venerdì 5 luglio 2024
(A proposito del libro La proprietà sotto attacco di Carlo Lottieri)
I – Siamo abituati a pensare e considerare la proprietà privata con naturalezza, come una cosa che dalla notte dei tempi appartiene alla vita stessa di esseri umani così fortunati da potersela guadagnare, acquistare, venderla perché dotati della libertà civica e civile di contrattare, cioè scambiare volontariamente beni e servizi per scopi personali: come, quando e quanto gradiscono. Ovviamente la proprietà e lo scambio, in teoria generale protetti dalla Costituzione come diritti fondamentali, sono regolati da leggi, regolamenti, provvedimenti, nei quali atti autoritativi si annidano tali e tanti divieti e oneri e condizioni che la proprietà, non più sacra e inviolabile, finisce spesso con il diventare un’espressione sociale senza l’antico, ferreo, ius excludendi alios e ius utendi et abutendi re sua, quatenus iuris ratio patitur.
Ai colpi giuridici e politici minacciati o inferti a danno della proprietà nel mondo d’oggi, italiano e straniero, Carlo Lottieri, professore di Filosofia del Diritto nell’Università di Verona, dedica una puntuale analisi nel suo ultimo libro (La proprietà sotto attacco, Macerata, 2023, Liberilibri, pagine 88, 16 euro). Prima avvertenza al lettore: non si tratta di un manualetto giuridico sulla disciplina della proprietà privata nel codice civile e nella legislazione complementare. Nulla di pesantemente avvocatesco o giudiziario. Il libro si avvale della Presentazione di Giorgio Spaziani Testa, sotto i cui auspici e con la fondamentale partecipazione di Confedilizia il libro è stato pubblicato. Seconda avvertenza: le conseguenze afferenti ai guasti provocati dalle norme strettamente riferite alla proprietà edilizia vengono succintamente evocate perché emblematiche di attacchi che provengono dall’alto e sono più generali.
L’Autore dichiara in Premessa le sue intenzioni, che mantiene appieno: “Il presente scritto, pur nella sua brevità e semplicità, si propone di riflettere sulla proprietà al fine di evidenziare come essa si collochi nel cuore del diritto e, al tempo stesso, come sia incompatibile con ogni forma di dominio sovrano. Per questo motivo si cercherà di mostrare perché la proprietà si trova oggi in una crisi profonda, che in larga misura coincide con il declino di quella che fu la civiltà occidentale, e perché soltanto il superamento delle logiche di potenza che caratterizzano il nostro tempo potrebbe ridarle una nuova vita”.
Il punto di partenza dell’Autore (“la proprietà è nel cuore del diritto”) è esatto eppure ha bisogno di completamento con gli altri elementi essenziali alla comprensione della società civile: libertà e giustizia. Per l’appunto, altrove ho scritto quanto segue: “Il carattere della libertà sta in ciò, che essa, non essendo un frutto naturale ma la conseguenza inintenzionale dell’evoluzione umana, nasce e si sviluppa in simbiosi con il diritto, un fenomeno difficile da definire in modo semplice perché a sua volta deriva da un concetto complesso e complicato, pure evolutosi con l’uomo. Libertà e diritto dovrebbero voler dire la stessa cosa. Sono una dittologia. Di più, libertà e diritto sono intrinseci a giustizia, sicché la figura retorica appropriata ad esprimere la loro coessenziale natura è la trittologia. Il liberalismo, cioè la triade Libertà, Diritto, Giustizia, non è un’invenzione individuale, ma una scoperta graduale, collettiva e casuale, della specie umana. Nessuno può vantarne la creazione, che fu inconsapevole effetto della proprietà privata della terra. La proprietà privata è nata dal fatto che il primo proprietario non era cosciente di esserlo. Fu in quel momento che la proprietà e la legge fondarono la civiltà. Lo riconosce, sebbene per trarne conseguenze aberranti, lo stesso Jean-Jacques Rousseau nel celebre Discorso: “Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri così ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile”. Sì, la proprietà e la legge sono nate assieme, legate alla nascita come gemelle siamesi. Ancora oggi chiamiamo norme le regole giuridiche. Anche questo nome ci viene direttamente dall’antica Grecia. Deriva infatti da nemein, un verbo che ha molteplici significati tutti incentrati sulla terra: in primo luogo, tracciare un confine, dividere, ripartire; poi, avere padronanza, possedere, vivere in, occupare, abitare, aver potere su. Da nemein derivano nomòs (pascolo, abitazione, sede, regione, terra) e nòmos (usanza, legge, norma legale, regola, prescrizione). Già, ma come ha avuto origine lì? Quel primo proprietario, che aveva confinato il suo terreno, lo coltivava, incamerava il raccolto, aveva dei vicini che facevano lo stesso, i quali avevano altri vicini a loro volta. L’aratro qualche volta avrà sconfinato. Qualche volta uno avrà preso a confine, per errore oppure no, il raccolto di un altro. Altre volte un erede avrà rivendicato dal vicino una spanna di terra appartenuta al padre. Delle volte il latifondo gentilizio avrà dovuto essere frazionato. Da qui, per uso, nacque la norma. Il nomos greco deriva dallo stesso fatto materiale che generò il mio e il tuo all’origine delle società stanziali, mentre la lex, da legere come equivalente del greco λέγω “dire”, sembra rinviare alla norma già posta, dichiarata, perciò leggibile” (confronta il mio Illiberalismo, in “nuova Storia contemporanea”, 3/2023, pagina 49).
