Le incredibili giravolte dem (e dei loro media)

martedì 23 luglio 2024


Se non fosse tutto vero, penseremmo ad uno scherzo. Da diverse ore assistiamo ad un incredibile gioco del destino: la beatificazione in vita di Kamala Harris. Colei che per anni e per sua stessa ammissione veniva “ghettizzata” dal presidente Joe Biden e dal suo staff, la vicepresidente quasi per caso (in realtà per mero opportunismo, ne parlerò più avanti) tenuta in disparte e considerata per lo più una ingombrante zavorra, la numero due di un uomo che lei stessa quattro anni fa aveva accusato di razzismo è oggi dipinta come la donna in grado di salvare gli Stati Uniti dalle grinfie di quel “bifolco pregiudicato” (copyright Nancy Pelosi, of course) di Donald Trump.

Ovviamente chiunque conosca anche un minimo della politica e dei media americani sa che non è così ma che stiamo assistendo a una scelta quasi obbligata, sia per convenienza politica che per strategia personale di molti attori in causa. Non che potenzialmente la Harris non possa essere in grado di battere Donald Trump, intendiamoci. Gli Stati Uniti sono ormai un Paese talmente spaccato a metà e così polarizzato che anche una sedia, se ottenesse la nomination democratica, otterrebbe il suo ragionevole risultato elettorale. Quello a cui stiamo assistendo, dicevo, non è altro che l’epilogo infelice di una narrazione andata avanti per tre anni e mezzo, periodo in cui tutti i media progressisti americani (e ovviamente i loro cani da riporto dell’informazione italiana ed europea) hanno nascosto al mondo la verità sulle reali capacità cognitive di Joe Biden e sulle concrete qualità della sua vicepresidente, peraltro osteggiata dal suo stesso partito e dipinta nei circoli ristretti dell’establishment democratico come uno scherzo del destino da dover sopportare per un solo mandato.

Già, perché bisogna essere onesti: diciotto mesi fa, quando Biden ha annunciato di volersi ricandidare per un secondo mandato, i piani dei democratici sono saltati all’aria. L’idea maturata tra i dirigenti dell’Asinello era quella insita in una sorta di patto non scritto quattro anni fa: Biden doveva fare un solo mandato, un tempo ragionevole per fare sì che Donald Trump fosse dimenticato o, in caso contrario, distrutto a suon di procedimenti giudiziari, per poi farsi da parte e lasciar spazio alla nuova generazione democratica scalpitante. Si sarebbero celebrate delle primarie a cui probabilmente Kamala Harris avrebbe partecipato, ma che non avrebbe mai vinto. E invece quella vecchia volpe di Sleepy Joe ha rovinato tutto ricandidandosi, un po’ perché il potere piace a tutti – e a lui in modo particolare – e lasciarlo è sempre estremamente pruriginoso per l’egomania del politico medio, un po’ perché Trump è stato tutt’altro che dimenticato. Anzi, ha rafforzato incredibilmente il suo seguito che oggi lo venera come un Messia e un po’ perché gli stessi dirigenti del partito democratico non hanno avuto la forza di dire già allora “Joe, devi passare la torcia”.

Ma la colpa non è solo dei vertici dem, sia chiaro, l’informazione ha fatto il suo per tutto questo tempo. Quella stessa informazione allineata, dalla Cnn al New York Times, dal Washington Post alla Cbs che dopo il disastroso dibattito tra Biden e Trump di tre settimane fa hanno scaricato il presidente in cinque minuti, iniziando una battaglia mediatica senza precedenti per costringere il comandante in capo a farsi da parte. Una volta riusciti nell’impresa, che fare? Continuare con il solito canovaccio, ovviamente: raccontare balle. Come quella che ci stanno propalando dall’altro giorno sul terrore dei repubblicani di perdere le elezioni, ora che Trump dovrà vedersela con Kamala e non più con il vecchio Joe. Fregnacce, ovviamente.

Certo, i repubblicani dovranno cambiare totalmente strategia, e di corsa, cercando – anche se le prime avvisaglie sembrano rappresentare il contrario – di non cadere nell’errore già fatto al tempo della sfida con Hillary Clinton, cioè quello di offendere e deridere l’avversaria sul piano personale. Tornando a Kamala, occorre ora fare un piccolo passo indietro, giusto per rinfrescare la memoria a quanti si abbeverano alle fonti informative nostrane che fotocopiano gli articoli dei media americani sopracitati. Forse pochi ricordano che quattro anni fa, correva l’annus horribilis 2020, le primarie democratiche furono interrotte a causa della pandemia da Covid e del conseguente lockdown. Inizialmente, tra i candidati, c’era anche Kamala Harris, oltre a due campioni dell’ultrasinistra radicale come Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. Kamala fece un passo indietro prima ancora che i primi Stati iniziassero a votare, gli altri due rimasero in competizione contro Biden. Entrambi, sia Sanders che Warren, racimolarono un bel gruzzolo di delegati fin dall’inizio ma la Warren decise di ritirarsi quasi subito. Contro Biden rimase però in corsa Sanders, che in quel momento storico poteva realmente conquistare la nomination, perché voce molto ascoltata dalla sinistra radicale, dai giovani e dalla popolazione afroamericana.

