Morte di Raisi, “macellaio di Teheran”. Ora inizia la difficile successione

martedì 21 maggio 2024


L’Iran ha annunciato ufficialmente la morte del presidente Ebrahim Raisi. A bordo dell’elicottero c’erano anche il ministro degli Esteri Hossein Amirabdollahian, il governatore della provincia dell’Azerbaijan orientale Malek Rahmati e il leader della preghiera del venerdì di Tabriz Mohammadali al-Hashem. Tra le vittime ci sono le guardie del corpo del presidente, il generale Mehdi Mousavi, un membro della base Ansar al-Mahdi delle Guardie rivoluzionarie, il pilota, il copilota e il tecnico di volo. L’incidente in elicottero è avvenuto in un’area accidentata vicino al confine con l’Azerbaigian, nella provincia dell’Azerbaigian orientale, nel nord-ovest dell’Iran, con una posizione strategica che ne fa un importante punto di comunicazione tra l’Iran e i paesi vicini, migliorandone lo status commerciale e culturale. Tabriz, la città principale della provincia, è un centro economico e culturale di rilievo in Iran, famosa per i suoi monumenti storici, tra cui il grande e antico mercato coperto di Tabriz. In passato, Tabriz è stata anche capitale dell’Iran sotto gli imperi Ilkhanato e Qajar.

L’Iran non dà l’impressione di essere un Paese in cui i presidenti muoiono accidentalmente. Inoltre, gli elicotteri della missione governativa erano tre e gli altri due sono atterrati senza problemi, infatti il capo di Stato maggiore iraniano ha ordinato un’inchiesta per capire le dinamiche dello schianto dell’elicottero. Tuttavia, l’elicottero aveva più di 40 anni e in Iran gli aerei spesso precipitano a causa delle cattive condizioni delle infrastrutture della Repubblica islamica (c’è un elenco aggiornato qui), che è isolata a livello internazionale a causa delle sanzioni. Sanzioni che alla fine, se la causa della morte di Raisi e degli altri fosse stato un incidente, allora avrebbero funzionato: potevano smettere di perseguitare il proprio popolo e di minacciare le altre nazioni con nucleare, droni e terrorismo. Azioni che non termineranno certo con la morte di Raisi e compagnia. Il popolo iraniano lo sa bene e, per un breve momento, si è concesso di celebrare la scomparsa di colui che ha ucciso, torturato e oppresso uomini e donne iraniani, prima come nerbo della violenza muscolare della magistratura, poi attraverso il Majilis. A Teheran, hanno festeggiato la morte di Raisi con fuochi d’artificio. A Saqqez, la città natale di Jina Mahsa Amini, fuochi d’artificio verdi, gialli e rossi hanno illuminato la strada principale affollata di macchine che suonavano i clacson. Anche molti iraniani in Inghilterra, Francia, hanno festeggiato la notizia dello schianto dell’elicottero che trasportava Raisi.

Raisi, conosciuto per il suo ruolo nel 1988 come viceprocuratore di Teheran e membro della “Commissione della morte”, è stato coinvolto nell’uccisione di migliaia di prigionieri politici. Come presidente, ha appoggiato la repressione violenta dei manifestanti del movimento “Donna, Vita, Libertà”. Nelle ultime quattro settimane, l’Iran ha registrato circa 120 esecuzioni, comprese quelle di 6 donne. Raisi non è stato un esempio di integrità morale. Conosciuto come “Il macellaio di Teheran”, epiteto attribuitogli dalla stampa estera, è famoso per la sua brutale repressione del dissenso antiregime. Il 13 novembre 2022, l’Iran ha emesso la prima condanna a morte legata alle proteste nazionali in corso, provocando una forte preoccupazione da parte dei gruppi per i diritti umani. Questi gruppi hanno avvertito del rischio imminente di esecuzioni per i manifestanti incarcerati. Secondo l’associazione no-profit Human Rights Activists in Iran, oltre 20mila persone sono state arrestate in relazione alle proteste iniziate a settembre 2022, in seguito alla morte di Jina Mahsa Amini.

