mercoledì 22 maggio 2024
Desideriamo rivolgere un sincero ringraziamento al Procuratore capo della Corte penale internazionale, Karim Khan, per la decisione di chiedere alla Corte preliminare del Tribunale di emettere mandati di arresto, oltre che per capi di Hamas Yahya Sinwar, Mohammed Deif, Ismail Haniyeh e Mohammed Diab Ibrahim al-Masri, anche per Benjamin Netanyahu e per il ministro della Difesa del Governo israeliano, Yoav Gallant. I reati per i quali intende perseguirli sono di “crimini di guerra e crimini contro l’umanità” compiuti nella Striscia di Gaza dall’8 ottobre 2023. Accusa sostanzialmente speculare a quella rivolta ai capi di Hamas relativamente alla strage d’innocenti israeliani dello scorso 7 ottobre.
Il ringraziamento è perché il Procuratore Khan, con assoluto sprezzo del ridicolo, ha reso manifesto, tangibile, il sentimento diffuso di antisemitismo che non ha mai abbondonato le lande dell’Occidente europeo e che, nella quotidianità, torna a mostrarsi attraverso il rovesciamento dell’equazione del Male nel rapporto vittima-carnefice. Tuttavia, non è detto che la Corte preliminare del Tribunale internazionale penale accolga la richiesta. Ma conta poco che lo faccia. Ciò che invece assume valenza storica è la formulazione della richiesta in sé. L’istanza repressiva fa propria l’idea, che da tempo immemore alberga nell’Occidente europeo, di uno Stato di Israele imperialista, colonizzatore, violento e razzista, proiettato a cancellare l’identità palestinese dal suo territorio mediante lo strumento genocidario. Karim Khan, britannico di Edimburgo con origini pakistane, è di fede musulmana e appartiene alla comunità religiosa Ahmadiyya, di radice sunnita. Sarà un puro di cuore come qualcuno lo descrive, ma è un fatto incontrovertibile che il suo proditorio assalto al capo del Governo israeliano abbia dato fiato a quell’antisemitismo patente che agita le nostre società. Certo, non è l’antisemitismo dei secoli passati. Oggi ha assunto il volto equivoco ma non meno inquietante di chi gioca a differenziare i destini degli ebrei della diaspora da quelli degli israeliani “usurpatori”, snobbando i primi e puntando il dito contro i secondi. L’antisemitismo “new age” appartiene alle mode “rivoluzionarie” dei giovani invasati progressisti; nutre la cultura della classe intellettuale della sinistra europea; vive tra gli artisti; si pasce del politicamente corretto; spende per il suo sostentamento la falsa moneta dell’umanitarismo buonista; scalda i cuori della protesta social; fornisce carburante, in forma di miscela esplodente, alle ideologie progressiste, relativiste e woke che stanno irrimediabilmente inquinando le sorgenti del sapere occidentale attraverso l’odioso strumento dello stupro della verità storica. L’antisemitismo è la serpe in seno di cui non riusciamo a liberarci. Quando lo si è creduto morto per sempre, è tornato alla luce.