Ricordiamoci infatti che proprio mentre si svolgevano le primarie dell’Asinello, l’onda del movimento Black Lives Matter si era rinvigorita in modo eclatante dopo l’uccisione, da parte di un poliziotto, di George Floyd. Le proteste dei Black rischiavano di sovvertire l’ordine pubblico e la sinistra più radicale era vista come l’unica in grado di porre fine al solito perbenismo dell’establishment democratico che per molti aveva sempre camuffato un latente odio razziale. Come sempre, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi e ci si mise il Covid a interrompere le primarie e la probabile cavalcata di Sanders verso la nomination. Bernie decise di ritirarsi in un momento in cui le votazioni negli Stati erano congelate e alla fine fu scelto Biden, che era in leggero vantaggio come numero di delegati conquistati, con quel patto non scritto che ho citato poco sopra.

Ma chi prendere come candidato vicepresidente? Quale migliore ruffianissima scelta, in un momento di proteste dilaganti del popolo afroamericano, che la mediocre ex procuratrice di colore della California, Kamala Harris? Un’esponente politicamente collocabile tra i moderati del centro democratico ma ben vista dalla sinistra radicale e apprezzata dall’astro nascente Alexandria Ocasio-Cortez, la stessa che pochi mesi dopo, insieme a tutta l’ala sinistra del partito, si ricrederà quando la Harris pronunciò in Centroamerica quelle parole che rimarranno un marchio indelebile per la vicepresidente – “non vi vogliamo negli Stati Uniti, ma vi aiuteremo a rimanere nel vostro Paese” – con tutte le ripercussioni successive che ho già citato in un editoriale apparso su questo quotidiano. Eppure, oggi sono tutti con Kamala, da Bernie Sanders alla Ocasio-Cortez, dai governatori ai vertici del partito, a cominciare dalla potentissima Nancy Pelosi, colei che ha ancora tra le mani la pistola fumante dell’assassinio politico di Joe Biden. Pensano davvero che quella ritenuta “una mediocre zavorra da sopportare quattro anni” possa battere Trump? Ovviamente no, anche se le speranze sono sempre le ultime a morire.

La valanga di consensi che Kamala sta registrando da domenica, e che le ha già fatto conquistare virtualmente il numero di delegati necessari per conquistare la nomination alla convention democratica di metà agosto, nasconde molto probabilmente due piani ben distinti. Il primo è quello che riguarda tutti gli altri possibili candidati della nuova generazione democratica, dal governatore della California, Gavin Newsom – l’unico che in realtà avrebbe voluto candidarsi in una convention realmente aperta e che, dicono, ci sia rimasto maluccio per questa unanimità sulla Harris che ha di fatto chiuso la partita prima ancora del calcio d’inizio – all’apprezzatissima governatrice del Michigan, Gretchen Whitmer, fino ad arrivare a Josh Shapiro, governatore della Pennsylvania. Per tutti loro candidarsi adesso vorrebbe dire sfidare la sorte con la concreta possibilità di bruciarsi: molto meglio aspettare quattro anni e nel frattempo immolare Kamala.

Il secondo piano riguarda il Partito democratico stesso. Con Biden candidato i dem avrebbero quasi certamente perso il controllo del Senato e sarebbero stati travolti alla Camera, consegnando a Donald Trump una maggioranza assoluta in entrambi i rami del Congresso. Sarebbero certamente cadute molte teste, addirittura molti seggi in California e nello Stato di New York sono oggi ritenuti in bilico. Con Kamala, che peraltro è californiana, la speranza è quella di contenere una possibile disfatta in termini di seggi e provare quantomeno a conservare una risicata maggioranza al Senato. Quel che è certo è che da ora tutto si resetta e anche i sondaggi (che in realtà poco contano) pubblicati fino a oggi sono ormai carta straccia. La partita è certamente aperta, ma le chance che Donald Trump torni alla Casa Bianca sono tutt’altro che diminuite.


di Francesco Capozza