giovedì 16 maggio 2024
Mentre impazza la campagna elettorale per il Parlamento dell’Unione europea, può essere utile qualche noticina sul tema della tolleranza verso gl’islamici, che non riguarda soltanto l’Italia, ma pone e porrà viepiù problemi anche in molti Paesi comunitari.
Cominciamo col dire che la “questione della tolleranza” non si pone allo stesso modo negli Stati tolleranti, cioè con una costituzione che garantisce le libertà fondamentali, e negli Stati intolleranti, che cioè non le garantiscono, in tutto o in parte. La nostra Costituzione ha fondato una Repubblica nella quale la tolleranza rappresenta un principio fondamentale, forse il principio dei principi. In altre parole, la democrazia liberale propriamente detta poggia su diritti e poteri reciprocamente contemperati, contro le cui violazioni ed abusi è dato ricorso ad un giudice indipendente. L’uguaglianza legale è la base giuridica della tolleranza. I Greci adoperavano una sola parola, isonomia, che però designava una realtà più complessa ed aveva tre significati coessenziali: stessa legge, stessa giustizia, stessa uguaglianza. Non viene mai sottolineato abbastanza che l’isonomia ha preceduto e generato la democrazia, non viceversa. Del resto, sia la parola democrazia sia il sistema politico, senza l’isonomia, sono la maschera dell’illiberalismo.
In via generale, la “questione della tolleranza” s’impone principalmente con riguardo ai limiti, perché “tollerare e basta” comporta effetti negativi e anche distruttivi della libertà e della democrazia. Nelle potenti parole di Karl Popper: “La tolleranza illimitata porta inevitabilmente alla scomparsa della tolleranza stessa. Infatti, se si manifesta tolleranza nei confronti di chi pratica l’intolleranza, se cioè non si è disposti a difendere la società della tolleranza contro gli assalti degli intolleranti, allora i sostenitori della tolleranza verranno annientati e con loro la tolleranza. In nome della tolleranza dovremmo allora rivendicare il diritto di non tollerare l’intolleranza”.
Bisogna sottolineare che le parole di Popper non sono una profezia, bensì la fotografia di un passato comune a grandi e piccole nazioni, quindi un imprescindibile monito per l’avvenire. Inoltre, generalmente parlando, occorre ricordare a riguardo che la sinistra tende a disconoscere “il diritto di non tollerare l’intolleranza”, mentre la destra lo concepisce a preferenza come costrizione. Sono due interpretazioni parimenti imprecise, sempre parlando in generale, perché non contemplano tutti gli aspetti di una società libera e non tengono in dovuto conto il postulato dell’uguaglianza legale.
La “questione della tolleranza”, che nell’Italia precedente ha riguardato sostanzialmente la politica antagonista, i movimenti antisistema, i gruppi terroristici, le manifestazioni violente, comincia ad interessare problematicamente la religione da quando le correnti migratorie hanno portato a far stanziare sul territorio nazionale le comunità musulmane, molte delle quali pretendono di professare la loro fede in aderenza ai suoi precetti, sebbene disattendano o addirittura contrastino le norme italiane, costituzionali, legislative, amministrative. Senza addentrarci nei risvolti teologici della religione islamica, dobbiamo considerare le sue pratiche nella vita di tutti i giorni, quelle di natura pubblica, escludendo le domestiche e intime. Conviene altresì prescindere dalla risposta che viene data al quesito se l’islamismo contenga un’intrinseca carica prevaricatrice, sia in senso religioso che sociale. Stando ai fatti qui in Italia, abbiamo esempi dell’una e dell’altra risposta, della positiva come della negativa.
Innanzitutto dobbiamo rimarcare, ad onore e vanto della civiltà italiana e della Repubblica, che proprio a Roma, sede del papato e faro del cattolicesimo, secolare nemico dell’Islam, sorge la più grande moschea d’Europa, sì d’Europa, inaugurata nel 1995, progettata da un architetto italiano, approvata dal Governo italiano, avallata dalla Chiesa. La moschea è il principale luogo di culto della comunità musulmana e sede del Centro culturale islamico d’Italia. Per contro, bisogna sottolinearlo a dovere, niente di paragonabile esiste in nessuna nazione nella quale l’Islam sia la religione di Stato, esclusiva ed assoluta.