Quello dell’antisemitismo è stato un caso raro di morte apparente. A partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha finto per un lungo tratto la sua sparizione per evidenti ragioni di decenza. L’abominio commesso dai tedeschi – i nazisti non erano alieni venuti da Marte, ma devoti sudditi del Reich – è stato talmente grave ed esteso che nessuno avrebbe potuto negare di averne annusato i mortiferi miasmi. Tuttavia, con il tempo – che non è sempre galantuomo come si vorrebbe – le posizioni più granitiche sono state stemperate; la società è tornata a essere più permissiva con la libertà di espressione. Allora hanno preso corpo i distinguo e con essi quei “sì-ma-anche” che fanno tutta la differenza del mondo. Ci si è innamorati di una fantasia: “Due popoli, due Stati”, sottovalutando platealmente il non trascurabile dettaglio che tutte le organizzazioni di lotta del popolo palestinese avessero messo al primo punto dei loro statuti la distruzione di Israele. Per anni gli occidentali sono rimasti a guardare senza battere ciglio i terroristi palestinesi compiere i più ignobili attentati ai danni della popolazione civile israeliana. Per anni l’Occidente europeo ha inondato di denari i territori dei palestinesi non preoccupandosi minimamente di chiedere conto ai beneficiari di come quei denari venissero spesi. Per anni si è guardato il pelo della difesa israeliana volutamente ignorando la trave del terrorismo palestinese. L’attacco vile, immondo ai civili d’Israele in quel maledetto sabato di ottobre, giorno di Shabbat, non è stato un fulmine a ciel sereno ma l’esito prevedibile di una lunga storia di antisemitismo che ha connesso la sponda meridionale del Mediterraneo con il continente europeo. Come diversamente spiegare la circostanza che un momento dopo la strage del 7 ottobre c’era chi manifestava contro la brutalità non degli aguzzini di Hamas ma dello Stato d’Israele ai danni dei palestinesi? Già, i “poveri” palestinesi. Khan nella sua indagine li individua come vittime della ferocia di Netanyahu. Ma chi ha domandato ai “poveri palestinesi” se qualcuno tra loro si fosse inequivocabilmente dissociato dalle azioni terroriste di Hamas? Khan ha mai chiesto alle vittime della supposta brutalità israeliana in che modo si fossero adoperate per aiutare gli ostaggi a sottrarsi alla violenza ferocissima di Hamas? La boutade dell’oscuro burocrate britannico-pakistano, di mestiere avvocato e non sempre patrocinatore delle cause più nobili, ha del sorprendente. Infranto il più impenetrabile dei tabù, carte alla mano adesso si può liberamente accusare lo Stato di Israele di “nazificazione”. È il massimo a cui la perversione della mente umana potesse aspirare. Dare del nazista a un ebreo sembrava una vetta d’infamia irraggiungibile anche per l’antisemitismo più spietato. Invece, Khan vi è riuscito dimostrando al mondo e alla Storia che tutto è possibile.
Riguardo alle concrete ricadute dell’iniziativa del Procuratore, ve ne saranno pochissime e tutte favorevoli al “catturando” Netanyahu. A cominciare dal fatto che se fino a ieri montava la protesta in Israele per cacciarlo via dalla guida del Paese, adesso inevitabilmente “Bibi” riceverà la solidarietà di tutti i suoi concittadini e il suo traballante Governo potrà vivere ancora per un po’. Altra conseguenza è la marcia indietro di Joe Biden che stava lavorando senza sosta alla defenestrazione del premier israeliano. Col suo intervento da elefante nella cristalleria, Khan l’ha combinata grossa bruciando di fatto l’alternativa al premierato di Netanyahu, che l’amministrazione di Washington stava mettendo in piedi. Chiedendo l’arresto per il premier e per il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, ma non per l’altro leader presente nel Gabinetto di guerra ma critico verso Netanyahu, Benny Gantz, Khan ha stroncato le possibilità di quest’ultimo di prendere le distanze dal premier per candidarsi successivamente al suo posto. Se davvero Netanyahu dovesse essere il demonio che i circoli progressisti occidentali descrivono, dovrebbe inviare fiori e cioccolatini al procuratore Khan allo scopo di manifestargli tutta la sua gratitudine per l’involontario favore resogli con la pagliacciata della richiesta d’arresto. Nella realtà, “Bibi” Netanyahu non verrà toccato perché, conoscendo la suscettibilità dei Servizi segreti israeliani, nessuno proverà a mettergli le mani addosso; la guerra continuerà fino a quando gli aguzzini di Hamas non staccheranno gli artigli dalle carni sanguinanti degli ostaggi israeliani ancora trattenuti con la violenza.
E i palestinesi? Pagano la loro ambiguità. Vorrebbero la botte piena e la moglie ubriaca. Pretendono che Israele li lasci vivere nel benessere e che nessuno, in cambio, gli chieda di pronunciare neanche una sillaba a favore del diritto degli ebrei a stare su quella terra. I palestinesi di Gaza sono Hamas, checché ne dicano i loro santi protettori in Occidente. Si fa un gran parlare di asimmetrie in questa torbida vicenda, ma l’unica vera asimmetria riscontrabile è proprio questa: l’afasia palestinese nell’affermare a voce alta il diritto d’Israele di vivere in pace sulla sua terra. Più che di un Procuratore-sceriffo i palestinesi avrebbero bisogno di buoni logopedisti, in grado di aiutarli a pronunciare le parole che non ce la fanno a venire fuori dalle loro bocche.
di Cristofaro Sola