II – La precisazione che ho aggiunto alla Premessa dell’Autore ha lo scopo di esaltarne l’esposizione degli attacchi alla proprietà e degli effetti che ne conseguono, appunto, in termini di libertà, giustizia, diritto. Esposizione puntuale, convincente e impressionante. Recenti interpretazioni sul rapporto tra proprietà e tributi sovvertono la tradizione classica secondo cui la tassazione sarebbe una sorta di lavoro forzato, in quanto tale ingiusta perché contraria al diritto naturale inviolabile della proprietà (come evidenzia la relazione con il furto e l’esproprio). Secondo due filosofi americani, che l’Autore cita ampiamente ma che non meritano affatto di essere da me ricordati, “l’idea di una proprietà precedente la tassazione sarebbe indifendibile. Infatti, se non esiste una proprietà legittima che preceda il prelievo tributario, nessuno può lamentarsi di essere stato privato di alcunché”. A riguardo non esito ad affermare che tali enormità, sebbene enunciate sotto il manto accademico, dovrebbero generare una rivolta culturale ed essere gettate a mare come il tè nel Boston Tea Party. L’Autore giustamente individua la radice di queste false idee, suppostamente avanzate e modernizzatrici, nel principio che ha scardinato l’ordine liberale classico: il positivismo giuridico partorito dall’onnipotenza parlamentare. Infatti, la democrazia odierna è illiberale perché illimitata.
Nel ’700 Jean-Louis de Lolme affermò che il Parlamento era divenuto così potente da poter far tutto fuorché mutare un uomo in donna e viceversa. Oggi pare che il Parlamento abbia colmato la lacuna. E, detratte le poche occasionali remore delle corti costituzionali, la legge, cioè una deliberazione della Camera rappresentativa, non incontra ostacoli a costituire, modificare, estinguere diritti proprietari e relative facoltà con un voto di minoranze parlamentari addirittura e per scopi dichiaratamente politici ma bassamente elettorali. Quanto a me, sono persuaso che i Parlamenti moderni, dei Paesi continentali dove non vige la common law, hanno poco a che fare con il diritto perché sfornano prodotti legislativi in quantità industriale soltanto di rado con i caratteri propri delle vere leggi, che sono norme obiettivamente stabilite, valide e uguali per tutti i soggetti e per tutti i casi presenti e futuri: certezza, generalità e astrattezza del diritto.
Sottolinea Carlo Lottieri: “Sullo sfondo di questa rappresentazione c’è un autore cruciale: Hans Kelsen. Perché è ovvio che quando i due filosofi americani parlano di diritto pensano solo e soltanto al diritto positivo, e per giunta in una versione che lo fa coincidere con la volontà arbitraria dei legislatori. Questo positivismo giuridico, di conseguenza, si traduce nell’assoluto arbitrio di chi comanda”. Carlo Lottieri lo dice icasticamente: “Il Dio-Stato ci ha riconosciuto alcuni diritti; la medesima entità sovrannaturale ce li può togliere”. Nella realtà e nella prospettiva del diritto concepito quale volontaria produzione statale, bisogna aggiungere, lo stesso concetto di Stato di diritto assume significati controfattuali. “In tale quadro – scrive Lottieri – l’idea di uno Stato limitato dal diritto non ha molto senso se il diritto è ormai soltanto la volontà dello Stato medesimo. Parlare di autolimitazione significa riconoscere che nei fatti non c’è alcuna limitazione. Tutto questo, tra l’altro, fu lucidamente ammesso dallo stesso Kelsen quando rilevò che la nozione di Rechtsstaat è del tutto inconsistente”.
