venerdì 21 giugno 2024
I – Il processo democratico, cioè il modo in cui le democrazie discutono per deliberare, è complesso e complicato perché tutto il popolo è chiamato a partecipare e decidere. Questo processo fa sembrare la democrazia meno pronta ed efficace dell’autocrazia, dove la risoluzione è frutto di un conciliabolo tra pochi e spesso di uno solo. Per di più, le democrazie tendono a collaborare e solidarizzare, come all’apparenza fanno pure le autocrazie, che tuttavia non riescono mai a superare fino in fondo le diffidenze reciproche. Gli Stati, in verità, si comportano nelle relazioni internazionali alla stessa stregua, né più né meno, degli uomini nei loro rapporti intersoggettivi. Lo conferma Tocqueville, nientemeno, ne La democrazia in America: “I popoli fra loro non sono che individui”.
Di fatto, non incontriamo soltanto le persone miti. Conosciamo pure le aggressive. Così, nel mondo vediamo Stati paghi della loro tranquillità e desiderosi di intrattenere con gli altri relazioni basate su accordi tra eguali. Tali Stati reputano importante il consenso liberamente scambiato nell’obbligarsi. Tengono fede ai trattati. Nello stringere un’alleanza non si aspettano vantaggi diversi da quelli in vista dei quali si sono impegnati e hanno sanzionato in apposite clausole. Né pretendono dalla controparte sacrifici che non è tenuta a sopportare secondo i patti.
Vengono poi altri Stati, certo più numerosi, i quali sono in perenne agitazione verso l’estero. Concepiscono disegni di sopraffazione. Desiderano imporsi piuttosto che collaborare con altri Paesi. Sono esosi e causidici. Usano il ricatto per ottenere quanto non spetta. Quello che possono, se lo prendono con la forza o con l’inganno, incuranti delle proteste. La loro politica è fondata sugli atti d’imperio, non sugli accordi, che stringono senza intima adesione con artifici e simulazioni. Anche delle istituzioni internazionali si servono come strumenti di potenza.
Non da oggi, ma da Demostene nel Primo discorso per Olinto sappiamo che “in generale i regimi tirannici sono guardati con sospetto dagli Stati costituzionali, specie quando si tratta di stati confinanti”. Tuttavia, questo sospetto non è forte quanto la diffidenza che al contrario i regimi dispotici nutrono verso le nazioni libere. Un gran vantaggio dei primi sulle seconde. Dipende dallo stesso sistema di governo costituzionale, aperto e fondato sulla fiducia, piuttosto che sul timore preconcetto.
Abituati all’uniformità, che il dispotismo sempre genera, i governanti delle nazioni oppresse paventano gli Stati costituzionali anche a causa della varietà che li contraddistingue, nella quale vedono pericoli subdoli e imprevedibili. Poiché all’interno hanno bisogno di dirigere tutto per sopravvivere, quanto possa sfuggire al loro controllo fuori dai confini statali li getta nell’insicurezza, rendendo aggressiva la loro azione politica. Sicché moltiplicano gli sforzi per proteggersi e ingigantiscono un patriottismo giovevole soprattutto alla conservazione del potere. Restano attanagliati da una vera e propria ossessione per la guerra. In larga parte, tale deformazione psicologica e sociale è però una proiezione della bellicosità causata dalla mancanza di libertà piuttosto che una naturale risposta all’aggressività altrui.
II – Le manifestazioni e le marce per la pace, sotto bandiere diverse dalla pace genuinamente perseguita come ideale anziché obliquamente per altri scopi, non sono un esempio di civismo perché sbagliano direzione, rivolgendosi ad Ovest anziché Est, al mondo libero anziché alle autocrazie. Dovrebbero dirigersi verso regimi bellicosi perché oppressivi ed inocularvi il “fattore-libertà”, l’unico antidoto veramente efficace contro la guerra. A tacere del fatto che spesso l’agitarsi per la pace è soltanto una forma di antiamericanismo sbieco, con cui danno sfogo all’invidia e all’odio verso quella nazione. La pace è una cosa terribilmente seria perché si possa lasciarla esclusivamente ai pacifisti di strada, per quanto ottime siano le loro intenzioni.
