lunedì 1 luglio 2024
Quattro elettori americani su cinque, secondo gli ultimi sondaggi, hanno assistito – in diretta o nelle ore successive – al dibattito televisivo che ha visto scontrarsi, lo scorso giovedì notte, il presidente Joe Biden e l’ex presidente Donald Trump. E questa è una notizia tragica per i Democratici. Una delle tante.
Non vogliamo soffermarci sull’analisi “tecnica” dell’evento. Lo hanno già fatto in tanti e l’univocità dei commenti è così schiacciante che non ha troppo senso aggiungere l’ennesima voce al coro di chi ha parlato di “disastro” per il presidente in carica. Ma qualcosa, a mente fredda, deve necessariamente essere sottolineato.
Storicamente, i dibattiti non spostano granché nella dinamica della corsa alla Casa Bianca. A parte qualche incidente sporadico, chi “vince” lo scontro guadagna qualche punto percentuale nei sondaggi dei giorni successivi ma poi vede questo vantaggio scomparire nel giro di qualche settimana. Recentemente, questo “post-debate bump” è stato vistoso solamente nel 2012, dopo la performance particolarmente mediocre di Barack Obama nel primo dibattito contro Mitt Romney. Ma sappiamo tutti come è andata a finire.
I precedenti storici, però, sono fatti per essere smentiti. E il caso di Biden potrebbe davvero essere una di queste anomalie epocali. Non parlo necessariamente di un potenziale impatto devastante sui prossimi sondaggi. Il sistema politico americano è ormai così ferocemente polarizzato che è molto difficile spostare grandi quantità di voti (o di intenzioni di voto) in un tempo ristretto. Penso soprattutto all’evoluzione della corsa nel medio periodo.
Dopo qualche ora di panico incontrollato, soprattutto tra gli analisti e gli attivisti vicini all’amministrazione Biden, il Partito democratico è velocemente entrato in modalità “damage control”, provando a diffondere una narrativa tanto semplice quanto psichedelica: sì, il presidente non era in splendida forma, ma volete mettere un vecchietto coraggioso che dice sempre la verità rispetto a un sociopatico che continua a mentire spudoratamente su tutto? È una favoletta che potrebbe attecchire tra le frange più estreme dell’elettorato democratico, ma che indispone enormemente chiunque abbia assistito al dibattito di giovedì senza indossare la sciarpa di una delle due tifoserie. Cioè proprio gli elettori che, a novembre, decideranno la partita nei sei Stati in bilico nei quali si giocano le elezioni (Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Arizona, Georgia e Nevada).
Le forzature di Trump sono sotto gli occhi di tutti (6 gennaio, aborto, immigrazione), esattamente come quelle di Biden (endorsement della Border Patrol Union, Afghanistan, inflazione). Limitiamoci a dire che il livello di “supercazzole” è stato altissimo da entrambe le parti. E questo, di per sé, dovrebbe bastare a screditare la narrativa che i democratici stanno tentando di spacciare ai cittadini americani (e non solo).
Il problema, però, è più complesso del semplice scontro tra le rispettive posizioni politiche o sull’accuratezza o meno delle rispettive dichiarazioni. La performance di Biden è stata imbarazzante sotto ogni profilo (provate a vedere il dibattito senza audio) e ha messo drammaticamente in evidenza una realtà che molti conoscevano perfettamente ma che media compiacenti e politici senza scrupoli hanno provato ad occultare agli elettori e a tutto il mondo: il presidente non è in grado di esercitare le proprie funzioni ora, figuriamoci per altri quattro interminabili anni. Nelle ore successive al dibattito si sono rincorse le notizie relative a una possibile sostituzione in corsa di Biden. Ed è partita una ridda di voci sui possibili sostituti (Gavin Newsom, Michelle Obama, Gretchen Whitmer) dalla quale è rumorosamente assente il nome del suo “erede naturale”, la vicepresidente Kamala Harris. Ma si tratterebbe di un’operazione tecnicamente complicata e politicamente rischiosissima.
Il Re è nudo, insomma. E non è tanto colpa del Re, che si è ritrovato senza vestiti non tanto per l’età, ma a causa di un declino cognitivo (non siamo medici e non abbiamo alcuna intenzione di avventurarci in diagnosi precise) ormai evidente e progressivo. I veri responsabili sono gli attivisti travestiti da giornalisti e gli esponenti politici travestiti da analisti che fino ad oggi ci hanno detto di non preoccuparci troppo, assicurandoci che Biden in privato era un miracolo di lucidità e saggezza e che le sorti dell’Occidente e del mondo libero erano in buone e salde mani.
Tutte bugie. Queste sì eclatanti, incontrovertibili e gigantesche bugie. Bugie che sollevano un tornado di domande a cui soltanto il futuro potrà, forse, regalarci qualche risposta. Come intende, l’amministrazione statunitense, governare nei prossimi quattro mesi che ci separano dalle elezioni? Chi ha governato realmente finora, visto che il declino mentale di Biden era noto, ufficialmente, almeno dal febbraio di quest’anno? Come reagiranno i nemici dell’America e dell’Occidente di fronte a una debolezza tanto evidente? Quale prezzo pagheranno i media che hanno provato ad ingannare la popolazione in modo così cinico e persistente? Quale sarà l’impatto di questa débâcle sulle altre elezioni in programma a novembre (435 seggi alla Camera, 34 al Senato, 13 poltrone di governatore, senza contare una miriade di consultazioni locali)? Quali saranno, insomma, le conseguenze di questo tamponamento a catena sull’autostrada a cui il mondo ha assistito in diretta?
Nella storia politica contemporanea, qualcosa del genere non era mai accaduto. E non sarebbe affatto razionale affidarsi alle previsioni e ai consigli di chi, fino ad oggi, ha mentito in maniera così sfacciata. Siamo in territorio inesplorato, proprio in un momento di generale impazzimento geopolitico che mette in pericolo l’essenza stessa della nostra società. Ci servono mappe nuove per esplorare il futuro, mappe che nessuno – finora – ha ancora iniziato a disegnare.
di Andrea Mancia