A tal proposito sento di dover aggiungere che, non più essendo lo Stato limitato dal diritto perché diventato esso stesso monopolista del diritto identificato nella legge, lo Stato di diritto ha decisamente sfumato l’altro suo carattere precipuo, forse addirittura storicamente anteriore: lo Stato di diritto è lo Stato che assicura ai cittadini il diritto di difendersi dallo Stato. Ognuno constata oggi quanto precario, difficile, costoso sia diventato il difendersi dalle angherie dello Stato, dai vincoli alle proprietà fondiarie alle tosature delle proprietà mobiliari, e ottenerne il risarcimento dei danni.
III – Se “il trionfo del positivismo giuridico è stato quindi un fattore cruciale nella dissoluzione del più fondamentale dei diritti, la proprietà, tuttavia non è stato il solo”, precisa Lottieri. Infatti l’Autore ne individua altri, meno istituzionali che culturali, che devo riassumere per motivi di spazio. Il primo fattore, dalla potenza distruttiva e dall’influenza pervasiva, vorrei definirlo semplicemente “pregiudizio antiproprietario”, determinato e alimentato dalle predicazioni dei vari collettivismi e socialismi, in primo luogo il comunismo marxiano. Per illustrare il senso e lo scopo del pregiudizio antiproprietario amo ricorrere a questo mio aforisma che reputo eloquente ed esaustivo: quando la proprietà è un furto, la legge prescrive di rubare ai ladri.
Il secondo fattore è incistato nei piani alti delle istituzioni (politiche, culturali, religiose) propense a sostenere la giustizia sociale deliberata dalle assemblee rappresentative (sebbene l’espressione, dice Friedrich von Hayek, designi una cosa che non esiste come la parola strega) a scapito della giustizia giudiziaria, affidando la soluzione delle controversie ai voti di parlamentari interessati anziché alle sentenze di giudici indipendenti. Con questa paradossale conseguenza che, mentre i parlamentari inseguono circolarmente i voti che li inseguono, le autorità regolatorie e decidenti in fondamentali rami dell’economia non rispondono a nessuno. “Ne è risultata quella che gli economisti chiamano cattura del regolatore (regulatory capture), con il risultato che oggi, nel momento in cui si è voluto pianificare il mercato attraverso l’imposizione di regole, c’è chi è in grado di definire i quadri normativi sulla base dei propri interessi”.
Il terzo fattore è bizzarro e stravagante, affidato com’è ad un’antifrasi: liberismo. Per altro mai puro e semplice, ma sempre selvaggio. Invece, mai nel corso dei secoli la proprietà privata, l’economia di mercato, la concorrenza sono state impaniate in norme e regolamenti che, come la tela del ragno, trattengono i piccoli operatori mentre i grossi squali, pubblici e privati, passano indisturbati. Come sottolinea Carlo Lottieri, “quel legame così forte tra apparati di Stato e grandi corporation ci obbliga a constatare che l’espansione dello Stato, a partire dal monopolio valutario e dal controllo del sistema finanziario, ha vampirizzato in larga misura quello che era l’universo dei privati”.
Il quarto fattore riguarda il fanatismo intollerante della nuova alleanza tra ideologia e potere, “dato che stavolta l’argomento utilizzato per dissolvere la proprietà privata è la sacralità di Gaia, ossia la tutela dell’ambiente”. L’ideologia Esg – ecologica, sociale, governativa – è divenuta dottrina politica comune a larga parte del mondo contemporaneo perché consente a governanti, politici, intellettuali, media, finanzieri, un dominio senza pari sugl’indirizzi dello sviluppo globale, nientemeno. La forza autoritaria, illiberale, antiproprietaria di questa ideologia ha portato a teorizzare persino la fine della proprietà dei prodotti di consumo, che dovrebbero diventare servizi, e l’uscita dal mercato delle abitazioni private ritenute “inadeguate” secondo gli standard imposti dall’uzzolo di un sinedrio di sapienti. Viene prospettato di fatto un gigantesco esproprio collettivo senza indennizzi, pure contro la Costituzione, se, per quanto la più bella del mondo, valesse ancora qualcosa a riguardo.