Questi eventi hanno riportato alla ribalta episodi di persecuzione e violenza nelle prigioni iraniane, incluso il massacro del 1988. Raisi ha avuto un ruolo significativo nella cosiddetta “Commissione della morte”, incaricata di supervisionare l’esecuzione di migliaia di prigionieri politici. Questo massacro è considerato uno dei peggiori nella storia iraniana, non solo per il numero di vittime, ma anche per i successivi tentativi di occultamento da parte delle autorità. Nonostante le pressioni internazionali e la lotta delle famiglie delle vittime per ottenere giustizia, il regime di Raisi continua a giustificare queste azioni, definendole “esecuzioni di terroristi”. Amnesty International, in un rapporto del 1990, ha descritto il massacro del 1988 come un’operazione “premeditata”. L’orrore iniziò nel luglio di quell’anno, quando migliaia di prigionieri furono improvvisamente isolati dal mondo esterno, sottoposti a interrogatori, torture e esecuzioni sommarie. Le vittime includevano non solo dissidenti politici, ma anche appartenenti a minoranze religiose e persone coinvolte in attività pacifiche di opposizione al regime. La brutalità di questi eventi e la continua repressione sotto la presidenza di Raisi evidenziano il perpetuarsi di una politica di violenza e oppressione in Iran.

Molte delle vittime del massacro del 1988 erano sostenitori di gruppi oppositori che cercavano di rovesciare la Repubblica Islamica durante gli ultimi anni della guerra Iran-Iraq. La persecuzione degli oppositori da parte delle autorità iniziò subito dopo la fine del conflitto, con numerosi individui condannati a morte a causa delle loro presunte affiliazioni politiche e religiose. Nonostante gli sforzi del regime iraniano per nascondere questi omicidi di massa, la verità alla fine emerse, e molte famiglie delle vittime vennero a conoscenza della terribile sorte dei loro cari. Tuttavia, molti dettagli rimangono ancora oscuri, e molte famiglie non hanno mai ricevuto informazioni ufficiali sulla morte dei loro congiunti. La presenza di Raisi come viceprocuratore di Teheran durante il massacro del 1988 solleva interrogativi significativi sulla sua responsabilità e coinvolgimento nelle atrocità commesse. Le richieste di giustizia per le vittime persistono, con oltre 450 ex giudici e investigatori delle Nazioni Unite che chiedono un’indagine approfondita sulle esecuzioni e sul ruolo di Raisi. Questo solleva importanti questioni morali e legali riguardo alla responsabilità e alla necessità di rispondere delle violazioni dei diritti umani in Iran.

Le esecuzioni del 1988 segnarono un momento epocale nella storia dell’Iran, catalizzando l’opposizione di figure di spicco come Hassan Ali Montazeri, allora vice di Ali Khamenei. Montazeri, in un evento pubblico rivolgendosi a Raisi e agli altri presenti, dichiarò: “Avete commesso il più grande crimine nella storia della Repubblica iraniana”, preconizzando che la storia avrebbe condannato Khomeini come un criminale sanguinario. Questa critica portò alla sua rimozione da parte di Khamenei e alla sua detenzione agli arresti domiciliari per cinque anni, fino alla sua morte nel 2009, sempre sotto l’ombra del dissenso. L’ascesa politica di Raisi è intrecciata con una storia di crimini sanguinosi. La sua appartenenza alla “Commissione della morte” lo pose sulla via verso posizioni giudiziarie di alto profilo all’interno del regime. Dopo la morte di Khomeini, Raisi fu nominato procuratore generale di Teheran, su ordine dell’Ayatollah Yazdi, capo della magistratura all’epoca, e mantenne questa carica fino al 1994. Successivamente, guidò il Dipartimento di ispezione generale fino al 2004. Dal 2004 al 2014, fu il primo vicecapo della magistratura sotto le presidenze di al-Hashemi Shahroudi e Amoli Larijani, prima di diventare pubblico ministero in Iran. Nel 2012, fu nominato primo vicecapo dell’Autorità giudiziaria presso il Tribunale speciale per il clero dal leader della Rivoluzione.

