I casi Gallo, Tortora, Signorelli e Saccucci

lunedì 10 giugno 2024


Sassolini di Lehner

A proposito di riforma della giustizia e, direi, anche della rinascita della corretta e libera informazione, è giusto ricordare e onorare il giornalista Enzo Asciolla. Da troppo tempo i mass media, con rarissime eccezioni, copiano e incollano le veline scappate dalle donne delle pulizie della Procura e non pochi giornalisti, dal caso di Enzo Tortora in poi, specie con Mani pulite, hanno fatto gran carriera colorando acriticamente le figurine scivolate col botto dalle tasche di magistrati distratti. Prima delle luminarie e dei fuochi artificiali del circo mediatico-giudiziario esistevano veri giornalisti, i quali osavano condurre indagini, a loro rischio e pericolo, anche sull’operato della giustizia sciatta, demenziale, comunque ingiusta.

Sulla malagiustizia, che distrusse e distrugge migliaia di esistenze, c’è bisogno di nuovi Asciolla. Enzo fu un giornalista esemplare. Il 6 ottobre 1954, ad Avola, in provincia di Siracusa, due fratelli-coltelli litigano e si picchiano. Vengono rinvenute tracce di sangue ma nessun cadavere. Eppure, la macchina penale si mette in moto, dando per scontato l’omicidio. Sangue potrebbe significare scivolone, taglio, ferita, lieve emorragia, caduta di un molare, non necessariamente morte violenta. L’analisi rigorosa del sangue risultava troppo complessa per i neuroni togati con la soluzione già pronta e infiocchettata. Salvatore Gallo, “accertato” assassino del fratello Paolo, fu, perciò, condannato all’ergastolo; il figlio Sebastiano, ritenuto complice, ricevette la pena di 12 anni e 8 mesi di reclusione per aver occultato il cadavere.

Asciolla, cronista della Sicilia, pur davanti alle sentenze passate in giudicato, fu colpito dalle testimonianze di due scozzoni, i quali rivelarono in aula, davanti alla Corte, di aver visto Paolo Gallo vivo e vegeto. I testimoni oculari in tal modo ridicolizzavano le “verità” dei giudici. Ipso facto, vennero incriminati per falsa testimonianza, arrestati e sanzionati con 6 mesi di galera. Asciolla studiò attentamente le loro parole, rilevando che potevano essere sincere, non avendo costoro alcun interesse a inventarsi “il morto che cammina”. Si mise, dunque, alla ricerca del vivo che se la spassava lontano da casa e dai parenti. Dopo tante ricerche, il 7 ottobre del 1961, Asciolla sorprende Paolo Gallo, il “morto” di sette anni prima, nella periferia di Ispica (Ragusa). Il rinvenimento del bravo e libero giornalista ebbe due conseguenze:

– screditamento in Italia e all’estero della decina di magistrati, tutti incapaci, in tre gradi di giudizio, di vedere al di là delle apparenze ematiche;

– spingere il Legislatore a varare la legge 14 maggio 1965 – numero 481 – sulle nuove norme in tema di revisione delle sentenze penali. Bisognava, infatti, modificare il codice di procedura penale, al fine di consentire il processo di revisione per l’assassino “innocente”, visto che la normativa prevedeva la grazia presidenziale e la revisione solo per gli “assassini” colpevoli. E la nuova legge stabilì finalmente il diritto al risarcimento in denaro per le castronerie giudiziarie… purtroppo a carico del contribuente e non dei magistrati responsabili.

I giudici, masticando amaro, tentarono di riabilitare l’immagine della corporazione:

– da un lato, dovettero forzatamente riconoscere la non colpevolezza;

– dall’altro, però, condannarono, di nuovo, Salvatore, per aver picchiato nel 1954 il fratello Paolo, a 4 anni e mezzo, già ampiamente scontati. E così, tanto per negare l’incompetenza sempliciotta togata, non venne neppure riconosciuto il risarcimento. Paolo, che non s’era degnato di far sapere la verità, mentre Salvatore scontava l’ergastolo, fu invece premiato dai giudici con la piena assoluzione.

A rammentarci l’imperativo morale e civile della riforma della giustizia c’è, in primo luogo, Enzo Tortora, massacrato dalle toghe e da certa stampa, forse per il suo essere anticomunista e non correre dietro alle follie oceaniche degli intellettuali organici al Cremlino. Tortora giornalista (La Nazione e Il Resto del Carlino) non si schierò con i “compagni”, difendendo il commissario Luigi Calabresi, proprio quando i circa 800 scappati da salotto buono, a margine di un’articolessa della disinformatrice seriale Camilla Cederna, firmarono una lettera risuonante come annuncio di condanna a morte del commissario, del diritto e della cornice liberal-democratica. A riprova che il circo mediatico-giudiziario giugula i non conformisti, l’accanimento e la persecuzione si possono spiegare, inoltre, col peccato mortale di Tortora, cioè di essere liberale, di essere amico di Edgardo Sogno e nemico di Fidel Castro. No falce e martello, no indagini serie. Perciò, molti, troppi fecero carriera attribuendo a Tortora il nome e il numero telefonico di Tortona.

La giustizia in foggia di nemesi contro i non conformi si staglia nitida nella vicenda di Paolo Signorelli, il cui nipote è stato triturato a mezzo stampa (per colpire l’Esecutivo di Giorgia Meloni) dagli allievi degli 800 fucilatori e di Cederna, a poche ore dal voto per le Europee. Il professore di storia e filosofia di un liceo capitolino fu un fascista immarcescibile, eppure le sue nostalgie non avrebbero dovuto essere assunte come prove di efferate azioni delittuose, né autorizzare a comminargli tre ergastoli e 10 anni di galera. Fascista, certo, anzi fascistissimo, ma non mandante degli omicidi dei giudici Mario Amato e Vittorio Occorsio. Antagonista militante, ma che c’entrava con la strage di Bologna?

Infine, è giusto ricordare l’onorevole Sandro Saccucci, che una giustizia rossa, color sangue, condannò, mentre si trovava a circa 100 chilometri dalla scena del crimine, per “omicidio morale” di Luigi De Rosa in quel di Sezze Romano. L’antifascismo è una gran bella e nobile parola, ma non dovrebbe essere mai barbarizzata e ridotta – in un Paese civile, tollerante e liberale – in plotone d’esecuzione giudiziario contro chi la pensa diversamente. Saccucci, scaricato anche dal Movimento sociale italiano, non avendo fiducia nella giustizia “antifascista”, si diede alla fuga, riparando definitivamente in Argentina, a Córdoba. Dopo anni fu riconosciuta l’inconsistenza dell’“omicidio morale”. In assenza e da lontano.


di Giancarlo Lehner