A questo punto s’innesta la connessa questione della reciprocità, alla quale alludono sguaiatamente certi opinionisti e certi politici desiderosi di mostrarsi intransigenti difensori di una pretesa identità nazionale o italianità cattolica, ma inconsapevoli di calpestare la Costituzione in nome della quale improvvidamente pure parlano. Infatti, mentre i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica sono regolati in Costituzione dai Patti Lateranensi, le confessioni religiose diverse dalla cattolica, ugualmente libere davanti alla legge, hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano, mentre i loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze: tutto ciò stabilisce la nostra Costituzione. La questione della reciprocità deve perciò essere posta nei termini esatti. Noi non possiamo dire agli islamici d’Italia: “In campo religioso, questo non lo potete dire o fare finché noi non potremo dire e fare altrettanto nel vostro Paese”. Ce lo proibisce la nostra Costituzione. Infatti, ciò che gli islamici d’Italia possono dire e fare in Italia lo stabiliscono la Costituzione e le leggi conseguenti, né costoro “rispondono” della condotta del loro Paese d’origine verso il cattolicesimo colà praticato oppure vietato. Quale Paese, poi?
L’esercizio delle nostre fondamentali libertà costituzionali non può, “ratione iuris”, essere sottoposto a condizioni di reciprocità. Inoltre, mentre altri culti acattolici hanno stipulato intese anche finanziarie per professare in tali limiti il loro credo, accordi del genere si sono finora rivelati impossibili con la religione islamica, sia perché la “umma”, la comunità dei credenti, ha un significato tanto religioso quanto politico-ideologico, sia perché nell’Islam non esiste un’unica autorità religiosa bensì varie figure che svolgono questo ruolo nelle comunità mentre negli Stati succede che ne siano al contempo capi politici. Il peculiare carattere dell’Islam, carattere che è teologico e sociale, genera le maggiori complicazioni nella pratica della convivenza e della tolleranza, anzitutto perché “non fa certo parte della religione imporre la religione” (Tertulliano). Dall’imposizione, come gl’islamici mostrano di pretendere con intollerante e invadente proselitismo dove non governano lo Stato, proviene nulla di buono ai credenti e ai non credenti. Lo dimostra la storia dei rapporti tra religioni.
Purtroppo è ciò che stiamo iniziando a sperimentare in Italia da parte di certo islamismo radicale che esorbita dalle libertà civiche, pervertendole in arbitrari comportamenti che sfociano in prepotenze spacciate per imprescindibili pratiche religiose. I casi si stanno moltiplicando in tutta l’Italia e, salvo vampate polemiche originate da specifici fatti di natura delittuosa, non destano che sporadicamente la dovuta attenzione. Luoghi di culto ricavati nei più improbabili locali; pretese improprie di ottenere il rispetto di precetti stravaganti, dal cibo all’abbigliamento; preghiere di massa in luoghi pubblici, dalle piazze alle strade; pretese e pratiche in materia di famiglia confliggenti con i nostri legalizzati costumi di civiltà, dall’applicazione di un’etica particolare alla poligamia occulta. Nell’Islam la sharia è il complesso delle regole di vita e di comportamento dettato da Dio per la condotta morale, religiosa, giuridica dei suoi fedeli. Di queste regole possono e debbono essere tollerate quelle che non violano le nostre libertà e i nostri codici, benché poco o punto conformi ai nostri costumi. Ma, riguardo alle molte altre, abbiamo già da tempo rinunciato a rivendicare ed esercitare il popperiano “diritto di non tollerare l’intolleranza”.
Soffermandoci sulla fattispecie più clamorosa ed emblematica, l’uso sfacciato degli spazi pubblici è sotto gli occhi di tutti, di chi vuol vedere e di chi finge di guardare altrove. In molte e varie città, grandi e piccole, le comunità islamiche, dove numerose, dove minori, occupano con larvate intimidazioni il suolo pubblico per pregarvi in massa, come se la preghiera le legittimasse. Piazze e strade vengono invase da fedeli islamici in preghiera, alla stregua di moschee a cielo aperto (moschee che invece restano quasi vuote!), impedendo anche con minacce il passaggio dei cittadini per il tempo della funzione. È credibile che decine di migliaia di musulmani convergano casualmente nello stesso luogo per lo stesso motivo? Oltre questo specifico uso dei luoghi pubblici, per giunta discriminando le donne come impongono i loro precetti, gli islamici tentano gradualmente d’impossessarsi del territorio, un isolato o persino un quartiere dove vivono in maggioranza, fino a costituirvi, nei casi più estremi, una sorta di enclave sottratta, se non ai controlli di polizia, alle regole dell’italiana convivenza civile, applicandovi in segreto la sharia per quanto possibile.