La sua carriera politica ha subito un’accelerazione grazie ai suoi crimini contro gli oppositori del regime, culminando nella sua candidatura alle elezioni presidenziali del maggio 2021 e nella vittoria del 18 giugno 2021, che lo ha portato a diventare l’8º presidente della Repubblica Islamica. Prima di aspirare ai vertici del potere, le inclinazioni politiche di Raisi erano in gran parte oscure, limitate ai suoi ruoli giudiziari. Tra i potenti del regime, appariva come una figura riservata, poco incline ai discorsi politici o agli eventi pubblici, conosciuto soprattutto per la sua rigida inclinazione religiosa. Mentre era molto apprezzato dai dittatori con i quali l’Iran intrattiene lucrosi e loschi affari. “Una persona eccezionale e un grande essere umano, difensore della sovranità del popolo iraniano” lo ha definito Nicolás Maduro, il presidente del Venezuela che si è detto addirittura “sconvolto” per la notizia della morte dell’omologo iraniano. Hamas ha espresso “sincere condoglianze, profonda simpatia e solidarietà. Il Pakistan ha dichiarato una giornata di lutto nazionale. Il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan ha espresso tristezza e così Assad, i capi di Hezbollah e Vladimir Putin.

E ora cosa accade? L’articolo 131 della Costituzione prevede che se il presidente muore mentre è in carica, il suo primo vicepresidente assume l’incarico, con la conferma della guida suprema, Ali Khamenei, che ha l’ultima parola su tutti gli affari del Paese. Un consiglio composto dal primo vicepresidente della Repubblica, dal presidente del Parlamento e dal capo dell’Autorità giudiziaria provvederà inoltre all’elezione di un nuovo presidente entro un termine massimo di 50 giorni. Per la politica interna iraniana il momento è complesso: lo scorso marzo si sono tenute le elezioni parlamentari, che hanno registrato la più bassa affluenza alle urne dalla fondazione della Repubblica islamica. A queste elezioni è seguito un secondo turno, a cui nelle grandi città ha partecipato solo il 10 per cento degli elettori, lasciando il Paese in attesa di conoscere il nuovo speaker del Parlamento. Nonostante i tentativi di escludere candidati non allineati con l’establishment, la competizione elettorale ha evidenziato lo scontro politico sempre più acceso tra conservatori e radicali all’interno della leadership iraniana.

La morte di Raisi arriva in un momento di forte tensione tra le vecchie e le nuove generazioni di conservatori estremisti, che potrebbe portare a una maggiore coesione della leadership in una fase di crisi per la Repubblica islamica, oppure esacerbare ulteriormente le tensioni con accuse e richieste di chiarimenti su quanto accaduto. Agli occhi della maggior parte degli iraniani, sono il leader supremo e le Guardie della Rivoluzione islamica a prendere le principali decisioni politiche ed estere. Tuttavia, la morte di Raisi complicherà ulteriormente la già intensa sfida per la successione alla guida del Paese, dove l’ayatollah Khamenei è comunque vecchio e malato e sembra sia intenzionato a nominare suo figlio Mojtaba Khamenei, 55 anni, come guida suprema, ma lo scorso marzo due religiosi iraniani avevano affermato che Khamenei si opponeva alla successione ereditaria, come le sunnite monarchie del Golfo, ad esempio. Intanto si dovrà capire se si sia trattato di uno sfortunato incidente. Oppure se c’è stato il sabotaggio da parte di qualche “mano” esterna. O addirittura interna, magari qualche gruppo di potere che punta alla guida religiosa del Paese. Raisi aveva mandato i suoi emissari in Oman per avviare i colloqui con gli Stati Uniti sulla stabilizzazione del Golfo, il che ha fatto infuriare il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica.

(*) Tratto da La Nuova Bussola Quotidiana


di Souad Sbai (*)