica di sé stessa e della propria tradizione”. Di là dall’offesa ai cristiani, la bastonata più forte è stata assestata all’assoluto valore etico che riveste il principio d’integrità del corpo dell’atleta. Al riguardo, le Drag queen e i transgender reclutati per il tableau vivant testimoniano di una normalità accordata alla pratica di destrutturazione e ricomposizione del genere sessuale mediante la manipolazione del corpo fisico trattato con le terapie ormonali e la chirurgia plastica. L’opposto dell’ideale filosofico sportivo. Aver portato trans e “Drag” sulla scena dei “Giochi” è stato come sfidare a viso aperto il principio fondativo dello sport, connesso in radice alla tradizione occidentale. Un tempo gli atleti e i giudici partecipanti alle Olimpiadi dell’antichità prestavano giuramenti di lealtà e di rispetto delle regole.

I “quadri” di Parigi promettono suggestioni; evocano libertà nella forma distorcente della trasgressione; negano l’ordine tradizionale in un mondo – quello dello sport – dove l’ordine è datore di senso. Così dal set del grande circo sono sparite le lacrime, la meraviglia, la sofferenza, la delusione, la gioia, le mani e sono spariti gli occhi di chi avrebbe dovuto essere centrale nell’allegoria della rappresentazione e invece è stato sospinto di lato, ai margini della grande festa. Vi sono molti modi di affermare la cancel culture o il wokismo, quali dominanti del pensiero progressista contemporaneo. Quello visto a Parigi è stato uno dei più efficaci, anche se parecchio goffo nel tratto estetico. Emmanuel Macron ha voluto dare la sua chiave di lettura del futuro dell’Occidente, scimmiottando quella che Roccella definisce la “celebrazione liturgica di una rivoluzione antropologica. Aggiungendovi quel tocco giacobino che è stato forse l’unico tratto culturale autoctono che si poteva notare nell’evento”. Lo ha fatto con disdicevole arroganza, sbattendo in faccia al mondo una grandeur che non esiste più da molti lustri. Il “presidente” ha sparso tanto fumo per stupire gli spettatori.

Ma, alla fine, lo “stupor mundi” macroniano non è servito a coprire le mille magagne che hanno condizionato una manifestazione mediocre in tutti i sensi, salvata per i capelli, sul finale, da un’immensa Céline Dion che ha donato al mondo una monumentale interpretazione dell’Hymne a l’amour cavallo di battaglia di Édith Piaf. La potenza della voce, la forza del registro interpretativo ci hanno riconciliato con quello spirito olimpico malamente mortificato dalla grottesca manifestazione di potere degli “illuminati” progressisti alla Emmanuel Macron. Fortuna ci sia stata lei a raddrizzare la barca, mestamente destinata a colare a picco ancor prima che per l’inverecondia parodistica del banchetto trans, per lo spettacolo inguardabile di uno sgangherato can-can ballato da un gruppo di scappate di casa.


di Cristofaro Sola