martedì 23 luglio 2024
Sassolini di Lehner
L’oceanica mèsse di milioni di dollari pervenuti ai comunisti italiani dall’Unione sovietica ha determinato, tra le cronicità purtroppo ancora sussistenti nel mondo dell’informazione, dello spettacolo, della tivù, del cinema, delle arti, delle Università, della burocrazia, delle sagrestie anche la fatale, incoercibile, presenza delle toghe rosse. La toga rossa, del resto, non paga mai.
Si dichiara “partigiana della Costituzione”, ma quando le torna utile la salta a piè pari o la riscrive. Non pagarono alcune di loro, quando fiancheggiarono gli eversori extraparlamentari o inneggiarono alla barbarie dei processi maoisti celebrati negli stadi pieni di folla urlante, assetata di sangue. Non pagarono neppure quando, per preservare Oscar Luigi Scalfaro dalla vergogna dei fondi neri del Sisde, s’inventarono lo spauracchio dell’articolo 289 del codice penale (è punito con la reclusione da uno a cinque anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette atti violenti diretti ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente: 1) al Presidente della Repubblica o al Governo l’esercizio delle attribuzioni o prerogative conferite dalla legge; 2) alle assemblee legislative o ad una di queste, o alla Corte costituzionale o alle assemblee regionali l’esercizio delle loro funzioni).
L’articolo 289, invero, non c’entrava proprio niente con gli eventuali illeciti di Maurizio Broccoletti e gli altri 007, servendo soltanto a intimidire gli imputati e a spingerli a ritrattare le accuse al prezioso Presidente della Repubblica, utilissimo succubo del manipulitismo, per aprire la strada alla “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto. Si legga La toga rossa. Storia di un giudice di Francesco Misiani e Carlo Bonini (Tropea editore 1997), per capire di che lacrime e sangue è fatta, anche nel caso del salvataggio di Scalfaro, la giustizia comunista. Non pagano e sanno ben coprirsi. Quando venne richiesto l’elenco degli iscritti a Magistratura democratica, non solo fu prontamente negato ma, apriti cielo, si classificò la richiesta come un’azione criminale.
Non pagarono niente – a riprova che i compagni sono coperti da salvacondotto universale – la presidente di Tribunale Maria Gorowska e il pm Helena Wolinska, responsabili dell’omicidio legale dell’eroico generale polacco Emil August Fieldorf, nome di battaglia Nil. Il generale è stato arrestato una prima volta nel 1945, direttamente dal Kgb, e deportato in Siberia. I sovietici, però, non si resero conto di avere nelle mani nientemeno che uno dei capi di Armia Krajowa (Armata nazionale), l’esercito dei patrioti polacchi, protagonisti della Resistenza contro gli invasori nazisti e comunisti. Perciò, nel 1947, lo liberarono e lo lasciarono tornare in patria. La polizia segreta polacca, serva e secchiona, indagò e scoprì subito chi è davvero Emil August. Gli offrirono di collaborare col regime, ma il generale rifiutò seccamente di lavorare per i vassalli dell’invasore. Era miracolosamente scampato alle Ss e al Kgb. Non scamperà alla persecuzione giudiziaria della procuratrice Helena Wolinska, una toga rossa capace di tutto, pur di meritarsi la stima degli occupanti sovietici. La pm lo accusò falsamente di aver ucciso molti membri del Partito comunista polacco. L’imputazione, oltre che manifestamente infondata, è stata soprattutto ridicola, visto che i membri del Kpp furono trucidati, nell’ordine di centinaia di migliaia sino alla completa estinzione, su ordine di Iosif Stalin e altri corresponsabili, come il nostro Palmiro Togliatti (vedi Renato Mieli, Togliatti 1937, Rizzoli, Milano, 1964).
I comunisti trucidati erano colpevoli soprattutto di essere in gran parte israeliti, ergo assai scomodi in previsione del patto tra il Terzo Reich e l’Urss. Nil venne tenuto in galera per due anni, dal 1950 al 1952, ben al di là dei tre mesi previsti dagli stessi codici comunisti. Fatto è che Wolinska non riuscì a mettere insieme neppure mezza prova. La lunga carcerazione preventiva doveva servire, primo e non ultimo escamotage dello choc carcerario – Wolinska fu maestra financo di Mani pulite – a farlo confessare e, magari, a coinvolgere altri patrioti. Alla fine, venne celebrato il processo-farsa, dove sfilarono pentiti, delatori, decine di accusatori pagati dal Poup (Partito operaio unificato polacco, tale il nuovo nome, perché l’aggettivo comunista dopo la strage è impronunciabile). Venne condannato a morte dalla giudice Gorowska. Ma non lo ammazzarono subito, nell’attesa di qualche chiamata in correità. Nel 1955 Nil, che non si era mai piegato, consegnò il suo onore di soldato polacco, la propria religione della libertà e l’amor di patria nelle mani del boia comunista.
Nel 1997 la Polonia, ormai liberata dall’occupazione russa, decise di fare luce sui crimini delle sue funeste toghe rosse. Purtroppo, Maria Gorowska, presidente del Tribunale che decise l’assassinio di Nil, dopo pochi mesi dall’inizio del procedimento morì, precipitando ineluttabilmente nella bolgia infernale dedicata ai marx-leninisti. Resta Helena Wolinska, viva e vegeta, ma che era già riparata in Gran Bretagna. Paese che, in quanto ad infiltrazioni del Kgb, non si è mai fatta mancare niente. Nel novembre 1998 venne richiesta l’estradizione. Londra, tempestiva e pronta a concederla per i complici di Augusto Pinochet, per la toga rossa rispose picche. Wolinska ha potuto continuare indisturbata a sputare veleno sui non comunisti. Le toghe rosse, dunque, non pagano mai. Eppure, giorno verrà anche per loro.
di Giancarlo Lehner