Esistono almeno tre modi per garantire l’indipendenza di una nazione, sia libera, sia oppressa.
Il primo: un’istituzione sovranazionale capace di prevenire e reprimere la violenza di uno Stato contro l’altro (per esempio, la legalità internazionale ovvero la pace universale di Immanuel Kant oppure il governo universale di Bertrand Russell), ma non esiste l’utopia realizzata. L’Onu è ben altro.
Il secondo: tutti gli uomini disposti a morire piuttosto che far violenza agli altri. Insomma, ama il prossimo tuo più di te stesso. Ma questo nuovo comandamento non è praticato.
Il terzo: si basa sulla sicurezza. Gli Stati lo hanno desunto dall’esperienza storica. Il suo insegnamento è indiscutibile ed universale. Tutti lo attuano. E, quando non lo fanno, è perché non possono, non perché non vogliono. È legittimo difendersi per salvaguardare il proprio sistema di vita individuale e collettivo. Ama il prossimo tuo dopo te stesso è un precetto meno virtuoso dell’altro, ma umano. Il filosofico e religioso ama il prossimo tuo come te stesso ha un che di sovrumano tra Stati. D’altra parte, così vanno normalmente le cose. Una condotta politica, che voglia essere giusta e realistica, non può ignorarlo.
Indipendenza e sicurezza sono i caratteri della sovranità degli Stati. Tuttavia, mentre per le autocrazie sono caratteri necessari e sufficienti, per le democrazie sono caratteri necessari ma non sufficienti. Il mondo occidentale e l’umanità intera sono debitori a Cicerone della più bella e più eloquente definizione della vera pace. Nelle Filippiche l’Arpinate ci ricorda e ammonisce che “pax est tranquilla libertas”, sicché le democrazie non sono davvero tali senza libertà e la libertà è fragile, a rischio, nelle democrazie nelle quali l’indipendenza e la sicurezza non siano fattualmente garantite. Con altre parole, il presidente Sergio Mattarella esprime oggi lo stesso concetto: “La pace non è sottomissione”.
Per organizzare ed istituire la pace non esistono, realisticamente, mezzi differenti dalle garanzie di sicurezza basate sulla forza di chi vi aspira. Un principio di organizzazione consiste certo nel dialogo, nei colloqui a tutti i livelli, fosse pure soltanto per scambiarsi sistematicamente un assenso sul disaccordo totale. La trattativa, comunque, è pur sempre un inizio. Deve essere incoraggiata per quanto possibile. Con tutto ciò, non bisogna aspettarsi nulla dalla fortuna e dalle parole. Tutto dai fatti.
Il 25 novembre 1954, rispondendo all’interpellanza del segretario comunista Palmiro Togliatti sul rifiuto del Governo circa la conferenza sulla sicurezza collettiva in Europa, secondo la proposta della Russia sovietica, il liberale Gaetano Martino, ministro degli Esteri, chiarì da par suo: “Il fine della sicurezza collettiva non è perseguibile partendo da differenti posizioni di forza con la pretesa di mantenere e perpetuare la differenza. Quella che si ottiene in questo caso non è la sicurezza collettiva, ma la sicurezza preventiva dell’impunità dell’aggressione, che, com’è noto, è tra le più terribili cause della guerra”.
III – Se Tizio consegnasse una pistola a Caio disarmato, al quale Sempronio avesse poggiato alla tempia la sua pistola, Mevio accuserebbe Tizio di aizzare Caio contro Sempronio? Se Caio, essendone ancora in grado, cercasse a sua volta di porre l’arma alla testa di Sempronio, Mevio forse incolperebbe Caio d’intimidire il minaccioso Sempronio? A sorpresa, ma forse no, la difesa dell’Ucraina va trasformandosi in questione ucraina. Eppure, la nazione martoriata dalla Russia è, sotto ogni profilo, la vittima emblematica di una guerra originata dall’insicurezza dell’aggredito e dall’impunità dell’aggressore. L’indipendenza dell’Ucraina è stata violata; il suo territorio, amputato dall’esercito d’occupazione. Mentre gli aggrediti combattono eroicamente, i soccorritori non rispondono con gli aiuti proporzionati all’offesa. La determinazione degli ucraini, proclamata e praticata, non basta senza gli aiuti finanziari e militari dei Paesi del mondo libero, delle democrazie intenzionate a restaurare la pace nel rispetto del diritto delle nazioni. Purtroppo il processo democratico delle discussioni e delle deliberazioni dei soccorritori non tiene il tempo della strategia e dell’azione sul campo di battaglia.