Il nostro Niccolò Machiavelli sosteneva che tutti i fenomeni politici “principian piccioli”, ma immancabilmente, se non frenati, diventano grandi e incontrollabili. Il modo di comportarsi degli estremisti islamici in Italia (ma la forma mentis in questione è abbastanza comune perché plasmata dalla loro fede) ha superato la soglia di guardia. Le autorità politiche, per quieto vivere, malintesa acquiescenza, timori indotti da motivi interni e internazionali, lasciano senza ordini ed inerti le forze di polizia. Lo scopo religioso dell’occupazione massiva dei luoghi pubblici non è un’attenuante. L’occupazione poi è discriminatoria verso i non islamici, ai quali identiche o analoghe condotte non sarebbero consentite sotto pretesti consimili. Non solo l’autorità politica, ma anche la magistratura e la polizia giudiziaria, preposte a perseguire i reati e a impedirne più gravi conseguenze, riluttano ad intervenire sul fenomeno sebbene riprovato dai cittadini che lo subiscono ed il cui spirito di sopportazione appare esaurito in certe zone sottoposte di fatto al diffuso controllo della comunità islamica. A tale stato di cose si attaglia il consiglio di Machiavelli al suo Principe, e dunque ai nostri governanti: “Avviene quel che i medici dicono a proposito della tisi, che all’inizio è facile da curare ma difficile da diagnosticare, e che col passar del tempo, non essendo stata all’inizio né diagnosticata né curata, diventa facile da diagnosticare e difficile da curare. Lo stesso accade negli affari di Stato. Se, come solo ai saggi è concesso, conosci con anticipo i mali di uno Stato, li guarisci presto; ma quando, per averli conosciuti, li hai fatti crescere fino al punto che ognuno li conosca, non c’è più rimedio” (Il Principe, III, 8, versione in italiano odierno di Piero Melograni). Al tempo di Machiavelli non esisteva l’isonomia. L’uguaglianza legale di tutti i cittadini sarebbe venuta secoli dopo. Il sovrano doveva ingegnarsi a governare i sudditi. La tolleranza religiosa, in buona sostanza, era meno un istituto giuridico che una misura politica, una sorta di “instrumentum regni”.
Nell’Italia di oggi la “questione della tolleranza” deve essere risolta come detta la Costituzione repubblicana. Per scongiurare che nel futuro prossimo i cittadini, costretti dall’esasperazione, ricorrano a vie di fatto contro la prepotenza degli estremisti islamici camuffati da musulmani pii, una ed una sola è la soluzione, che consiste nel rigoroso esercizio del “diritto di non tollerare l’intolleranza” e nell’intransigente applicazione dell’articolo 3, primo comma, della Costituzione, che solennemente proclama: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni sociali”. E ci ammonisce che la donna musulmana è uguale all’uomo musulmano, comunque la pensi quest’ultimo; che tutti i musulmani possono pregare alle stesse condizioni dei fedeli delle altre religioni nei loro propri luoghi di culto; che tutti i musulmani sono soggetti, alla pari degli altri fedeli, al codice civile e penale, alle norme sull’ordine pubblico e sugli spazi pubblici; che le loro feste religiose devono essere festeggiate nelle moschee e nelle loro proprietà private, finché una legge non le riconosca feste nazionali; che nessuna autorità pubblica, sotto il pretesto della religione e dell’ineguaglianza, conceda o tolleri comportamenti privilegiati che trasgrediscono, essi sì, l’uguaglianza legale. Negli Stati islamici, notate bene il paradosso, ai musulmani è di norma proibito usare piazze e strade come qui da noi, salvo che siano espressamente autorizzati dai loro governanti, il che accade per motivi politici piuttosto che religiosi!
Gli estremisti islamici devono smetterla di considerarsi sciolti dalle nostre leggi che giudicano in contrasto con i loro precetti religiosi e di pretendere trattamenti particolari (“privilegia”) che spregiano il principio di uguaglianza. La Repubblica deve ottenere il rispetto della Costituzione e dell’ordinamento giuridico. Lo Stato, forte dell’autorità morale e legale, deve farglielo capire per tempo, con le buone o le cattive, affinché la medicina non arrivi quando il male è ormai incurabile. La tolleranza che tollera l’intolleranza fa la fine che merita.
di Pietro Di Muccio de Quattro