IV – “Una perversa alleanza che unisce istituzioni pubbliche e gruppi privati – conclude l’Autore – mette a rischio la nostra libertà espropriandoci legalmente della nostra proprietà”. Aggiungo che il pregiudizio antiproprietario impregna anche la giurisprudenza penale, civile, amministrativa, costituzionale ben oltre la retta applicazione ed interpretazione di leggi pur avverse, mentre i corpi del potere esecutivo riluttano a compiere le dovute azioni di polizia giudiziaria e ad eseguire con la forza legale le sentenze definitive a tutela della proprietà privata. In conclusione, Carlo Lottieri pone la domanda cruciale: “Come si può uscire da questa trappola e restaurare i nostri diritti di proprietà?”. E prospetta due modi: il primo, istituzionale, consiste nel decentramento, in piccoli autogoverni locali che consentano di controllare meglio entrate e spese; il secondo, politico e culturale, consiste nel recuperare il nesso tra diritto e giustizia.
Aggiungerei un mio rimedio che propongo da anni: la protezione costituzionale della libertà di contratto, inesistente in Italia. Solo la Costituzione degli Stati Uniti, unica al mondo, ha anche questo immenso pregio tra i tanti altri. Contiene cioè una disposizione che vieta formalmente, espressamente, direttamente agli Stati federati di approvare leggi che disconoscano, compromettano, pregiudichino le obbligazioni contrattuali. “No State shall pass Law impairing the Obligation of Contracts” (Article I, Section X). Ossia “Nessuno Stato potrà approvare leggi che comportino deroga alle obbligazioni derivanti da contratti”. Nel classico commento di Edward Corwin, “una legge che pregiudichi gli obblighi derivanti da contratto è una legge che effettivamente indebolisce gli obblighi assunti da una delle parti, o rende il loro adempimento indebitamente difficile”. Esattamente questo è ciò che capita tanto spesso in Italia con leggi, regolamenti, provvedimenti che legislatori, governanti, amministratori adottano nell’interesse del contraente che li reclama arbitrariamente dal potere pubblico, non già dal giudice, pretestando un “diritto all’inadempimento” con appigli politicamente accattivanti.
Aspirando a metter fine a tale stato di cose e appoggiandomi al monumentale esempio americano, presentai al Parlamento una proposta di legge costituzionale che mirava a risolvere la fondamentale questione, restituendo al cittadino lo spazio libero sottrattogli dagli illiberali prepoteri che la Costituzione non riesce ad imbrigliare. Fu, invano, la prima ed unica volta nella storia italiana ed europea. Per proteggere davvero la libertà negoziale, cioè l’autonomia individuale, dobbiamo togliere al legislatore la facoltà di modificare le prestazioni pattuite e inibirgli di dettare norme che annullino o rendano inefficaci gli accordi presi nelle forme lecite prestabilite. Nella Carta del 1948 manca una disposizione esemplare, una barriera tra la potestà legislativa e l’autonomia privata. Perciò ho proposto di sancire nella Costituzione non un’altra inutile riserva di legge, bensì un inviolabile divieto alla legge, aggiungendo l’articolo 13-bis così formulato: “Nessuna legge può modificare le obbligazioni derivanti da contratti tra adulti consapevoli. Nessuna legge può rendere inefficaci i contratti e modificare anche transitoriamente le prestazioni contrattuali in corso. Nessuna legge può avere lo scopo o l’effetto di sopprimere o limitare il diritto dei privati di costituire, regolare, estinguere, nelle forme lecite, rapporti giuridici patrimoniali e di demandarne in tutto o in parte l’esercizio alla legge e alla pubblica amministrazione” (Atti Camera, XII Legislatura, Proposta di legge numero 2070, presentata il 21 febbraio 1995).
Come ognuno vede, sono rimedi radicali, sensati, utili, ma oltremodo difficili da far accettare ed applicare perché “il recupero del nesso tra diritto e giustizia”, invocato da Carlo Lottieri, implica una rivoluzione culturale, una sorta di metanoia nazionale, che ne ripristini il significato millenario coessenziale alla libertà. Purtroppo l’Occidente, dagli inizi del ’900, ha adulterato, smembrato, sovvertito la trittologia Libertà, Diritto, Giustizia, escogitando e inseguendo novità contrarie, con la complicità di politici e giuristi benintenzionati quanto sprovveduti, impazienti quanto impreparati, millenaristici quanto miopi, potenti nel teorizzare la perfezione quanto impotenti nell’eliminare i difetti pratici, sicuri e veloci nel fantasticare quanto incerti e claudicanti nell’agire. Imbonitori del popolo, somigliano ad aruspici incapaci di presagire le conseguenze inintenzionali e nondimeno illusi di scongiurarne le negative e propiziarne le positive.
di Pietro Di Muccio de Quattro