Le restrizioni dei soccorritori all’uso delle armi fornite sono semplicemente demenziali e ingiustificabili. Le spiegazioni dei limiti d’impiego sono illogiche, capziose, masochistiche. Il buon senso domanda alle loro cattive coscienze come sia stato possibile. Devono esserci troppe cose non dette e non spiegate nella condotta generale dei soccorritori. La resipiscenza sta portando diversi Stati a ridurre quelle restrizioni per modo che gli ucraini possano colpire le postazioni dei russi anche oltre il confine. Bene, ma perché entro un certo numero di chilometri? Risposta: perché si innescherebbe una pericolosa escalation. Un’escalation pericolosa non certo per gli ucraini che già da due anni sopravvivono con pericoli mortali. La pericolosità dell’escalation riguarda dunque i Paesi soccorritori. Il suo significato implicito è comprensibile, non giustificabile, perché comporta l’accettazione di un principio strategico incoerente, contraddittorio con la “Mutua distruzione assicurata” (Mad) sulla quale è stato basato da decenni l’equilibrio atomico tra nazioni, supponendo che tale equilibrio sia davvero bilanciato. Se una potenza nucleare, che aggredisce, devasta, occupa una nazione denuclearizzata, non dovesse essere contrastata per timore dell’arma atomica, la nazione aggredita, benché forte e determinata a difendersi allo stremo, nondimeno sarebbe di fatto già perduta, inerme, impotente ad opporsi per costringere l’aggressore a desistere e ritirarsi. Le vittime sarebbero sempre alla mercé dei carnefici perché sicuri dell’impunità, che avrebbero così campo libero per sconfinare e conquistare a piacere.
Il madornale errore degli Stati soccorritori è fatto. All’inizio della guerra avrebbero dovuto fornire agli ucraini tutto l’aiuto disponibile, ciò che avrebbe ingigantito la loro resistenza, rimpicciolita la baldanza dei russi, accresciuta la credibilità e la deterrenza del “fronte occidentale”. Con quale coerenza i soccorritori, in particolare molti europei, proclamano che “gli ucraini combattono anche per noi” mentre centellinano le armi per timori di escalation? La guerra sta prolungandosi perché la forza dei russi (niente affatto invincibili come prova finora la discrepanza tra l’obiettivo e i risultati della cosiddetta “operazione speciale”!) non è stata immediatamente contrastata dalla potenza di reazione che gli armamenti dei soccorritori avrebbero potuto e dovuto assicurare agli ucraini se supportati da subito.
La ministra della Difesa dei Paesi Bassi, Kajsa Ollongren, ha ben chiarito, con una persuasiva espressione, che le restrizioni imposte all’Ucraina negli attacchi diretti in Russia costringono Kiev a combattere “con una mano legata dietro la schiena”, perché bombe, missili e droni russi partono proprio dal territorio dell’aggressore. Putin beneficia di suoi autocratici soccorritori (Cina, Corea del Nord, Iran) che non gli mettono alcuna restrizione! Possono le democrazie titubare stupidamente e procedere a passettini, sconoscendo la millenaria esperienza storica? Perciò ai soccorritori democratici, impegnati in consultazioni pensose e attendiste, gioverebbe ritagliarsi una pausa per leggere e meditare la potente Prima Filippica di Demostene (351 avanti Cristo), un’orazione celebre anche per il passo sui “pugili barbari” che qui cade a perfezione: “Quanto è stato letto, o Ateniesi, è in gran parte vero, purtroppo, e tuttavia non è forse piacevole da ascoltare. Però, se quello che uno tralascia di dire per non affliggere la gente, potrà essere poi evitato anche nei fatti, allora si deve parlare per compiacere il pubblico; ma se le lusinghe dei discorsi, quando non siano opportune, all’atto pratico finiscono per provocare un danno, allora è vergognoso ingannare sé stessi e rimanere sempre indietro rispetto ai fatti rinviando tutto quanto non risulti piacevole, e non essere in grado di capire neppure questo, che per condurre