lunedì 15 luglio 2024
Sassolini di Lehner
Giorgia Meloni è la prova provata che non ci sono più i Benito Mussolini di una volta. Il Duce – così lo denominarono i socialisti massimalisti, ben prima dei sansepolcristi – commise il tragico errore di non visitare gli Stati Uniti. Insomma, non poté toccare con mano le straordinarie risorse di quel gigante economico, sociale, militare. Altro che il velleitarismo minaccioso e psicotico del Terzo Reich o del Mikado! Il dollaro volava assai più in alto e più spedito del Volk Geist, l’immanente spiritello ispiratore e corruttore degli ariani purissimi.
Se Benito questo benedetto viaggio l’avesse compiuto, ci saremmo risparmiati leggi razziali, la catastrofe bellica, la guerra civile, Pietro Badoglio già “eroe” di Caporetto, la barbarie di piazzale Loreto e il più potente Partito comunista italiano dell’Occidente pilotato dal Cremlino. E pensare che Mussolini sarebbe stato accolto a braccia aperte. La maggioranza degli italo-americani, compresi gli antenati di Robert De Niro, tifava Mussolini.
Lo stesso presidente Franklin Delano Roosevelt, intrigato dalla terza via tra socialismo e liberalismo, fu addirittura attratto dalle riforme del fascismo – la costituzione dell’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri) e dell’Istituto mobiliare italiano (Imi), in primo luogo – che in qualche modo delineavano il New deal all’italiana, grazie al genio del massone socialista Alberto Beneduce. Roosevelt, essendo molto più onesto intellettualmente degli odierni Aldo Cazzullo, nel 1934, non considerando Mussolini come un efferato capo banda, ma uno statista – la pensava così anche Winston Churchill – spedì in Italia un tecnico di fiducia, Rexford Tugwell, affinché studiasse le realizzazioni del nuovo corso fascista.
Lo staff della Casa Bianca, infatti, visionando il metodo Beneduce e il corporativismo, cercava lumi per la soluzione, in parte attuata in Italia, di un dirigismo capace di coniugare il capitalismo, depurato però dalle degenerazioni che avevano precipitato gli Usa nel disastro del 1929, con la giustizia sociale e una solida – e garantita – funzionalità produttiva.
Mussolini, dunque, mancò fatalmente l’appuntamento con il sogno americano, mentre la meno provinciale Giorgia Meloni è sempre più di casa negli Stati Uniti. Come una premurosa parente entra disinvolta nello studio ovale per dire la sua e ascoltare Joe Biden. Mass-media, attori e altri avanzi di Hollywood, che al momento stanno elaborando il lutto, dopo la scomparsa di Pablo Escobar e la detenzione di El Chapo nel carcere Supermax, fanno a gara nel dare del rimbambito al presidente. Molti, troppi, esigono che si ritiri e lasci il posto all’improbabile Kamala Harris, tanto più che seguita a inciampare, straparlando e sbandando da pugile suonato. Le ultime, in effetti, sono da ricovero urgente: ha ribattezzato, col cognome Putin, lo scamiciato Volodymyr Zelens’kyj; quindi, intendendo lodare Kamala, le ha cambiato sesso e nome: “Non avrei scelto Trump (sic!) come vicepresidente se non pensassi che è qualificata per essere vicepresidente”. E ha avvertito: “Ma ora corro io”. È calato il silenzio con brividi da horror tra i democratici, fratello musulmano Barack Obama compreso.
A riparare le balle, pardon, le falle dello stracotto è giunta di corsa la materna Giorgia. Solo Meloni, affetta da atlantismo febbrile con vette da Nando Moriconi, l’americano a Roma, alla domanda “lei, lo ha trovato lucido?”, avendolo percepito come tirato a cera, ha risposto: “L’ho trovato bene proprio come un valido presidente degli Stati Uniti, lavoratore indefesso, che ha organizzato un ottimo vertice. Gli faccio i complimenti”. Mannaggia! Se Giorgia fosse stata al posto di Benito, nel 1933-1934 sarebbe rimasta mesi alla Casa Bianca a dialogare e a consigliare Franklin Delano. Con Giorgia Dux non avremmo passato tanti guai. Non avremmo la più bella Costituzione del mondo, sporcata, purtroppo, da alcuni commi dettati da Stalin. Per giunta, Palmiro Togliatti non sarebbe mai sbarcato a Salerno, per rieducare noi miserabili mandolinisti e nulla più.
di Giancarlo Lehner