bene una guerra non bisogna tenere dietro agli eventi, ma occorre prevenirli, e allo stesso modo che si riterrebbe giusto che uno stratego stesse alla guida delle sue truppe, così i politici devono guidare gli eventi, perché le loro decisioni vengano messe in atto e non siano costretti a correre dietro a quello che succede. Voi invece, o Ateniesi, pur disponendo di forze superiori rispetto a tutti, triremi, opliti, cavalieri, entrate, finora di questi mezzi non ne avete sfruttato a dovere neanche uno, e non cessate mai di combattere contro Filippo come i pugili barbari. Quando uno di essi viene colpito, porta sempre la mano dove ha ricevuto il colpo, e se lo si colpisce da un'altra parte, le mani vanno lì; parare i colpi e guardare avanti, né sa né vuole farlo. E così voi, se venite a sapere che Filippo è nel Chersoneso, decretate di mandare soccorsi là, se alle Termopili, da quella parte, se in qualche altro luogo, correte su e giù, e vi lasciate comandare da lui; non siete mai voi a decidere qualcosa di utile riguardo alla guerra, e non prevedete nulla prima dei fatti, prima di essere informati che qualcosa è già successo o sta succedendo. Questo comportamento forse era possibile una volta; ora però la situazione è giunta al suo punto più critico, e non ce lo possiamo più permettere”.
Perciò, quel madornale errore iniziale dei soccorritori, che tanto ha aggravato i lutti dell’Ucraina, adesso può e deve essere superato anche perché i massicci ritardi negli aiuti e le restrizioni nell’impiego delle armi occidentali sul territorio russo di provenienza degli attacchi hanno generato un sentimento di tradimento. Quanto all’Italia, in special modo, e tralasciando il pacifismo irenistico o il putinismo mascherato o il collateralismo dichiarato, bisogna sgombrare la discussione dal presunto divieto, mal ricavato dall’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.” Se l’Italia autorizzasse gli ucraini ad impiegare le sue armi sul territorio russo violerebbe la Costituzione? La risposta è no, perché: primo, l’Italia fornisce all’Ucraina la pistola per difendersi, essendo incontestabilmente diritto primordiale e legale dell’aggredito respingere con ogni mezzo l’aggressore che ha pure invaso l’aggredito e sterminato migliaia di suoi compatrioti; secondo, l’Italia ha il diritto, oltre che il dovere etico ed umanitario, di aiutare una nazione aggredita ed a rischio d’esser sopraffatta. Tra le nazioni, le condizioni (modi, tempi, luoghi) della difesa sono esclusiva responsabilità di chi utilizza le armi. Il richiamo alla Costituzione è meno di un alibi, bensì un ipocrita pretesto all’italiana, dacché voci autorevoli fanno pure trapelare che di fatto il presunto divieto verrebbe aggirato in silenzio. Non dobbiamo stancarci di sottolinearlo: tutte le armi fornite agli ucraini perdono la nazionalità dei costruttori e dei soccorritori. Diventano di diritto e di fatto armi ucraine. Putin, il sanguinario despota mongolo, deve tenerlo bene a mente. Gli ucraini e i loro soccorritori sono preoccupati, non intimiditi dalle sue minacce.
Allo stato della guerra, l’amletismo politico non solo è autolesionistico ma pure cinico mentre gli aggrediti muoiono a migliaia, militari e civili colpiti indiscriminatamente. Decisione e fermezza devono prevalere. Barbara Stefanelli sul Corriere della Sera lo ha sottolineato come meglio non si potrebbe: “La guerra di Putin, che è ancora e anche nostra, non è persa. Gli ucraini hanno finito le munizioni, non il coraggio”. Winston Churchill, sotto le bombe naziste, invocò gli americani: “Dateci i mezzi e finiremo il lavoro”. Volodymyr Zelensky sotto le bombe russe lo ripete così: “Dateci i mezzi e finiremo il lavoro. E mentre resistiamo a prezzo della vita, nell’urgenza della battaglia non mortificateci a dover considerare chi ci ha fornito l’arma e dove ci consente d’indirizzare i colpi”.
di Pietro Di Muccio de Quattro